DALLA PAROLA AL SILENZIO:INTERVISTA A VINCENZO CONSOLO
Data: Marted́, 11 marzo 2008 ore 19:50:31 CET
Argomento: Rassegna stampa


Vincenzo Consolo (S. Agata di Militello - Messina 1933) è, tra gli scrittori siciliani moderni, una figura atipica di narratore che, pur traendo spunto dal materiale autobiografico relativo alla sua infanzia e giovinezza "isolana" vive da tempo in continente dove si è formato ed ha realizzato le sue più convincenti prove letterarie. Questa distanza gli ha permesso di ricostruire narrativamente momenti e vissuti personali attraverso il "filtro" di un particolare tipo di memoria che spesso si vena di nostalgia. Di particolare interesse è il modello linguistico che per certi versi ricorda il miglior Vittorini (Conversazioni in Sicilia). La" lingua" di Consolo è una ricerca continua di originalità che, solo in parte, deriva dal suo personale timore di non essere riconosciuto o differenziato nell'affollato panorama letterario italiano.

Ma eccovi l'intervista a Vincenzo Consolo

 D. Alcuni dei personaggi dei suoi romanzi si muovono al confine dell’afasia. Anche il protagonista de Lo spasimo di Palermo è chiuso nel silenzio e non riesce più a scrivere. Lei stesso ha affermato, riferendosi all’opera teatrale Catarsi, che scrisse nel 1989: «La tragedia rappresenta l’esito ultimo della mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Un esito in forma teatrale e poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite dell’intelligibilità, tenda al suono, al silenzio»...

Io sento molto che oggi lo scrittore è stato espulso dalla società e quindi non ha più parole per comunicare con questa società e quindi la tentazione è proprio l’afasia, nel senso che si è rotto il rapporto tra il testo letterario e il contesto situazionale. Questo tema dell’afasia l’ho espresso in questa mia operetta che si chiama Catarsi dove prendevo spunto dalla morte di Empedocle e parlavo di un Empedocle moderno, contemporaneo, che tenta il suicidio sulle falde dell’Etna. È un Empedocle che si trova in una situazione estrema. Estrema perché è vicino al cratere di un vulcano ed estrema perché è sul punto di chiudere la sua vita con il suicidio. Quindi il suo linguaggio è un linguaggio che non è più comunicabile. Perché sono arrivato a questa conclusione? Perché penso che oggi il testo letterario, naviga nell’assoluta insonorità di un contesto situazionale. Non trova più il suo referente, non trova più l’ascolto. Portavo l’esempio della tragedia greca perché lì c’è un personaggio l’«Anghelos» (il messaggero) che arriva sulla scena e racconta agli spettatori presenti nella cavea un fatto accaduto in un altro momento, in un altro luogo. Da questo racconto, molto comunicativo, del messaggero, può avere inizio la tragedia, cioè i personaggi della tragedia si muovono e poi c’è il coro che commenta in un tono più alto, con un tono poetico e con il canto e con la danza commenta e lamenta l’azione scenica. Questo è la tragedia per esempio moderna di Euripide dove dice Nietsche ne La nascita della tragedia che c’è appunto nella tragedia di Euripide, in questa articolazione della tragedia del messaggero dei personaggi e del coro, c’è l’irruzione dello spirito socratico, c’è il ragionamento. Il ragionamento è quello del messaggero, che si rivolge ai personaggi della cavea. Oggi dico che nel nostro contesto, nella civiltà di massa, il pubblico della cavea non c’è più. La tragedia si svolge in un teatro vuoto. Non ci sono più spettatori. L’unico modo per rappresentare la tragedia è quella di relegarla nella zona del coro, con un lamentare e commentare la tragedia del nostro tempo in un tono alto, con una forma musicale. Cioè far agire soltanto quello che Nietsche chiama lo «spirito dionisiaco», che è proprio della poesia. Io credo che questa forma letteraria che si chiama romanzo, narrazione, oggi si possa praticare soltanto in una forma poematica. Non è più possibile praticare una scrittura comunicativa che era quella del messaggero, che era lo scrittore di una volta, che narrava e narrando faceva poi delle riflessioni sull’azione narrativa. Quello che faceva Manzoni con le sue riflessioni o tutta la letteratura dell’800. Era lo scrittore che interveniva con la sua autorevolezza e commentava la vicenda che stava raccontando. Oggi non si può più raccontare. Io contesto le teorie di Milan Kundera che considera il romanzo come una commistione di narrazione e filosofia. Io credo che questo spirito socratico, riflessivo e comunicativo oggi non sia più possibile. Credo che si possa narrare soltanto in forma poetica e quindi nella forma meno mercificabile e meno comunicabile possibile.

