I DESTINI ATTUALI DELLA POESIA:CONOSCENZA E VERITA'
Data: Venerd́, 07 marzo 2008 ore 16:32:03 CET
Argomento: Rassegna stampa


Come mai, in un’epoca di distruzione della tradizione, il rapporto tra Poesia e Filosofia si è fatto così stringente? Ci troviamo in un tempo, ormai, sotto il dominio della Scienza e della Tecnica, in cui non dovrebbe suonare più stranamente l’unione di poesia e filosofia, che hanno nella scrittura la fonte del loro confrontarsi col senso, né l’equivalenza tra scrittura poetica e scrittura saggistica, e certo la verità non va intesa nel senso tradizionale di una adeguazione tra la cosa e l’intelletto, ma di una molteplicità di vie, di sentieri interrotti, d’interrogazioni rivolte alla vita, sia rispetto alla propria esistenza soggettiva, che a quella universale, e scoperte o riscoperte nella rivelazione della scrittura. Ci possono essere scritture più o meno intense, sofferte, in continuità con la tradizione o di rottura della tradizione, spontanee o calcolate secondo gli effetti più suggestivi, ma tutte esprimono un modo di essere al mondo e di ricerca della verità. Ripercorrendo il Novecento affiorerebbero tanti aspetti rimossi, o analizzati unilateralmente dalla critica, o addirittura cancellati dal quadro, fino a far diventare naturale e indiscutibile un canone poetico, allo stesso modo che una visione del mondo (di cui quel canone è specchio). ( a cura di M.Allo) Vediamo come Poesia e Filosofia procedano unitariamente in questo compito di trasparenza e tentano di ritrovare la loro unità originaria ( di Tiziano Salari)


Dunque la recente apparizione di alcune antologie della poesia italiana della seconda metà del Novecento ci spinge ad interrogarci sui destini attuali della poesia (di cui questo seminario si è fatto carico), ma anche, sorprendentemente, a renderci conto di una sproporzione tra quanto viene raccolto e antologizzato e quanto rimane latente, o nascosto, o rimosso dal quadro. Indagare le ragioni di questa povertà (o sordità) nel delineare le linee contemporanee della poesia, significa anche interrogarsi sulla critica, che nel migliore dei casi (lasciando perdere altre ragioni più contingenti di opportunità editoriali) è la principale responsabile di questo depauperamento che ci porta a fare la domanda fondamentale: miseria della critica? o miseria della poesia?
Ora questa immagine ha assunto nel corso del tempo diverse formulazioni, come poesia e non poesia nei primi quaranta anni del secolo, perdita dell’aura e abbassamento del linguaggio poetico alla medietà linguistica nel secondo Novecento e altre ancora ma tutte provocando degli schematismi nell’interpretazione della poesia. Solo la battaglia contro questo incantamento può, se non altro, diradare le nebbie, e aprire lo sguardo (e il linguaggio critico) verso nuove prospettive. Non che gli estensori di tali panoramiche non si rendano conto della difficoltà di arrivare a delle rappresentazioni convincenti data l’attuale situazione editoriale, anche se poi risulta del tutto incoerente con le premesse l’essersi messi al lavoro su un materiale del tutto insufficiente e soprattutto dando per scontato che, almeno per la prima metà del Novecento, sembra essersi consolidato un canone sulla base di solide premesse metodologiche. Così Piccini: «Una bussola sicura, pur in presenza di alcune effettive opzioni forti, è rappresentata dall’ormai classico lavoro Poeti italiani del Novecento (1978) di Pier Vincenzo Mengaldo». Anche Giovanardi dà per acquisito (ed esaurito), sia pure problematicamente, un canone della poesia italiana nella prima metà del secolo, e avviate nuove esperienze nella seconda metà del secolo. E Testa parla addirittura di «rivolgimento», avvenuto a partire dagli anni Sessanta, in collegamento con le «trasformazioni subite dalla realtà sociale». In Italia sono, secondo le analisi di Pasolini, il momento del ‘trauma’ tra una civiltà contadina e arcaica e la crescita industriale del boom neocapitalistico. Direttamente o indirettamente, ma con molte incertezze di prospettiva, viene data per acquisita «la coscienza dell’esautorazione del valore trascendente della poesia» (Testa) e l’abbassamento del poetico a un linguaggio desublimato, alla prosa. Ma questa è proprio quell’immagine del poetico che tiene prigioniera l’attuale mentalità critica (e alla base della koiné internazionale del poetico) e impedisce alla poesia di cogliere il tragico o la molteplicità delle trasformazioni dell’essere e della vita dei nostri tempi.Come uscirne?
Come avvio vorrei prendere questa citazione da Michel Foucault: Del tema che sceglierei come punto di partenza trovo la formulazione in Beckett: «Che importa chi parla, qualcuno ha detto, che importa chi parla. È in questa indifferenza, penso, che bisogna riconoscere uno dei principi etici fondamentali della scrittura contemporanea». La nozione di autore, se ha avuto un peso per il passato, nei processi di rappresentazione e memorizzazione, e ha dato vita anche sul piano scolastico alla antologizzazione e alle storie della letteratura, oggi continua ad avere lo stesso senso? E che significa porre al centro la scrittura piuttosto che gli autori e la gerarchia dei discorsi?

