Intervista a Massimo Donà,
autore del libro Il mistero dell’esistere.
Arte, verità e insignificanza nella riflessione teorica di René Magritte
di Luca Taddio
Nella progressiva estetizzazione che le nostre società stanno conoscendo in questi
ultimi anni, quale può essere il significato di una riflessione filosofica di un autore
che non è un filosofo, ma un pittore, come Magritte?
Può essere molto, molto utile. E innanzi tutto per evitare che si continui a
confondere l’arte con l’ornamento, con il ‘piacevole’, con qualcosa di semplicemente
‘bello’ nel senso di sensibilmente gradevole. D’altro canto un ben preciso filone
dell’estetica occidentale (a partire da Aristotele) avrebbe finito per ridurre l’arte e
l’estetico a qualcosa di relativo al gusto. Intendendola come una mera esperienza del
sentire. A questo mira d’altronde l’estetizzazione diffusa; ovvero, a rendere gradevole
la nostra vita, a far sì che l’ambiente in cui ci troviamo ad esistere sia in qualche
modo stimolante e gratificante al senso (vuoi della vista, vuoi dell’udito….). Da cui
una quantità di immagini tecnicamente ben confezionate, anzi spesso molto raffinate
e ben-fatte.
Di contro a questa tendenza prevalente, Magritte rivendica dunque un altro senso
del fare artistico. Che nulla ha dunque a che fare con l’aisthesis, ovvero con la
“sensibilità”. O anche, con la buona fattura; con l’armonia, la piacevolezza.
Un senso in virtù del quale viene assegnato all’arte in un ruolo assai complesso:
consentendoci di fare finalmente i conti con il vero e proprio esistere dell’esistente.
Un’arte, cioè, specificamente impegnata ad illuminare il mistero della pura esistenza.
Il mistero di un essere assoluto; ossia, del tutto privo di determinazione specifica.
Eppure sempre presente nelle cose determinate che incontriamo ogni giorno.
Un’arte realmente metafisica, insomma; e di natura specificamente ontologica. E
tutto questo Magritte lo dice con la massima esplicitezza; in copiose pagine di
riflessioni che tutti dovremmo leggere !
Ché, “arte” è per lui solo ciò che riesce a svuotare le immagini (di cui pur si deve
fare uso) dal senso che esse hanno per ognuno di noi (indipendentemente dal livello
più o meno raffinato di riconoscimento concettuale del loro significato), e le
riconsegna allo sguardo innocente in grado di incontrare il loro insensato esistere.
Ovvero, il miracolo del loro gratuito e ‘solitario’ esserci.
La riflessione di Magritte sembra già chiaramente esplicitata dai suoi quadri: che
significato ha secondo Lei prestare attenzione anche alle sue riflessioni teoriche?
Certo, Magritte è un grande pittore; ma, se i suoi quadri mostrano qualcosa, questo
qualcosa è ciò che raramente il senso comune riesce a riconoscere per quel che esso
davvero è. E in ogni caso questo qualcosa, se viene davvero mostrato dai quadri di
Magritte (come io credo), viene comunque mostrato per un motivo squisitamente
filosofico. È d’altro canto lo stesso Magritte a dircelo, esplicitando alcune delle sue
ossessioni fondamentali. E scrivendo pagine su pagine con non minore intensità di
quanto avesse fatto e continuasse a fare con tela, colori e pennello. È Magritte stesso
a non considerare più l’arte come puro esercizio di stile: l’arte è per lui una
possibilità; la possibilità di provocarci all’essere di tutto ciò che esiste e ai suoi
paradossi. Di richiamarci ad una destinazione metafisico-ontologica – quella,
appunto, che l’atteggiamento quotidiano sembra destinato a rimuovere. Perciò è utile
un approccio filosofico all’esperienza magrittiana. Se è vero che il suo gesto artistico
è un gesto filosofico, allora chi meglio della filosofia può aiutare a disporsi al
cospetto della loro potenza incantatoria (senza che ci si abbandoni cioè a ben più
comodi psicologismi… magari di bassa lega) ?
