PREMIO GIOVANNI MARIA PACE: PROMUOVERE LA CULTURA SCIENTIFICA
Data: Giovedì, 27 marzo 2008 ore 07:16:03 CET
Argomento: Comunicati


 

PREMIO GIOVANNI MARIA PACE: PROMUOVERE LA CULTURA SCIENTIFICA
Inviato da: redazione Yesterday

Giunge alla sua conclusione la sesta edizione del concorso Giovanni Maria Pace che premia il miglior saggio di divulgazione scientifica di lingua italiana.In memoria del giornalista de “La Repubblica”, appassionato di scienza e scomparso nel 2002, il concorso promuove la cultura scientifica in un Paese dilaniato tra i suoi mille problemi e a incentivarne la ricerca e il suo continuo sviluppo. Importante da sottolineare l’inserirsi del premio nella programmazione del FEST a partire dall’anno scorso. Il FEST è una delle più importanti fiere a carattere esclusivamente scientifico che quest’anno si terrà a Trieste dal 16 al 20 aprile.
Tra i tre autori giunti alla sua fase finale, spiccano i nomi di due professori dell’Università di Studi di Padova, Paola Bressan e Alessandro Minelli. Nel libro della professoressa del Dipartimento di Psicologia Generale Il colore della luna. Come vediamo e perché vengono messi in luce gli aspetti più interessanti del nostro percepire i colori, di come li riusciamo a distinguere perché «molto spesso le cose che noi sentiamo essere banali, in realtà, nascondono aspetti molto interessanti e curiosi» come racconta la finalista. Nell’altro saggio, pubblicato da Einaudi, Forme del divenire. Evo-devo: la biologia evoluzionistica dello sviluppo, Alessandro Minelli cerca di «presentare al lettore sia una serie di fatti, molti dei quali ovviamente non sono stati scoperti da me, sia un insieme di interpretazioni e di chiavi di lettura del mondo biologico, che si discostano spesso drasticamente dai paradigmi dominanti». Il giorno 19 aprile al teatro Miele di Trieste sarà decretato il vincitore che riceverà una somma di denaro pari a 2.500 euro. (m.allo)

 Vi proponiamo  l'intervista di Federico Maselli a due dei tre finalisti Paola Bressan e Alessandro Minnelli

1. Professor Minelli, un importante riconoscimento alla sua opera saggistica. Se l’aspettava?

Non proprio. La partecipazione ad una competizione come il Premio Giovanni Maria Pace non prevede l’iniziativa da parte degli autori. Sono gli editori, infatti, a far concorrere le loro opere. Non sapevo nemmeno che Forme del divenire fosse in gara, fino al momento in cui la mia casa editrice, Einaudi, mi ha comunicato che il libro era una delle tre opere finaliste. Tuttavia, da questo mio ultimo saggio avevo già cominciato ad avere soddisfazioni: nei prossimi mesi, infatti, ne uscirà la traduzione in inglese presso la Princeton University Press. Una volta tanto, non siamo noi italiani a tradurre i libri americani, ma sono gli americani a tradurre un libro italiano…

2. Di cosa si occupa in questo studio?

Di biologia evoluzionistica dello sviluppo, un’area di frontiera nel campo della biologia, dove si stanno fruttuosamente integrando due diverse tradizioni, quella della biologia evoluzionistica e quella della biologia dello sviluppo. La maggior parte dei ricercatori che si occupano di questa disciplina vi sono approdati a partire dallo studio del modo in cui i geni si esprimono durante lo sviluppo. Il mio cammino è stato diverso, sono partito infatti dallo studio dell’evoluzione delle forme animali.

In Forme del divenire cerco di presentare al lettore sia una serie di fatti, molti dei quali ovviamente non sono stati scoperti da me, sia un insieme di interpretazioni e di chiavi di lettura del mondo biologico, che si discostano spesso drasticamente dai paradigmi dominanti.

3. Cosa ha scoperto?

Piuttosto che di scoperte, vorrei parlare di svolte interpretative. Gli argomenti più importanti che presento al lettore sono due.

