Ma oggi quali sono le condizioni della nostra lingua?
Data: Venerd́, 21 marzo 2008 ore 12:29:10 CET
Argomento: Opinioni


La pobbia de cà Colonnetta

L’è creppada la pobbia de cà
Colonnetta: té chì: la tormenta
in sto Luj se Dio voeur l’à incriccada
e, crich cracch, pataslonfetaslà

me l’à trada chì longa e tirenta
dòpo ben dusent ann che la gh’era!
L’è finida! eppur … bell’e inciodada

lì, la cascia ancamò, la voeur nò
morì, adess che gh’è chì Primavera …

andemm … nà … la fa sens … guardegh nò!
È crepato il pioppo di casa
Colonnetti: guarda qui: la tormenta
in questo Luglio, se Dio vuole, l’ha “inceppato”
e cric crac, patapunfete là

me l’ha buttato qui lungo e disteso,
dopo ben duecento anni che c’era!
È finita! Eppure …. bell’e inchiodato

lì, germoglia ancora, non vuole
morire, (proprio) adesso che viene la primavera ….

andiamo ... via … fa senso … non guardarlo!

Delio Tessa

Non si può parlare della poesia del ‘900 senza menzionare un grande allievo di Carlo Porta che, diversamente dal realismo di quest’ultimo, dall’eclettismo di Barrella, dal decadentismo di Medici, divenne il massimo rappresentante dell’espressionismo italiano. Il suo nome è Delio Tessa (1886-1939) e rimane ancora il più grande poeta del XX secolo, e Beretta così lo definisce: “Il Tessa, tra spontaneità di ispirazione e complessità di elaborazione tematica, seppe partorire pagine di lirica raffinatissima e di consistente profondità di contenuti, servendosi del dialetto come un pittore si serve della tavolozza per rendere vivo e reale il significato delle parole. A differenza del Porta, nulla lo spinge al sorriso bonario: la sua visione del mondo, un mondo senza veli, senza ombre e senza ipocrisie, lo sprona piuttosto a una denuncia spietata, che mette a nudo le miserie, i malanni, le brutture ed i peccati di ognuno. Il suo crudo realismo, la sua malinconia, il suo rassegnato e compiaciuto pessimismo, si tramutano in canto, in un modulare ora tragico e ora idillico, ora accorato e ora svagato, che trova la più valida realizzazione nello strumento dialettale”.
Studente a Pavia, quindi avvocato e pretore, sempre di malavoglia, fu invece appassionato di musica, la più moderna, la dodecafonica di Schönberg e in questo senso orientò la propria lirica milanese, al passo con le avanguardie europee, da Valéry a Kafka. Ovviamente su posizioni antiautoritaristiche.
La sua lirica segue i moti dell’anima, alterna, non senza fratture, pensieri lucidi ed emozioni incombenti. Ogni poesia ricerca, al proprio interno, proprie leggi armoniche e melodiche e ne nascono composizioni brevissime come La pobbia de cà Colonnetta (dove la quartina iniziale è seguita da una terzina, un distico e un monostico finale) o poemetti come L’è el dì di mort. Alégher! dove la strofa è data da più quartine di ottonari con ricercata sequenza melodica.
La sua poesia ha fatto scuola presso tutti i poeti che si sono affacciati alla ribalta dopo di lui.
Metricamente particolare (composizione decrescente da una quartina fino ad un monostico), La pobbia de cà Colonnetta trova la sua originalità anche in diversi fattori che danno corpo alla struttura del componimento: una rottura di ritmi, creata anche da enjambements e da alcuni suoni onomatopeici, ma anche da segni di interpunzione (punti di sospensione), che paradossalmente creano una armonia, o se vogliamo, una coerenza contenutistica con lo spezzarsi della pianta, la presenza di rime, tipiche della poesia classica, pur trovandoci al cospetto di un lavoro che vuol operare invece uno strappo con quel mondo, tesi ulteriormente avallata dalla scelta di abbandonare la struttura canonica del sonetto per creare un qualcosa di nuovo e originale.


