LA GRAMMATICA DI DIO :INCONTRO CON L'AUTORE
Data: Luned́, 31 marzo 2008 ore 22:12:58 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Un narratore apprezzato dal pubblico e dalla critica, che non smette mai di stupire per la lucidità e la sagacia con cui dipinge il reale, mascherandolo. Le pennellate vivide di Bar Sport e gli acquerelli de Il bar sotto il mare, ritornano e si mescolano in questa raccolta di racconti. La grammatica di Dio è un Vangelo laico e popolare, come quello di Matteo. Parla la lingua del mondo e contiene una serie di parabole in cui al Cristo e alla sua etica cattolica si sostituisce l’uomo e la sua etica mondana. I personaggi sono quelli tipici di Stefano Benni - un nonnino, uno scienziato, un terzino sinistro – e vivono nella sua realtà sommersa, fatta di mezzi toni e pensieri sommessi.
Un libro che si legge come se si osservasse attraverso il vetro di un acquario, con distacco e meraviglia. Si seguono le traiettorie e le evoluzioni di quel pesciolino, ma poi, distratti dal granchio sul fondale, si passa ad osservare un nuovo microcosmo. E così ci si ritrova a saltellare da una piccola storia all’altra, rapiti dalla sensazione di aver visto qualcosa di nuovo per la prima volta, qualcosa che in realtà stava lì da sempre. La magia di Stefano Benni sta senza dubbio nel linguaggio. Una prosa che utilizza il lessico come se fosse materiale di scarto, contorcendolo, forzandolo, trasformandolo in qualcos’altro. Uno scrittore che materialmente si serve della parola (la rende serva) per concentrare in un istante, in una sillaba, la complessità del reale, attraverso un processo induttivo - dall’universale al particolare – ma anche attraverso un’affascinante serie di associazioni libere. Il risultato è la meraviglia, la scoperta della Grammatica di Dio, l’intuizione di un ordine che travalica la mancanza di senso, capace di scremare il flusso confuso di informazioni tipico della contemporaneità.
Un processo che si compie attraverso la commistione di una serie di personaggi che fanno sorridere e riflettere, con la loro piccola umanità. In questo caso, però, si tratta del sorriso di colui che osserva una scena buffa o commovente e ricerca la complicità dell’amico che ha accanto, senza parlare, senza ridere: Benni trasmette ironia solo gettando il suo sguardo.
Ridere poco e in buona compagnia – si diceva – ma in questa raccolta la compagnia dei giocatori di “Pallastrada”, o degli avventori del Bar, non c’è più. Ogni personaggio è solo, per un motivo o per un altro. I casi sono tutti emblematici e riflettono la varietà del mondo, dal vedovo al frate, dalla ragazzina ribelle all’imprenditore. Una umanità multiforme che continua a dilatarsi man mano che ci si inoltra nella lettura e che, inevitabilmente, finisce in qualche modo per comprendere anche noi. Il nostro istante di solitudine nel mondo, oppure la nostra vita quotidiana scandita da pause tra un “da fare” e un altro. Un libro che celebra quel momento magico in cui troviamo il tempo di voltare un’altra pagina, un tempo in cui scopriamo la grammatica del mondo, il Dio laico e umano incarnato nella parola.(da IBSM.Allo)

  Ma eccovi  l' INTERVISTA  di REDAZIONE CARTA  A STEFANO BENNI


Stefano Benni è sulla porta di casa insieme al blues brother John Belushi. C’è da prendersi un colpo, finché non si scopre che è un altro degli scherzi di Pietro Perotti, che trasforma tutto, anche gli animalacci di Benni, in persone in carne e ossa. Non proprio in carne e ossa, ma in qualcosa di molto simile, che inquieta e fa sorridere. Come, del resto, tutti i libri dello scrittore bolognese: "Spiriti", l’ultimo, forse ancora più degli altri, perché ci si trova una esplosiva miscela di verità e di paradosso che diventa visione del mondo. A Benni abbiamo chiesto di chiacchierare con noi di città divise.

Nei tuoi libri, da "Comici spaventati guerrieri" in poi, la città la città ha un posto importante: con le sue fratture, le "disgiunzioni", le contraddizioni. Come la vedi?