Primo: per comprendere l’evoluzione dei viventi non è sufficiente ragionare in termini di selezione naturale; occorre, allo stesso tempo, conoscere quale è la natura del materiale sul quale la selezione può operare. Per esempio, è lecito supporre che il lungo collo della giraffa sia il risultato di un millenario processo nel corso del quale gli individui dal collo più lungo erano sempre favoriti, rispetto ai loro simili dal collo più breve, in quanto avevano la possibilità di trovare cibo in luoghi meno accessibili agli altri (cioè, tra le fronde degli alberi). Con tutto questo, però, non si spiega perché il lungo collo della giraffa è sostenuto da sette vertebre, né più né meno di quante se ne contano nel collo dell’uomo e di quasi tutti gli altri mammiferi. Ancora, la selezione naturale non spiega perché le scolopendre e gli altri centopiedi hanno sempre un numero dispari di paia di zampe. Tutto questo, ragionevolmente, ce lo spiega la biologia dello sviluppo, che ci può dire che cosa è possibile e che cosa è impossibile, fino a che non cambiano i meccanismi che producono le forme dei viventi. Tutto questo non significa rifiutare Darwin, bensì integrare il corrente modello neodarwiniano di evoluzione per selezione naturale con uno studio di ciò che i meccanismi di sviluppo rendono disponibile all’azione della selezione naturale.

Il secondo punto sul quale insisto nelle mie pagine è la necessità, sul piano del metodo scientifico, di indagare in termini non finalistici nelle vicende della storia dell’individuo, così come in quelle dell’evoluzione delle specie. In biologia dello sviluppo, in particolare, vige a tutt’oggi un’ingiustificata visione adultocentrica, che vede l’intero percorso della vita individuale, dall’uovo attraverso l’embrione e l’età giovanile, solo come una preparazione all’adulto. Nel linguaggio corrente, questo si traduce nella metafora del ‘programma’ genetico, scritto nel DNA di ogni cellula, il cui ‘significato’ sarebbe appunto da ricercarsi nella sua capacità di guidare il vivente verso la realizzazione di un individuo capace di riprodursi. Ma questa diffusa concezione, a mio avviso, va rifiutata, sia per ragioni epistemologiche, sia perché ci impedisce di formulare una lunga serie di interessanti domande …. di cui, naturalmente, do qualche esempio nel mio libro.

4. Quanto tempo vi ha lavorato sopra?

Mi occupo di biologia evoluzionistica dello sviluppo da quasi vent’anni, cioè fin da un’epoca in cui questa disciplina non aveva ancora ricevuto il suo nome attuale (o il suo nomignolo corrente, evo-devo, che è l’abbreviazione dell’equivalente inglese, evolutionary developmental biology). Nel 2003 ho pubblicato in inglese un volume, rivolto agli addetti ai lavori, in cui ho presentato una sorta di manifesto della biologia evoluzionistica dello sviluppo da un punto di vista non ossessivamente centrato sulla pretesa onnipotenza del gene. Poi ho cominciato a pensare a Forme del divenire, cioè ad un testo non accademico sull’argomento. Un’ottima occasione, peraltro, per ragionare più liberamente, anche su questioni generali. Dal momento in cui ne stesi una scaletta orientativa fino al momento in cui consegnai il testo all’editore dev’essere passato circa un anno e mezzo.

