DAL '900 AD OGGI,I DIVERSI MODI DI AVVICINARSI A DANTE
Data: Sabato, 05 aprile 2008 ore 16:52:35 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Dal ‘900 a oggi, i diversi modi di avvicinarsi

a Dante

di Giovanni Campus* 

 

Nella canzone Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze Leopardi giudicava gli Italiani – nel caso deprecabile che si fossero dimenticati di Dante – degni di sciagure ancora maggiori di quelle che egli aveva sotto gli occhi in quell’autunno 1818: “(…) in sempiterni guai / pianga tua stirpe a tutto il mondo oscura” (v. 81-85). Giunti verso la fine del primo decennio del Duemila, noi dovremmo dire che questo appassionato rigore del poeta appena ventenne non ci tocca, dal momento che i televisori hanno potuto portare dentro le case di tutta Italia i commenti alla Commedia condotti da Roberto Benigni davanti al vasto pubblico della piazza fiorentina di Santa Croce. E in effetti il diffondersi, in tutta la Penisola, di vari tipi di letture dantesche al di fuori delle scuole è stato uno dei riti collettivi che hanno caratterizzato il nostro passaggio dal secondo al terzo millennio, facendo uscire Dante dall’ambito – nobile ma un po’ chiuso in sé stesso – delle aule scolastiche o universitarie. Cerchiamo di analizzare più da vicino questo rito, ai suoi diversi livelli.

 

Benigni e le letture al vasto pubblico

L’interesse enorme suscitato da Benigni come interprete di Dante – arrivato dopo anni di successi come attore e come regista – non ha trovato soltanto consensi. Citiamo, tra quelli che lo rifiutano, il regista Zeffirelli: “Non riesco ad allinearmi alla moda del momento, boccio Benigni su tutta la linea… abbaglia la gente… è un fenomeno da baraccone, ha stravolto Dante invece di interpretarlo… per intendere la profondità di Dante ci vuole cuore, e dubito che quel signore lo abbia…. racconta Dante come se fosse un suo vicino di casa…” (febbraio 2008). All’estremo oppostosta il parere del cardinale Bertone, che il 9 dicembre 2007 ha lodato come “degno dei più alti teologi” il commento di Benigni all’ultimo canto del Paradiso. In una via di mezzo si colloca la perplessità di un altro commentatore di successo, Vittorio Sermonti: “Per leggere Dante ci vuole uno scrittore e non un attore, che rischia di farsi sopraffare dalla sua bravura…Benigni è un esempio emozionante… Il suo modo di attualizzare Dante è divertente, ma non si possono dire spiritosaggini e cose un po’ ovvie per adescare il pubblico… Dante è duro e severo, e ci vuole durezza e severità per capirlo. È un’operazione delicatissima, che non si può fare alla buona. Ho 78 anni, e mi dispiace di lasciare il campo a questo tipo di divulgazione allegra”(27 novembre 2007). Veramente Zeffirelli non giustifica il suo schematismo quando ‘dubita’ che Benigni abbia del cuore. Le imperfezioni della lettura di Benigni vengono anzi dal suo ‘eccesso di cuore’, dalla sua ‘passione’ dantesca, nel senso proprio che lui il verso dantesco lo ‘patisce’, lo soffre, se lo prende letteralmente in braccio, come ha fatto con certi famosi personaggi (anche politici) capitati sullo stesso palco accanto a lui negli anni scorsi. Ma si dirà che questo è un atteggiamento ‘giullaresco’. Ebbene? Caricandosi di un ruolo di giullare egli non tradisce affatto lo spirito di Dante (il quale aveva anche duellato senza riguardi nella tenzone di insulti con Forese Donati), ma rientra in pieno nel Medioevo delle corti signorili o delle piazze del Trecento; e questo vale anche quando Benigni del giullare assume pure la gesticolazione, la mimica esteriore.

 