D’altronde, le sue opere mostrano davvero quel che mostrano. Ovvero, davvero
esibiscono i significati che di fatto esibiscono (e non potrebbero farne a meno). Ma
ciò che in ogni esser vivente (tra quelli manifesti) l’artisticità mostra – almeno,
secondo Magritte – è appunto il semplice “esser negato” di ciò che in essa e per essa
comunque si mostra.
Magritte non è certo l’unico pittore che nel Novecento ha voluto proporre nella
sua opera e nella sua riflessione la propria concezione del mondo e delle cose
(pensiamo a Chagall o a Kandinskij), anzi possiamo dire che quasi tutta l’arte del
periodo è al contempo riflessione sull’arte. Qual è a suo vedere l’originalità del
contributo di Magritte?
L’originalità di Magritte, in un contesto che sarebbe sfociato nella
radicalizzazione kosuthiana (là dove l’arte si sarebbe appunto risolta nella propria
definizione) consiste innanzi tutto nell’essere riuscito in una operazione doppia.
Abbiamo già detto che la sua intenzione è rigorosamente filosofica; ma l’oggetto da
lui artisticamente prodotto non è un trattato di filosofia, e neppure è una definizione
dell’arte. Al contrario, i propri oggetti artistici devono, ai suoi occhi, riuscire a
mettere tra parentesi i concetti da cui non possono comunque prescindere. Devono
mostrarsi; devono mostrare il mistero della ‘somiglianza’. Devono inscriversi nel
vero e proprio a-mentale.
Certo, nel Novecento si sarebbe diffuso anche un approccio specificamente
concettuale. Ma non si tratta di quanto veniva tentato da Kandinskij e Chagall, da
Klee e Duchamp. Anche se in Duchamp la cosa sarebbe stata comunque più ambigua.
In tutti questi artisti infatti (così come in Magritte) l’intenzione rimane quella di dar
forma a quella che viene ancora intesa come un’opera d’arte. Certo, tutti costoro
avrebbero scritto pagine straordinarie per spiegarci da quali ossessioni muovesse il
loro fare; ossia, quale fosse l’intenzione filosofica di fondo sottesa al loro fare
materiale. Grande è la consapevolezza guadagnata nel Novecento dai grandi
protagonisti del mondo dell’arte. Ma tutto ciò non ha nulla a che fare con la pretesa
che sarebbe cresciuta solo nella seconda metà del Novecento, relativa appunto
all’aspirazione, da parte dell’arte, a trasformarsi in filosofia. Certo, prima di Kosuth,
già Malevic avrebbe prefigurato tale situazione; ed anche Beuys avrebbe voluto
trasformare il fare artistico in una vera e propria possibilità per la rideterminazione
dell’umana esistenza – la quale avrebbe anche potuto risolversi in una semplice
espressione verbale. O magari risolversi in un vero e proprio trattato di filosofia
sociale.
Sappiamo che insigni filosofi contemporanei (Foucault, per fare un esempio)
hanno riconosciuto nei confronti di Magritte un debito teorico importante: come
giudica questa penetrazione di Magritte nella riflessione filosofica? Puramente
strumentale o una feconda linea di pensiero?
Magritte avrebbe stimolato moltissimo gli intellettuali europei dell’epoca. Il suo
confronto con Merleau-Ponty è noto. La filosofia del Novecento (della seconda metà
del Novecento) avrebbe cioè individuato in Magritte una potenza rivoluzionaria che
pochi altri artisti avrebbero saputo rivelare.
Insomma, i veri pensatori non avrebbero potuto rimanere indifferenti di fronte
ad una radicalità estetica come quella magrittiana – che sarebbe apparsa tanto più
radicale quanto meno confondibile con una semplice provocazione stilistica o
formale. Anzi, Magritte sceglie di essere perfettamente classico nell’uso del colore e
del disegno; non si concede cioè a facili estemporaneismi….. non si affida cioè alla
rabbia di un gesto astrattamente informale. Ma proprio perciò può apparire con
maggior chiarezza e con concreta potenza icastica la radicalità del suo assunto
estetico: ovvero l’inaudita potenza di un intento che è sempre estetico e metafisico ‘in
uno’.