5. Come mai vi è una fuga di cervelli all’estero?

Un vecchio naturalista come me non potrebbe affrontare questa domanda senza avere davanti agli occhi (e, soprattutto, senza porre davanti agli occhi di chi mi legge) una descrizione articolata del fenomeno. La situazione, infatti, è ben diversa da disciplina a disciplina, si evolve negli anni e può avere cause diverse, alcune delle quali croniche, ma non tutte. Pertanto, farò solo riferimento a quel che sta succedendo in questi anni in biologia evoluzionistica, compresa la biologia evoluzionistica dello sviluppo. La fuga comincia a volte a livello di dottorato di ricerca, ma diventa più rilevante nella fase di post-doc; ed è a questo punto che può diventare irreversibile. Molti giovani ricercatori vanno all’estero perché in Italia nessuno si occupa (quanto meno, nessuno si occupa ad un buon livello) degli argomenti ai quali si vorrebbero dedicare e non possono avviarsi in maniera autonoma a questi studi perché in Italia, di regola, alla borsa di studio o al contratto che forse permettono loro di sopravvivere non si accompagna un finanziamento per la ricerca, che permetta loro di non dipendere dai mezzi (spesso, comunque, inadeguati e fluttuanti) del responsabile del laboratorio che li ospita. Quanto al rientro, le opportunità sono notoriamente risicate e, comunque, chi si è abituato all’efficienza e competitività di un laboratorio straniero ci pensa su due volte prima di rinunciarvi.

6. Lei come mai è rimasto in Italia?

Almeno due volte sono stato vicino ad andarmene: la prima volta subito dopo la laurea, la seconda volta una decina di anni fa. La prima volta mi trattenne una serie di circostanze ambientali, a cominciare dall’inattesa disponibilità di una sistemazione permanente che mi si presentò molto presto presso l’Università di Padova. La seconda volta, ogni pensiero di fuga fu cancellato da un infarto, che mi indusse ad un po’ di prudenza nei cambiamenti di vita ma che, tutto sommato, dette inizio ad una nuova fase, molto produttiva, della mia attività scientifica e letteraria.

Negli anni, sono riuscito a ‘sopravvivere’ in Italia perché mi sono sempre occupato di ricerche che non richiedevano mezzi particolarmente costosi.

7. Cosa si aspetta dal nuovo governo in termini di ricerca? Secondo lei ci sono le carte per aiutare a portare avanti la ricerca?

Non sono né un indovino né un osservatore politico. Vorrei solo dire che la ricerca scientifica è un po’ come la vita stessa: per portarla avanti ci vogliono ovviamente risorse ma, soprattutto, continuità. Potremo sperare nel futuro solo se si realizzerà (e non sarà una faccenda di una sola legislatura) un cambiamento strutturale che dia alla nostra ricerca una solidità capace di resistere adeguatamente alle fluttuazioni della situazione economica ed al mutare del quadro politico.

8. Progetti per il prossimo futuro

Sto terminando di scrivere un nuovo libro, piuttosto tecnico, per Oxford University Press. Un libro dove si incontrano le mie due anime: quella del naturalista interessato alla storia evolutiva del regno animale e quella – rivelata in Forme del divenire – rivolta alla biologia evoluzionistica dello sviluppo ed alla biologia teorica.

Subito dopo, mi piacerebbe cominciare a curiosare al di fuori del regno animale. Che cosa potrà emergere la una lettura comparativa della biologia evoluzionistica dello sviluppo di piante, funghi e animali? Spero di potervene raccontare qualcosa entro pochi anni, magari con un nuovo libro…



1. Professoressa Bressan, lei è l’autrice di uno dei libri finalisti del premio Giovanni Maria Pace, Il colore della luna. Come vediamo e perché. Cosa ha voluto mettere in luce in questo studio?

Per me, una delle domande più semplici del mondo (“di che cosa ti occupi esattamente?”) è sempre stata fonte di frustrazione. Quando dico che mi occupo del modo in cui vediamo, ricevo in risposta uno sguardo vacuo: dove sta il problema? Non c’è da stupirsi: a noi tutti viene naturale pensare che, per vedere, basti aprire gli occhi e guardare.

In questo libro racconto perché il modo in cui vediamo non è ovvio per niente. Ho cercato di spiegare quanto sono interessanti e curiose cose che a noi sembrano scontate e banali, come distinguere il rosso dal verde, capire se stiamo guardando un dipinto o una scena reale, percepire il mondo come immobile quando muoviamo gli occhi, trovare più attraenti i volti senza rughe.

2. Il saggio sarà stato certamente frutto di una lenta e scrupolosa osservazione…

Mi ci sono voluti cinque anni per finire il libro. Il problema è che continuavo a scoprire cose nuove e avrei voluto raccontarle tutte.