Il problema delle città italiane è la politica. La metropoli è il regno della complessità e della varietà, mentre la politica, che è serva dell’economia e dell’informazione, è atterrita dalla complessità e cerca solo semplificazioni. Quindi non può non esserci una frattura, tra la grande varietà che vive dentro una metropoli e la miseria delle scelte della politica: è più facile ingannare o governare con i luoghi comuni che stando dentro le contraddizioni. Niente più scienza del vivere insieme, ma politica disgiuntiva, che separa, crea blocchi, esclude. Siamo, credo, molto vicini a uno scontro, tra la complessità che si ribella e cerca di sopravvivere anche in forme estreme, e la politica, che si irrigidisce nel suo forsennato bisogno di semplificazione. Tutto questo è precipitato da quando c’è la sinistra al governo, che mostra come questa miseria apparenti destra e sinistra, come facciano a gara nelle semplificazioni: se la destra dice che ci vuole la task force contro i barboni, la sinistra dice che la task force va bene purché serva a recuperare la città. Il risultato, con maggiore o minore ipocrisia, è il medesimo.

C’è dunque un "moderno" deficit di democrazia nelle città o c’è sempre stato?

In Italia la democrazia è sempre stata una tensione, una conquista, mai un regalo della classe politica. Che, al contrario, ha sempre cercato di instaurare veri regimi di totalitarismo, dolce o feroce, incontrando però una certa resistenza per via dell’indomabile individualismo italiano e anche grazie a una sinistra forte. Finché la sinistra ha avuto questa sete, questo bisogno di democrazia, si è creato un equilibrio, che è il fondamento di tutta la democrazia che abbiamo. Ci sono state la P2, piazza Fontana, la strage di Bologna, ma c’è sempre stata una risposta. Non appena la sinistra ha deciso che farsi governo voleva dire impossessarsi anche della democrazia e gestirla a modo suo, è stato il disastro. Ci sono stati momenti in cui la democrazia è stato il primo pensiero della sinistra, e non il terzo o il quarto, dopo la governabilità, la sicurezza, la normalità. Ora la sinistra ha deciso di derubricarla da necessità a privilegio, a causa del suo terrore a vivere insieme in modo paritario: preferisce le gerarchie perché è più facile governare una società divisa. Il concertone in piazza, gli appelli a cancellare il debito sono recite che confermano che si tratta di finta democrazia.

Ecco allora che il richiamo di Haider, Bossi o Berlusconi risuona più forte, perché un ordine di destra è più convincente di un ordine di sinistra.

Hai parlato finora di sinistra di governo o di sinistra politica. E la sinistra sociale?

Una sinistra sociale esiste ed è molto seria nelle cose che fa, ma non ha quasi il tempo di guardarsi intorno. È talmente faticoso per un gruppo di volontariato, per un centro sociale, per un buon consiglio di quartiere, o un buon gruppo di insegnanti, o un sindaco di un piccolo paese lavorare dentro un clima che ostacola, giudica e condanna la diversità, che a volte mancano le energie per vedere quello che fanno gli altri. Allora, il problema è capire come riusciranno, le molte sinistre che esistono, ad allargarsi, a trovare cioè quell’energia in più che serve a uscire fuori dalla propria nicchia. È molto facile per la sinistra di governo fare finta che tutto questo non esista e che invece esista solo la televisione, il Mibtel, il vippismo mediatico. Ma questo "spirito del tempo", che dice che questa è l’unica sinistra possibile, sta pesantemente scricchiolando.

Sono gli spiriti del tuo ultimo libro…

Penso che l’economia, l’informazione e la guerra siano i tre spiriti maligni, i cardini su cui si regge il totalitarismo moderno: la guerra come creazione del nemico, come sostegno all’industria della macchina bellica e come emergenza che impone decisioni a cui tutti debbono obbedire. L’economia come unico indice del benessere [essendo il benessere il Dow Jones e non la qualità dell’aria, il clima, lo squilibrio delle risorse]. L’informazione sempre più luogo di esibizione dei poteri forti.

Ma ci sono anche gli spiritelli buoni.