D. Si può dire che Catarsi non sia un esperimento isolato...

Non è isolato perché poi questa idea l’ho sviluppata ed esplicitata maggiormente ne Lo spasimo di Palermo dove nell’epigrafe Prometeo incatenato dice: «Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore». Significativamente il protagonista è uno scrittore che ha praticato un tipo di scrittura sperimentale (naturalmente è autobiografico) espressiva che decide di non scrivere più perché arriva all’ultimo stadio della sua sperimentazione, non solo letteraria ma anche all’ultima esperienza della sua vita. Decide di tornare nell’isola da cui era partito e che aveva lasciato anni prima, dovuto a necessità, a distacco da una terra che era diventata invivibile, barbarica. Torna e trova la sua conclusione, la sua fine. È un Ulisse che viene ucciso dai Proci, da quelli che Pirandello ha chiamato «i giganti della montagna» che possono essere di qualsiasi tipo. Quindi è uno scrittore afasico, uno scrittore che decide di non scrivere in forma narrativa e di scrivere in altre forme: saggistica, ricerca storica... e si propone di fare delle ricerche su altri temi.


D. In un certo senso anche Lunaria era un esperimento?

Anche quello era un esperimento, nel senso che c’era un rifiuto. Questo l’ho sempre teorizzato e praticato, il rifiuto della forma romanzesca, perché credo che oggi non si possono scrivere romanzi. Chi scrive romanzi è in malafede o è ignorante. Voglio essere radicale, per un volta, credo che nel nostro contesto non si possa più praticare questa forma narrativa che è stata di nobilissima tradizione in Europa e non solo. In questa mia concezione della narrazione non romanzo si inquadrano queste due opere che vengono dette «teatrali» ma molto teatrali non sono, nel senso che non hanno una loro rappresentabilità ma sono opere da leggere. In Lunaria che è una sorta di racconto fantastico dove si riprende un tema leopardiano della caduta della luna che significa la caduta di una cultura, di una civiltà, non ho voluto adottare la forma narrativa e ho ridotto il racconto alla forma dialogica per cui fatalmente prendeva un aspetto teatrale. Quindi io nego che l’operetta possa essere rappresentata perché è un teatro di parola secondo il Manifesto pasoliniano, è un linguaggio molto alto e pieno di riferimenti culturali. È stato senz’altro rappresentato, ma io non parto da presupposti teatrali, parto da presupposti narrativi e dico che è una fiaba raccontata in forma dialogica, senza quelle parti diegetiche che ci sono nelle narrazioni tradizionali.

Io ho cercato di scrivere delle narrazioni nel modo in cui intende questo genere Walter Benjamin, un tipo di scrittura o di racconto che appartiene ancora a una società pre-borghese.