Secondo Severino «nella sua essenza la filosofia contemporanea è la distruzione inevitabile della tradizione filosofica e dell’intera tradizione dell’Occidente».Ma anche la poesia è giunta alla stessa fase della distruzione inevitabile della sua tradizione occidentale. E anzi mai, come nella nostra epoca, filosofia e poesia sono state implicate nelle stesse problematiche. In primo luogo si prenda la differenza tra concetto e sua espressione linguistica che, secondo varie declinazioni, va sotto il nome di differenza. Le scritture filosofiche tendono sempre di più ad esprimersi in linguaggio analogico, metaforico. Nietzsche, Bergson, Husserl, Heidegger, Derrida, Deleuze. La stessa tradizione che Severino vede tramontare, indicando in Leopardi e in Nietzsche il culmine nichilistico della stessa vede due poeti (o due filosofi non tradizionali) assurti allo stesso rango di pensatori. Ora, quello che a me interessa, non è tanto risalire attraverso la tradizione, fino alle origini, e trovare i momenti di unità e di separazione di Poesia e Filosofia, quanto capire perché, in un’epoca di distruzione della tradizione, questo rapporto si sia fatto più stringente, fino a una sovrapposizione d’intenti, di linguaggi, di comune ricerca del senso. Non si intende invadere il campo della critica letteraria, anche se mi sembra essa abbia ormai mostrato i suoi inguaribili limiti, fino a far parlare, da parte di uno dei suoi cultori migliori, di “eutanasia della critica” e della necessità di una sua trasformazione. Quanto si tratta di capire come la vita tenti di farsi intelligibile attraverso il linguaggio, e come procedano unitariamente Poesia e Filosofia in questo compito di trasparenza, in cui tentano di ritrovare la loro unità originaria…

Quindi non la verità, ma la vita è l’obiettivo che congiunge insieme Filosofia e Poesia e non è certo un caso che «per una singolare coincidenza, l’ultimo testo che Michel Foucault e Gilles Deleuze hanno pubblicato prima di morire ha, in entrambi i casi, al suo centro il concetto di vita».Ora, come sottolinea Agamben commentando le ultime riflessioni di Foucault e di Deleuze, «strappando il soggetto dal terreno del cogito e della coscienza», la vita viene ad essere un campo di erranza infinita al di là degli stessi vissuti soggettivi, qualcosa insieme di impersonale e di trascendentale.


«Che cosa può essere una conoscenza che non ha più come correlato l’apertura al mondo e alla verità, ma solo la vita e la sua erranza?» Intendo soltanto qui sottolineare una tendenza, un orizzonte problematico, all’interno di quella distruzione della tradizione occidentale a cui da versanti diversi è approdata la tradizione filosofica, la cui situazione attuale potrebbe essere definita: dopo la filosofia.

Ora, che la poesia appartenga allo stesso orizzonte (una delle cose da condividere dell’antologia di Enrico Testa è il titolo: dopo la lirica) non significa altro che la poesia s’interroga (interroga l’ente, la vita), sull’immanenza e la trascendenza, ma soprattutto la destituzione di un soggetto privilegiato a cui rapportare la vita, a favore di una più articolata e complessa interrogazione dell’essere.

Quasi un secolo prima, nella Lettera a Leo Popper, inclusa ne L’anima e le forme di György Lukàcs, torna prepotente il concetto di vita in rapporto alla questione della verità. Parlando del saggio critico come opera d’arte, come genere artistico autonomo, Lukàcs dice: «Il saggio tende alla verità, esattamente, ma come Saul, il quale era partito per cercare le asine di suo padre e trovò un regno, così il saggista, che sa cercare realmente la verità, raggiungerà alla fine del suo cammino la meta non ricercata, la vita». Quindi, a distanza di quasi un secolo gli uni dagli altri, il giovane Lukàcs e al punto estremo della loro maturità filosofica, Foucault e Deleuze, ritrovano nel concetto di vita un terreno più propizio di quello illusorio di “verità” da aprire alla nostra ansia di conoscenza. Inoltre Lukàcs indicava, quasi un secolo fa, una via alla critica: che era la concezione del saggio critico come un genere artistico autonomo e non subalterno alle opere d’arte di riferimento, ma appunto teso al ritrovamento della vita, attraverso una ricerca della verità.





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