Mentre ciò che opprime le città è lo stesso ovunque, la reazione è diversa. Forse in questo momento sono le città del sud ad affermare, assai più di quelle del nord, il bisogno di confronto di esperienze sociali e politiche. Dipenderà dal fatto che sono toccate dall’immigrazione in modo assai diverso dall’Emilia o dal Nordest. Ciò che opprime le città è il vippismo-boutiquismo globale, e un uso distorto della domanda di sicurezza. Però il modo in cui la metropoli mostra di essere un organismo complesso e di possedere anticorpi diversi può variare. Ad esempio, nel sud ci sono forme di resistenza, un negarsi agli orrori della modernità. Esiste un rapporto con l’immigrazione a volte anche duro ma con un minor numero dei fantasmi che invece popolano gli incubi malsani del nord. Ad esempio, in Puglia o perfino in Sardegna il rapporto tra locali e immigrati ambulanti è del tutto diverso che al nord: si è accettato che nella storia della miseria di questi paesi siano entrati altri popoli. È un dare valore all’altro, magari anche scontrandosi, che non c’è nel Nordest o a Bologna, dove ci sono razzismi fantasmatici. Senza parlare di come le città trattano i bambini.

Luoghi resi immensamente grandi dalla globalizzazione o piccolissimi dal vivere quotidiano. Come si concilia il locale col globale?

La cultura, e quindi anche il sociale, hanno il bisogno assoluto della varietà, di vivere la complessità come una ricchezza e non come un problema, in modo non depresso ma fertile. Arrivano nuove culture e informazioni da tutte le parti del mondo. È necessario però non essere passivi, nel luogo dove si vive, ma scegliere liberamente le cose che fanno parte della propria cultura. Un movimento è un po’ anche questo: fare in modo che il proprio tentativo di ribellione sia discusso con altri.

Questo tentativo mi è chiaro nella cultura, meno nella società, anche se alcune esperienze di volontariato o di amministrazione locale hanno lavorato per creare questo equilibrio difficilissimo tra l’accesso alla varietà e il rispetto dell’unicità. Si tratta per ora di poche esperienze, affogate in un mare di conformismo. Però sono convinto che la macchina esploderà. Secondo me il ‘68 è stato anche poco, in confronto alla prossima esplosione di insopportabilità. Se questo comporterà grandi liberazioni o grandi errori, non so dirlo, ma sento che aleggia uno spirito positivo.

Di nuovo gli spiriti…

Sì, uno spirito che sostituisca questi pochi spiriti miserabili con tutti gli spiriti che fanno parte della società. Il 35 per cento della gente che non vota non è fatto tutto di qualunquisti, ma di persone che non riescono a far stare il loro quotidiano dentro a questo quadro. Buttare a mare la politica è un rischio che corriamo tutti, ma buttare a mare questa politica perché ce n’è un’altra, è giusto. Come lo è dire che questa è la peggiore classe politica del dopoguerra, forse non come qualità di persone, ma come capacità di sognare una società ideale. È la classe politica più serva, quella che sogna la società peggiore. Se si cominciasse a dirlo, anche uno come Berlusconi tornerebbe a essere quel piccolo affarista che è. È la miseria della politica a dare spazio a simili personaggi. Non sono un apocalittico, ma immagino una resa dei conti con una totale messa in discussione degli spiriti che hanno guidato questo mondo. Siamo dentro un’apocalisse che può essere fermata ridiscutendo i diritti di tutti. Ci sono diritti, come diceva Rossanda, che sono inalienabili. Non c’è nulla di irrimediabile, tranne l’ambiente dove vige il totalitarismo del profitto.

Avevo promesso di non chiederti di Bologna, ma non resisto. Parlami della tua esperienza in una delle città divise più simboliche.

Per quattro anni ho fatto a Bologna un seminario sull’immaginazione. Immaginavo che sarebbe stato un appuntamento letterario, invece sono arrivati filosofi, psichiatri, politici e soprattutto insegnanti e tutto ha preso un’altra piega. Volevamo immaginare una visione del mondo che non fosse quella atterrita e depressa. Per quattro anni è stato un punto di riflessione straordinario di persone le più diverse, con al centro gli insegnanti, che avevano una urgenza: dire ai bambini come va il mondo, che non è brutto e semplice ma complesso e interessante. Perciò il nostro seminario è stato attaccato con una violenza così sproporzionata, da farmi capire che la ragione di tanto furore era il fatto di opporsi all’ordine delle cose esistenti, e aver mostrato che c’è un altro punto di vista, che la politica si può fare fuori dalla politica.

Pensavo di fare un’opposizione intellettuale, invece mi sono reso conto che era una cosa molto concreta e che la reazione intendeva affermare che non si possono immaginare scenari diversi. Per questo l’esperimento è stato cacciato via da Bologna. Ma non è finita: abbiamo portato il seminario in altre città. E ovunque persone differenti si sono ritrovate tra loro a partire dalle piccole trasformazioni. Le piccole cose contagiano.






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