Benigni è parente del fiorentino e dantesco falsificatore Gianni Schicchi, perché è un ‘folletto’ anche lui (Inferno, canto XXX). Questo ‘Robertino’ sembra uscito dalla animazione affaccendata della bolgia quinta, dei barattieri (canti XXI e XXII), piena di diavoli svolazzanti, dai nomi fantasiosi e pirotecnici, oltre che di dannati più svelti e imprevedibili di loro. Però Benigni non falsifica e non trama inganni, perché mette le sua sveltezza e la sua agitata giocondità al servizio del livello profondo dello scrittore che ci sta presentando. Egli ‘sente’ la poesia di Dante perché è un poeta anche lui, Benigni: il rapporto è ‘da poeta a poeta’, oltre che da toscano a toscano. E siccome a ogni momento, e quasi a ogni terzina egli cerca di passare dal livello puramente estetico allo strato dell’insegnamento morale, possiamo e dobbiamo perdonargli qualche inesattezza nella spiegazione letterale o qualche lacuna di approfondimento (per esempio, nel primo canto non si è fermato a illustrare la figura del Veltro), perché dobbiamo guardare al fatto essenziale, cioè che Benigni ci vuole riconsegnare Dante come ammonitore, come guida, come viatico verso una umanità più alta: e che cosa è questo se non puntare a quel ‘senso morale’ (se non propriamente a quello ‘anagogico’) di cui Dante ci parla nel Convivio distinguendo i diversi ‘sensi’ delle scritture? Per amare veramente Dante bisogna, infatti, ‘credere’ a quello che dice, al di là dell’ammirazione per la bellezza e la grandezza dell’arte sua; e non era ‘giullaresca’ ma da credente la lettura che Benigni ha fatto dell’ultimo canto del Paradiso. E poi, perché essere esigenti soltanto con Benigni, dal momento che di fronte ai versi di Dante dovremmo sentirci, tutti, ‘in piccioletta barca’? Casomai dovremmo lamentarci se Benigni non sapesse o non volesse leggerci anche qualche canto dal Purgatorio (la cantica forse più umana, più ‘quotidiana’ del poema). Benigni ha dimostrato che tanta parte della ‘moralità’ di Dante può essere additata e trasmessa al popolo anche al di fuori della scuola, proprio come un messaggio di vita; anche se è vero che dopo il commento (quando alla fine recita il canto a memoria, e al ‘giullare’ subentra il ‘cantastorie’), talvolta egli recita con ritmo troppo veloce, senza fare le pause necessarie, senza quella intonazione varia e mossa che il meraviglioso e spesso stupefatto ‘racconto’ dantesco richiede, se si vuole trasmettercelo come racconto e non come un discorso tutto uniformemente serio e uguale.

 

Vittorio Sermonti: ‘divulgare conversando’

Vittorio Sermonti – che aveva curato, fra il 1987 e il 1992, una serie di trasmissioni radiofoniche sulla Commedia, e le aveva poi pubblicate in tre volumi, con la supervisione dei filologi Gianfranco Contini (per le prime due cantiche) e Cesare Segre (per la terza cantica) – ha presentato in diverse stagioni, in varie città d’Italia, da Nord a Sud, tutti i canti del Poema, con commenti dotti (e tuttavia tutt’altro che cattedratici), continuando un’antica tradizione iniziata con il Boccaccio (il quale aveva potuto condurre il commento dell’Inferno fino al 26° canto). Sermonti – leggendo Dante in grandi ambienti monumentali o in grandi chiese (a Firenze in Santa Croce, a Roma fra i ruderi dei Mercati di Traiano e infine nel Pantheon) ha raccolto attentissime folle di ascoltatori di cultura media e medio alta con una impostazione che lui stesso ha definito ‘divulgare conversando’, con un tono amabile, di rispetto che si direbbe ‘confidenziale’ verso il Poeta.

 

Contini ha detto che Sermonti, nel suo ‘racconto’ dantesco, “si fa dare conforto e coraggio dall’ironia”. Diversamente da Benigni, non c’è problema di interpretazione allegorica, o incertezza di spiegazione letterale, o sia pur difficile questione di astronomia tolemaica su cui Sermonti sorvoli, sia perché le considera tutte più o meno importanti, sia perché possiede l’attrezzatura culturale per affrontarle, oltre alla efficacia e precisione nelle sue ricostruzioni delle costumanze del Trecento (per esempio, il ‘gioco della zara’ all’inizio del sesto canto del Purgatorio) o nelle innumerevoli rievocazioni di personaggi e di luoghi (come l’ambiente culturale della Sorbona a Parigi, nel commento al decimo del Paradiso ). Egli ha condotto con sicurezza il suo pubblico a sciogliere gli enigmi allegorici, come pure i complessi rapporti di echi e di incroci fra rimatori stilnovisti e lirici siciliani, trovatori provenzali e trattatisti d’amor cortese, cioè il contesto letterario in mezzo al quale lo stesso Dante operava. “Andrei molto fiero – conclude lo stesso Sermonti – se questi miei libri dovessero istigare uno solo dei misteriosi diciottenni d’oggi a leggere la Divina Commedia…” Si può dunque ben sperare, concludendo, che entrambi, Benigni e Sermonti, ciascuno con il suo stile, abbiano lasciato in molti dei loro uditori il desiderio di tornare a leggersi Dante, in una lettura individuale, e sentire dunque Dante come ‘vivo’ (come già lo chiamava - nel titolo di un suo celebre libro del 1933, Dante vivo - un altro fervido scrittore toscano, Giovanni Papini).

Il fiorire delle letture dantesche

Anche per la scia lasciata da questi due propagandisti di Dante, nell’Italia dei tempi recenti è stato tutto un fiorire di iniziative, o un riprender vigore di iniziative già esistenti: si registrano, per esempio, cicli di letture dantesche, oltre che naturalmente a Ravenna, anche a Venezia, a Savona e ad Albenga, ad Acqui, a Pesaro e Urbino, in Abruzzo (Torre dei Passeri) nonché nella chiesa di Polenta in Romagna, e a Verona (dove le letture dantesche sono state aperte anche a studenti delle scuole secondarie superiori), e così via. Talvolta queste letture vengono inserite in manifestazioni che comprendono mostre (stampe, manoscritti…) o concerti di musiche medioevali (canto gregoriano o musica profana).