D. Nel 92 Lei ha scritto Nottetempo casa per casa.

Questo è il secondo momento della trilogia, dell’arco storico che ho voluto rappresentare. È un romanzo che si svolge negli anni ’20 e che vuole raccontare la nascita del fascismo vista da un paesino della Sicilia. Per la seconda volta mi sono trovato il paese di Cefalù come teatro per i miei personaggi. Personaggi storici veri e come sempre succede nei romanzi storici anche con personaggi di invenzione, come dice Manzoni, personaggi che debbono avere il colore del tempo. La vicenda è presto detta: c’è una famiglia che si chiama Marano, il protagonista è un giovane maestro di scuola che si chiama Pietro Marano. Ho adottato questo nome perché ha due significati per me. Marano significa marrano, cioè è l’ebreo costretto a rinnegare la sua religione e a cristianizzarsi, perché in Sicilia con la cacciata degli Ebrei nel 1492 - così come in Spagna, - ci furono quelli che andarono via ma anche quelli che rimasero e furono costretti a convertirsi. È stata una forma di violenza. Ho dato il nome di Marano a questa famiglia con questa memoria di violenza iniziale e poi per rendere omaggio allo scrittore Jovine che chiama il suo personaggio principale Marano ne Le terre del sacramento, quindi è un omaggio a una certa letteratura meridionalista. Questo maestro ha una famiglia infelice, malata, perché oltre alla memoria genetica di questa violenza iniziale della costrizione a cambiare cultura e religione, c’è anche il passaggio di classe di questa famigliola che da contadina diventa famiglia di piccoli possidenti, grazie a un eccentrico signore locale, un barone, un libertario, un tolstojano, che aveva privilegiato questa famiglia, piuttosto che il nipote, che era un perfetto imbecille, uno di questi baronetti di provincia. Questo cambio di classe da contadini a piccoli proprietari terrieri li porta a dover ubbidire alle regole della piccola borghesia, per cui i comportamenti devono essere assolutamente diversi, il padre si ammala di depressione, che nel mondo contadino arcaico viene chiamata licantropia. Questo fenomeno è stato studiato dalla principessa di Lampedusa, che era una psicanalista che ha associato la licantropia alla depressione: nel mondo rurale questi poveretti che soffrivano terribilmente, uscivano fuori di casa, magari urlavano e venivano scambiati per lupi mannari. Il padre di questo ragazzo soffre di depressione, malinconia e, preso da questo lacerante dolore dell’esistere, la notte esce. La sorella che si chiama Lucia non può sposare il giovane pastore di cui è innamorata perché non appartiene più alla sua classe e quindi c’è questa sorta di mutilazione sentimentale e la ragazza impazzisce. Il ragazzo si trova di fronte a questa infelicità familiare e immagina – in questa sua solitudine, nel sopportare questo peso di dolore – che in una società più giusta e più armonica, questo dolore privato e familiare si possa distribuire nella società, trovare consolazione nella società. Quindi abbraccia il credo socialista di quegli anni e trova inganno anche lì perché trova dei massimalisti, degli estremisti che lo portano verso deviazioni per cui questo giovane maestro è costretto a scappare e a rifugiarsi in Tunisia, esule, perché ricercato dalla polizia. Intanto fallisce il socialismo in questo primo dopoguerra, c’è la crisi delle ideologie, una crisi sociale, disoccupati, reduci che reclamano diritti e c’è un decadentismo culturale, l’insorgere di nuove metafisiche, di sette religiose. Un personaggio emblematico è un inglese satanista che approda a Cefalù, dopo una vita di peregrinazioni per il mondo inseguendo questi esoterismi, e immagina che a Cefalù, creando una chiesa, l’Abbazia di Telema, si possa soppiantare il cristianesimo ed instaurare l’era di Satana. Questo personaggio inglese che si chiamava Aleister Crowley, che aveva conosciuto tutti i maggiori intellettuali dell’epoca, del primo dopoguerra, da Ferdinando Pessoa a Yates a Katherine Mainsfield, faceva parte di sette segrete, era approdato in Sicilia. Questo personaggio storico è simbolico di un certo decadentismo culturale, dell’insorgere in certi momenti di crisi ideologica, di nuove metafisiche, di nuovi misticismi sia di segno nero sia di segno bianco. Quando si sceglie un argomento storico non è che si sceglie a caso. Io ho scelto per Il sorriso dell’ignoto marinaio il 1860 perché mi sembrava che il tempo corrispondesse al tempo che stavamo vivendo in Italia negli anni ’70 e ho scelto questo argomento degli anni ’20, della nascita del fascismo, perché mi sembrava che nel momento in cui scrivevo il libro ci fossero tutti quei segni che corrispondessero ai segni di allora, nel senso di crisi delle ideologie, si parlava allora di riflusso e quindi insorgere di nuove metafisiche, di settarismi, si cominciava a parlare di new age e queste cose qui, che mi sembrano tutte forme di irrazionalismo che preludono – speriamo che non avvenga – a delle forme fascistiche di assetti politici di tipo fascistico. Ho cercato di raccontare cosa sono i decadentismi culturali e cosa sono le forme politiche che insorgono quando ci sono queste forme di decadentismo culturale e di crisi ideologiche.


D. Lei, Consolo, è considerato uno scrittore “colto”, intendendo il collegamento e l’intertestualità della sua scrittura con la scrittura di altri grandi scrittori: Gadda, Verga, Pirandello, Sciascia, Manzoni e così via. Per poter apprezzare pienamente la sua scrittura occorre avere una padronanza di questa mappa letteraria. A quale lettore ideale Consolo scrittore pensa quando scrive?

