PASOLINI, IL DIALETTO E LA CULTURA CONTADINA
Data: Sabato, 01 marzo 2008 ore 21:02:02 CET
Argomento: Rassegna stampa



Durante l’infanzia e l’adolescenza, a causa dei continui trasferimenti del padre (ufficiale di carriera), si sposta prima a Parma, quindi a Belluno, Conegliano, Cremona e Reggio Emilia. Fondamentali rimangono i soggiorni estivi a Casarsa, «… vecchio borgo… grigio e immerso nella più sorda penombra di pioggia, popolato a stento da antiquate figure di contadini e intronato dal suono senza tempo della campana » — l’incontaminato, primitivo puro mondo campestre a cui sarà strettamente legato il suo esordio letterario e a cui emotivamente lo scrittore rimarrà legato per tutta la vita.

Dopo il liceo, nel 1939 s’iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, dove vive — scrive lo stesso Pasolini — «il grande periodo dell’Ermetismo, studiando con Longhi … e vivendo ingenue relazioni letterarie con i suoi coetanei…»: gli amici Francesco Leonetti, Roberto Roversi e Luciano Serra.

Nel 1942 pubblica a proprie spese un volumetto di poesie che suscita l’interesse di Gianfranco Contini, Poesie a Casarsa. La raccolta è scritta in dialetto friulano, in quella che per lui è «lingua pura per poesia»: in quel momento della storia italiana — motiverà più tardi in Passione e ideologia — «l’unica libertà rimasta pareva essere la libertà stilistica». In quello stesso anno, intanto, il padre — padre «antagonista e tirannico» con cui ha un rapporto conflittuale feroce e tragico — è prigioniero degli inglesi in Africa.

L’8 settembre del ’43 Pasolini fugge da sotto le armi e torna a Casarsa, dalla madre. «I rapporti tra madre e figlio — scrive Enzo Siciliano in Vita di Pasolini (Rizzoli, 1978) — furono sempre i più teneramente strazianti». L’«odore della povera pelliccia di mia madre è l’odore della mia vita». Su di lei — confessa il poeta — «tutta la mia vita è stata imperniata».

Dopo la fuga dalle armi, «ossessionato dall’idea di finire uncinato; ché così finivano nel Litorale Adriatico i giovani renitenti alla leva o dichiaratamente antifascisti», Pasolini trascorre i lunghi mesi dell’occupazione nazista nella cittadina friulana e nel vicino borgo di Versuta. Qui, in casa, con mezzi di fortuna, organizza una scuola gratuita per pochissimi alunni, mentre continua ad occuparsi del recupero del dialetto friulano con un gruppo di amici. Nel 1944 esce il primo di due quaderni intitolati Stroligut di cà de l’aga (2) — il primo documento dell’attività del gruppo che nel febbraio del 1945 fonderà l’Academiuta di Lenga Furlana.

Delle privazioni, dei pericoli, degli amori omosessuali, degli incontri, di quegli anni vissuti a contatto con la natura, Pasolini racconta in diari, in scritti autobiografici, e in abbozzi letterari rimasti allora inediti.

Nel maggio del 1945 riceve la tragica notizia della morte del fratello Guido (nato nel 1925). Partigiano nella divisione Osoppo legata al Partito d’azione, Guido Pasolini fu ucciso in un oscuro episodio «da mano fraterna nemica», ossia da gruppi di partigiani comunisti uniti agli svoleni che in quel momento intendevano annettersi il Friuli.

Nell’autunno di quello stesso anno, Pier Paolo si laurea con Carlo Calcaterra, con una tesi dal titolo Antologia della lirica pascoliana (introduzione e commenti). Sempre in quell’autunno, finita la guerra, torna dalla prigionia del Kenia il padre, oramai «reduce malato, avvelenato dalla sconfitta del fascismo,… distrutto, feroce, tiranno senza più potere». Il ritorno del padre, la morte del fratello e il dolore sovraumano della madre rendono questo periodo il più tragico della sua vita.

Nel frattempo, cominciano le pubblicazioni de «Il Stroligut», la rivista dell’Academiuta di Lenga Furlana e prosegue la sua attività poetica. Nel’45 pubblica le raccolte di versi in italiano Poesie e, per le Edizioni dell’Academiuta, I diarii e nel’46 I pianti. Gran parte dei versi scritti dal’43 al ’49 saranno raccolti poi nel volume L’usignolo della chiesa cattolica (1958). In dialetto friulano, invece, uscirà nel’49 Dov’è la mia patria e nel’53 Tal cour di un frut.

Pur continuando a vivere a Casarsa, attraverso vari viaggi a Roma, Pasolini comincia ad ampliare i propri contatti culturali.

Nel 1947, sulla nuova rivista dell’Academiuta, «Quaderno Romanzo», esce un suo intervento nell’ambito del dibattito sull’autonomia del Friuli. Il ’47 è anche l’anno della «scoperta di Marx» e della sua adesione al Partito comunista — ai suoi occhi strumento per «trasformare la preistoria in storia, la natura in coscienza».