3. E cosa ha scoperto di preciso? Cosa ha attirato così tanto la sua curiosità da non permettere di porre la parola fine tanto facilmente?

Uno dei miei obiettivi era quello di mostrare i collegamenti tra scienza e vita quotidiana. Le dò un esempio. L’orso di peluche venne inventato all’inizio del Novecento, e subì una considerevole evoluzione nel corso degli anni, soprattutto per quanto riguarda la posizione e le dimensioni degli occhi. I primi orsacchiotti avevano le sembianze di orsi veri, con occhi piccoli e musi allungati; gradualmente, il muso si accorciò e gli occhi si ingrandirono e si spostarono verso il basso. In natura molte specie, come il cane, si sono evolute allo stesso modo, producendo adulti che mantengono caratteristiche fisiche dello stadio infantile. Ciò che l’orso di peluche e il cane hanno in comune è che la loro sopravvivenza dipende dalla capacità di scatenare in noi reazioni di protezione e affetto. Queste reazioni sono automatiche di fronte a una creatura che abbia i tratti di un bambino piccolo, come grandi occhi posti nella metà inferiore del viso.

Ma come mai abbiamo occhi frontali? Occhi frontali permettono la visione stereoscopica (in tre dimensioni), e la spiegazione tradizionale è che questa si sia evoluta per consentire ai nostri antenati arboricoli di stimare con precisione la distanza fra un ramo e l’altro durante gli spostamenti sugli alberi.

Nel libro ho presentato questa spiegazione. Il problema è che la scienza procede rapidamente, e non appena uno finisce di scrivere un capitolo sarebbe già ora di riscriverlo! Le conoscenze di base di solito non vengono intaccate, ma alcuni nuovi fatti o nuove teorie sono talmente belli e illuminanti che si fa fatica a non parlarne. In questo caso, per esempio, è uscito in seguito un articolo con una teoria alternativa e rivoluzionaria sull’origine dei nostri occhi frontali. I più temibili predatori dei nostri primi antenati erano i serpenti (i primati ancestrali, nostri bisavoli, pesavano solo poco più di mezzo chilo). I serpenti tipicamente si mimetizzano con lo sfondo e si immobilizzano all’approssimarsi della preda: a una creatura priva di visione stereoscopica, risulterebbero praticamente invisibili. Mentre altri mammiferi hanno evoluto una resistenza fisiologica al veleno di serpente, i nostri antenati avrebbero partecipato a questa corsa agli armamenti aumentando, mediante la visione stereoscopica, la probabilità di scorgere i serpenti in tempo utile. Solo i primati che si sono evoluti in regioni abitate dai serpenti hanno sviluppato la visione stereoscopica. La funzione originaria dei nostri occhi frontali, insomma, sarebbe quella di smascherare i serpenti!

4. La mancanza di fondi spinge molti giovani ricercatori a emigrare verso nidi più sicuri?

Conosco alcuni di questi giovani cervelli; se in Italia ci fossero dei posti di ricercatore tornerebbero volentieri.

5. Eppure lei è rimasta…

Perché ho avuto la fortuna di diventare ricercatrice; oltretutto all’Università di Padova, un Ateneo caratterizzato non solo da una tradizione di eccellenza nella didattica e nella ricerca, ma anche da un’efficienza e una politica di sviluppo davvero rare nel panorama universitario italiano. Se in questi anni sono riuscita a fare della buona ricerca, devo ringraziare anche il contesto che me lo ha permesso.

6. Cosa si aspetta dal nuovo governo in termini di ricerca? Secondo lei ci sono le carte per aiutare a portare avanti la ricerca?

Ah, questo è un dente che duole, duole moltissimo. Eppure, senza ricerca non c’è progresso.

7. È consultabile il libro on-line?

Sì, al seguente indirizzo: http://ilcoloredellaluna.wordpress.com/







Questo Articolo proviene da AetnaNet
http://www.aetnanet.org

L'URL per questa storia è:
http://www.aetnanet.org/scuola-news-10377.html