Io penso a un lettore che mi somigli, che sia simile a me, che abbia lo stesso tipo di conoscenza. Io credo che capiti a tutti gli scrittori di immaginare un altro da sé, che sia un suo doppio. Calvino addirittura diceva che lui pensava a un lettore che la sapesse più lunga di lui. Qui c’è tutta l’ironia calviniana. Lui pensava a un lettore che avesse la stessa consapevolezza, la stessa conoscenza della letteratura che aveva lui ed era molto difficile. Io penso a uno che sia veramente il mio doppio che abbia la mia stessa storia, la mia stessa cultura, le mie stesse letture che faccia parte di una stessa sfera culturale. Quello che non mi riesce di fare, perché mi sembra ingannevole, è di essere condiscendente, di mettere in atto delle cose, delle strategie che diventano delle trappole, questi sono confini che non riesco a valicare. Questa rigidità però paga poco.

D. In un’intervista a «La Libreria di Dora» Dacia Maraini ha affermato: « [La] separazione tra lingua scritta (l’italiano delle Accademie) e lingua parlata (il dialetto) ha impedito lo svilupparsi di una letteratura realmente popolare e nazionale». Lei ha dato la sua adesione all’iniziativa promossa dall’Associazione «La bella lingua» che si è concretizzata nel Manifesto in difesa della lingua italiana. Non pensa che ogni intervento di tipo dirigistico non faccia altro che mantenere questa situazione e aggravarla?

Sì, io non credo al dirigismo nella lingua. I francesi hanno tentato in tutti i modi di arginare l’invasione dell’americano con il solito loro sciovinismo, Nell’introduzione del mio libro avevo adottato un vocabolo inglese che si adattava benissimo al contesto, al tipo di racconto. L’hanno censurato e hanno messo un vocabolo francese.

La mia adesione a quel movimento per la salvaguardia della lingua italiana era un po’ mettere un allarme, di dire: stiamo attenti che questa nostra lingua sta sparendo. E in effetti è così. C’è però, paradossalmente, da una parte l’invasione della nostra lingua, che è una lingua fragile, perché la nostra è una società fragile dal punto di vista economico, rapportato ai paesi più potenti. Noi non abbiamo dei bacini di utenza della nostra lingua vasti come quelli inglesi o come quelli spagnoli. Non abbiamo avuto colonie, per fortuna, e quindi l’italiano si parla solamente in questa nostra piccola penisola. Dove avviene che con la rivoluzione tecnologica, con lo sviluppo economico questa nostra lingua, che è una lingua bellissima, una lingua complessa, forse una delle lingue più belle che esistano al mondo, che è una lingua complessa, è anche una lingua fragile, che sta per essere invasa da lingue che non appartengono alla nostra storia.

La bellezza della nostra lingua risiedeva nel fatto che aveva due affluenti: la lingua colta delle accademie, la lingua di cultura, quella che Dante chiama «la lingua grammaticale» e dall’altra parte le lingue popolari, i dialetti, che confluivano verso la lingua centrale. Due affluenti che determinavano un arricchimento continuo.

Oggi questi due canali sembra che si siano essiccati e così la nostra lingua è diventata una lingua orizzontale, rigida e anche fragile perché invasa da un super-potere che è un potere economico, che non è il nostro. Questa lingua viene assunta così, senza nessuna critica, matericamente da alcuni scrittori, soprattutto giovani, che non tengono più conto di quello che è l’aspetto linguistico. Da una parte abbiamo questo tipo di letteratura giovanile, giovanilistica, che diventa quasi una scrittura di tipo verbale, che mi ricorda un po’ i neonaturalisti, se si può usare questo termine, di assumere passivamente sulla carte quelli che erano i segni della società, senza nessun vaglio, nessuna ricreazione. Dall’altra c’è il bisogno, da parte di scrittori ma soprattutto dei poeti, di non praticare questa lingua e usare un’altra lingua, che è una lingua di ricerca, che è assolutamente diversa dal gergo di consumo che usiamo normalmente per cui un personaggio come Edoardo Sanguineti che viene dal Gruppo 63 può paradossalmente dichiarare di «fare l’elogio della lingua di Maurizio Costanzo» (popolare conduttore televisivo ndr), proclamando contemporaneamente che la lingua letteraria italiana, di alcuni scrittori italiani, credo del mio tipo, o di tipo sperimentale o meno, è una lingua paludata.