Nella scuola Dante come ‘padre’ della lingua italiana

In questo quadro quale è (o quale dovrebbe essere) il ruolo della scuola? La scuola secondaria superiore, nei diversi suoi rami, ha avuto da sempre il dovere di introdurre alla conoscenza di Dante, facendo conoscere (con ampiezza maggiore o minore, con scelte antologiche più o meno allargate) le linee generali del mondo dantesco, gli episodi e i personaggi principali della Commedia, e soprattutto il messaggio morale del poeta, evitando sovraccarichi di erudizione, ricordando il ruolo di Dante come ‘padre’ della lingua italiana; e se, naturalmente, Dante può essere meglio approfondito in un settore di tipo liceale (ma, in un certo senso, tutti i settori dovrebbero essere considerati ‘licei’) , non dovrebbe essere troppo emarginato in un ambito tecnico-scientifico, in nome della complementarità delle due culture, la scientifica e l’umanistica. Al di là dell’informazione generale e dell’educazione alla lettura, comunque, lo scopo dovrebbe essere quello di lasciare, in tutti i giovani, una traccia, almeno, di ‘amore per Dante’; o almeno di non lasciare di Dante, in loro, un ricordo sgradevole, cioè di pesante scolasticismo. Per ottenere questo scopo, naturalmente, ci vogliono docenti che diano essi, per primi, l’esempio di questo amore per l’opera dantesca, anziché dare l’impressione, come talvolta è accaduto, di trattare la lettura della Commedia soltanto come un fastidioso dovere imposto dai programmi.

ll punto aggiornato degli studi danteschi

Al livello universitario compete soprattutto – ma non esclusivamente – alle cattedre di filologia e critica dantesca la missione di portare avanti non solo lo studio del poema ma anche delle opere minori. Uno studio infinito, come si sa, dove i temi dell’interpretazione allegorica si intrecciano allo studio delle fonti (dell’occidente filosofico-teologico cristiano e del Mediterraneo ebraico e islamico, oltre che naturalmente delle fonti letterarie e mitologiche della classicità); e alla esplorazione storico-erudita dei tempi di Dante, in Italia e fuori d’Italia, si intreccia l’analisi della poesia (e dei suoi legami con la musica e con le arti figurative dell’epoca); e vengono in primo piano i problemi della critica testuale, i quali tenderanno sempre a un approdo – la definizione del testo originario (nel mare delle varianti e nel labirinto delle tradizioni manoscritte) – che è approdo irraggiungibile, data la dolorosa mancanza di qualsiasi manoscritto autografo, fosse pure ridotto a una sola riga. Oltre a ciò, le cattedre dantesche contribuiscono alla organizzazione di mostre iconografiche (giacché i ritratti di Dante, da Giotto in poi, e le illustrazioni della Commedia – dalle miniature trecentesche al Botticelli, alle miniature rinascimentali, alle stampe sei-settecentesche, al Blake, al Pinelli, al Doré e agli altri illustratori dell’Ottocento e del Novecento – sono sempre stati settori fiorentissimi). E studiando anche la cosiddetta “fortuna di Dante” nel mondo, e presso altri scrittori, antichi e moderni, tengono vivi i collegamenti con le università straniere e con le iniziative letterarie o di carattere interdisciplinare promosse dagli Istituti Italiani di Cultura all’estero. Fondamentale infine risulta, in Italia, il ruolo delle cosiddette Case di Dante (come quella di Roma, nel palazzetto degli Anguillara, in piazza Sonnino), le quali, promovendo regolari cicli di letture dei singoli canti e conferenze sui vari temi connessi, oltre che mantenendo aperte le loro biblioteche speciali (sia per libri che per riviste), assicurano ai cittadini le sedi dove gli studiosi possano fare il punto aggiornato degli studi danteschi, tenendo conto dei progressi compiuti sia in Italia che all’estero. A documentare questo lavoro che si svolge in tante parti del mondo sono dirette le riviste specializzate: L’Alighieri (Ravenna, Longo editore) la Rivista di Studi danteschi (Roma, Salerno editore), Studi Danteschi (Firenze, Società Dantesca Italiana). Si cerca così, ai diversi livelli, di mantenere viva, nella cultura e nella coscienza degli italiani, la memoria e la conoscenza di Dante: un poeta che, come diceva Mazzini, per l’avvenire del nostro popolo ha fatto più che non dieci generazioni di altri scrittori o uomini di stato.

 

*Ha insegnato a lungo nei licei. Intensa attività pubblicistica, anche come critico cinematografico, su quotidiani e riviste. Ha pubblicato tre raccolte poetiche: Salmo notturno (Laterza 1983, finalista Viareggio Opera Prima 1984), Mediterranee (EDES, vincitore Premio Dessì 2004) e Quotidiane (EDES, 2007).

 

 

 

 

 

 







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