Dice di lui Ferdinando Cesare Farra: "Le sue liriche sono improntate ad una curiosa, ma certamente singolare originalità, in cui il discorso appare disorganico e frammentario, ed il contenuto pervaso da una sconfinata desolazione, che, in parte, è di origine culturale (scapigliatura lombarda, ma anche il Decadentismo francese, nonché il pessimismo del romanzo russo, tipo Tolstoi, Turgheniev e Dostojevskij) e, in parte, è prodotto dalla sua inquieta personalità, dominata dalla sfiducia negli uomini e nelle loro istituzioni; dalla stessa consapevolezza - abolita ogni fede religiosa in senso positivo - di un destino duro ed inflessibile (vedi la "Mort de la Gussona" o "De là del mur" o Poesia dell'Olga" o "L'è el dì di mort, alegher!......Molto aveva contribuito a tale atteggiamento il crollo delle idealità umane in conseguenza della prima guerra mondiale........Da tale dolorosa esperienza emersero altri poeti, che sentirono la suggestione della poesia tessiana: Emilio Guicciardi, Giosafatte Rotondi, Cesare Mainardi".
(A cura di M.Allo)
  Ma oggi quali sono le condizioni della nostra lingua?  Eccovi un articolo interessante del poeta Maurizio Cucchi

"Se tutti dicono ok, la poesia non lo dirà "


L eggo su 'Repubblica', domenica scorsa, un articolo di Stefano Bartezzaghi sulle condizioni della nostra lingua, intitolato «Parliamo come mangiamo forse anche troppo».
Bartezzaghi ricorda il cammino difficile della nostra bellissima lingua, prima sostanzialmente letteraria (e dunque lingua scritta) fino all’unificazione linguistica per buona parte dovuta (come autorevolmente sostenuto da Tullio di Mauro quarantacinque anni fa) all’avvento della televisione.
Ma oggi quali sono le condizioni della nostra lingua?
Come parla l’italiano del Duemila? Non vorrei sembrare lamentoso, ma direi che parla piuttosto male, direi che ancora una volta la televisione ha imposto il suo dominio, ma con modalità e qualità molto diverse.
Ho sempre in mente le parole con le quali il grande poeta milanese Delio Tessa introduceva un suo libro: «Riconosco e onoro un solo maestro, il popolo che parla».
Oggi un’affermazione del genere non avrebbe più alcun senso. D’accordo, Tessa scriveva in dialetto e ascoltava parlanti dialettali. Ma non è questo il punto. Fino alla sua epoca (morì, ricordo, nel 1939), in ogni caso, il popolo era davvero creatore di linguaggio. Molto spesso le espressioni della gente comune ravvivavano la lingua, le davano sapore e concretezza colorita. Spesso, insomma, la lingua si formava e ricreava dal basso. Oggi non è così. La gente parla più o meno secondo modalità che scendono dai media, soprattutto dalla tivù, ovviamente, e dunque dall’alto di un’autorità linguistica per niente autorevole. E così la lingua si impoverisce e si arricchisce di stereotipi , storpiature e orrori vari. Chi è abituato ad ascoltare, se ne rende conto facilmente, quotidianamente.
Basta salire su un autobus o entrare in un bar per sentirsi piovere addosso una parlata piena di «ochèi» o di «occhèi» secondo la regione, in frasi infiorate da un turpiloquio che ormai ha perduto persino il suo valore trasgressivo. La classica parolaccia, voglio dire, è del tutto priva di sostanza ed effetto, è totalmente desemantizzata; uno la pronuncia come dicesse una cifre o due sillabe senza senso alcuno, meccanicamente.
Un’altra tendenza evidente, anche questa di provenienza radiotelevisiva, è quella che porta a una incongrua forma di 'nobilitazione' del lessico.
Tutti dicono «nulla», ormai, anziché «niente», tutti parlano di «filosofia» a sproposito, persino i calciatori, e il Dna è finito dappertutto. L’altro giorno ho sentito una ragazza che diceva: «mangiare tardi la sera è nel mio Dna». E non parliamo poi dell’abuso gratuito di parole inglesi, delle quali ogni linguaggio settoriale si cosparge in modo involontariamente comico.
Tornando a Tessa e rientrando a questo punto nel mio più normale campo d’azione, devo dire che questa mutata fisionomia della lingua comporta anche un diverso atteggiamento letterario verso la parola. Da sempre, tra i compiti più importanti di chi scrive c’è quello di fornire un utile servizio alla lingua, scritta o parlata che sia. Fino a qualche tempo fa, una ventina d’anni più o meno, uno degli obiettivi forti della letteratura era quello di introdurre sulla pagina o nel verso elementi del parlato, capace di ridare vita e autenticità alla scrittura; con un felice riflesso di utilità sulla lingua normale d’uso.
Oggi tutto questo non è possibile, perché il parlato è di qualità spuria e scadente e dunque la letteratura deve contribuire a far riemergere equilibrio e decoro, plausibilità e bellezza della lingua, per rivitalizzarla contro gli stereotipi e la volgarità dilaganti.







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