Questa esigenza di una lingua ormai impraticabile la sentono di più i poeti, infatti oggi i poeti sono tornati a scrivere in dialetto, che non è il dialetto che usavano i poeti dialettali, oggi si chiamano poeti «in dialetto” perché lo scelgono con molta consapevolezza e molto rigore per la necessità di trovare una lingua altra che non sia l’italiano impraticabile di oggi. Quando Pasolini scriveva in friulano, allora c’era una realtà dialettale che era quella della sua regione, fortemente connotata linguisticamente perché non era un dialetto ma quasi una lingua, il ladino o friulano che si parlava nella sua zona. L’adozione per esempio del romanesco o la polifonia gaddiana, questo orchestrare tutti i dialetti, perché sentivano che la lingua italiana era fortemente compromessa con il dannunzianesimo, aveva altri tipi di compromissioni, quindi per Gadda c’era l’esigenza di orchestrare la polifonia dialettale italiana. Leopardi diceva che la ricchezza della nostra lingua stava nel fatto che non era una sola lingua ma tante lingue.(  da Italialibri a cura di M.Allo)


D. In un articolo sulla rivista «Autodafé» Lei riporta questa citazione di Roland Barthes: «la lingua non è né reazionaria né progressista: è semplicemente fascista, il fascismo infatti non è impedire di dire ma obbligare a dire»…

La trovavo quanto mai attuale. Portavo l’esempio anche di una mia esperienza personale nel secondo dopoguerra in questo saggio su «Autodafé», di come i preti all'oratorio dove ho frequentato le scuole medie ci impedivano di parlare in dialetto. Ed era un retaggio del periodo fascista perché il fascismo voleva cancellare i dialetti e dare una lingua unica a questo paese. Dare una lingua unica a una società che unica non è, che armonica non è... Questo si è potuto verificare in alcuni paesi dove c’era armonia sociale, per cui si è creata una lingua unica, uguale per tutti, senza queste digressioni dialettali, mi riferisco a un paese come la Francia. L’affermazione di Barthes scaturiva da un’affermazione di Renard, che diceva che la lingua francese è incapace di assurdi, di paradossi, perché è una lingua razionale, ma vivaddio è una lingua democratica, contestandola. Barthes diceva che la lingua in sé, il codice linguistico non è reazionario, né progressista, è semplicemente fascista. Appunto perché il codice linguistico che ci è imposto, ci impone di parlare in un determinato modo. Oggi più che mai la lingua che noi usiamo è una lingua fascistica perché appunto è elaborata soltanto dal potere economico e quindi dalla tecnologia. Oggi la lingua la impone il sig. Gates. I ragazzini assorbono tutta l’idiozia dei messaggi pubblicitari, nel linguaggio quotidiano ripetono passivamente questi messaggi. Quello è fascismo. Non sono linguaggi elaborati da loro, loro li ripetono come delle macchine, dei pappagalli.

D. A sei mesi di distanza dalla presentazione del «Manifesto in difesa della lingua italiana » ha rilevato sintomi che fanno presagire un’inversione di tendenze nell’uso dell’italiano?

Non ci sono sintomi. Mi fa impressione sentire – in confronto all’analisi che aveva fatto Pasolini sul politichese di Aldo Moro, su questa lingua astratta di tipo tecnologico aziendale – sentire i discorsi dei giovani politici di oggi. Già Aldo Moro aveva un background di tipo umanistico. Sentire oggi parlare signori come Berlusconi [Berlusconi Silvio, cavaliere, magnate dei mezzi di comunicazione, deputato, controverso fondatore del partito-azienda «Forza Italia» ndr], sembra di ascoltare il linguaggio dei robot. I suoi slogan, mi sembrano appartenere a un linguaggio robotico, pubblicitario, di assoluta forza persuasiva, con un’articolazione ridotta al minimo. I nessi sintattici sono pressochè inesistenti. Non c’è articolazione di pensiero, sono solo affermazioni apodittico che servono solo a intimidire e a persuadere. Così erano gli slogan che aveva coniato il nostro D’Annunzio per il Sig. Mussolini. Erano delle urla, delle frasi che cercavano di intimidire e persuadere.






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