Dopo un periodo d’insegnamento nella scuola media di Valvasone, conclusosi con un processo (3) per corruzione omosessuale e con l’espulsione dal Pci, nel 1949 Pier Paolo, «come in un romanzo», fugge con la madre a Roma. «Per due anni — racconta Pasolini — fui un disoccupato disperato, di quelli che finiscono suicidi; poi trovai da insegnare in una scuola privata a Ciampino per ventisettemila lire al mese». Dopo quei «due anni di lavoro accanito, di pura lotta», aggravati per giunta dalla presenza del padre che nel frattempo li ha raggiunti a Roma, nel ’51 si trasferisce da piazza Costaguti, nel quartiere ebraico, a Ponte Mammolo, sulla Tiburtina, «in una casa restata definitivamente senza tetto».

Così Pasolini, anche con l’aiuto dell’amico Sergio Citti (4) — uno dei ragazzi conosciuti in borgata con cui lavorerà fino all’ultimo — scopre il popolo della periferia: la Roma delle borgate che diverrà lo scenario dei suoi romanzi di maggior successo.

Nel contempo, però, comincia a entrare in contatto con gli ambienti letterari romani, con gli scrittori e poeti Penna, Bassani, Caproni, Gadda e Bertolucci. Allacciando, inoltre, uno stretto rapporto con il gruppo di intellettuali che si riunisce intorno alle riviste, «Il contemporaneo», «Paragone» e «Vie nuove», partecipa attivamente a iniziative editoriali, a polemiche letterarie, pubblicando testi di vario tipo.

Si accosta anche all’ambiente del cinema e con l’aiuto di Giorgio Bassani, partecipa alle prime sceneggiature cinematografiche: nel’54, per il film La donna del fiume di Mario Soldati; e l’anno successivo, assieme a Bassani, per Il prigioniero della montagna di Luis Trenker; mentre nel’57 collaborerà, come filologo per le battute in romanesco, alla sceneggiatura de Le notti di Cabiria di Federico Fellini .


La posizione di Pier Paolo Pasolini nei confronti del dialetto ha una duplice motivazione: una affettivo-romantica, legata al carattere bucolico dell’entourage familiare contadino della madre; l’altra politica, di opposizione al paradigma che recita: dialetto=autonomia regionale=frammentazione nazionale. Ma eccovi da Italia Libri la straordinaria capacità di Pasolini di coniugare il paesaggio alla letteratura


Con il friulano non aveva un rapporto distaccato. Lo coltivava con affetto, come successivamente farà con altri dialetti: il romanesco (Ragazzi di vita, Una vita violenta, Accattone), il napoletano (Decameròn), il lucano, il calabrese, l’abbruzzese (Vangelo secondo Matteo) e le lingue e i dialetti africani e orientali. Ne paventava la fine, anzi la preannunziava. E così gli pareva imminente la fine di ogni civiltà contadina e artigiana in ogni parte del mondo. Nei suoi viaggi in Africa e in Oriente lamentava come ogni cultura e, in particolare, ogni lingua venisse sopraffatta dal modello occidentale.

Si accostava a qualsiasi dialetto come ci si accosta una lingua straniera; non come a un espediente letterario o formale, da sfruttare per aggiungere «colore», ma con il rispetto che si riserva a una cultura da difendere e salvare dall’aggressione di una barbarie massificata.

Durante la guerra aprì una scuola (1943), fatta subito chiudere dal Provveditorato di Udine. Perciò le lezioni continuarono in privato. Gli alunni apprendevano a scrivere versi in italiano e in friulano. All’interno di un sistema scolastico «purista», come quello italiano, Pasolini sfidava i luoghi comuni, secondo cui il dialetto possono usarlo solo i filologi. Fondò una specie di laboratorio linguistico, l’«Academiuta di Lenga Furlana» e mentre continuava a registrare gli idiomi locali durante lunghe uscite in bicicletta, curioso di approfondire le sue conoscenze, sempre di più si avvicinava alle posizioni dell’autonomia friulana. Autonomia che era approvata dal partito della Democrazia Cristiana, che vedeva bene la regione a far da ideale cuscinetto contro l’Est, ma avversata dal Partito Comunista, che, dopo il referendum, sognava di ricevere il mandato parlamentare per governare l’Italia unificata e non vedeva di buon occhio un Friuli forte (B. D. Schwartz, Pasolini Requiem, Marsilio 1992). Tuttavia Pasolini voleva che fosse il PCI ad abbracciare la causa autonomista «...per far sì che il nuovo Ente Regione non diventi il covo di interessi locali, di campanilismi» (Ibidem).

Nonostante la morte del fratello, giustiziato da una brigata partigiana filo-titoista, nel 1946 Pasolini prese la tessera del PCI, che considerava l’unico partito in grado di assicurare un futuro civile alla nazione. Ne verrà presto espulso, in seguito all’«incidente» giudiziario di Ramuscello, relativo al comportamento assunto con alcuni ragazzi conosciuti alla sagra di Santa Sabina (1949).

In seguito i critici lo attaccheranno per quell’attingere per i contenuti delle poesie, dei romanzi e dei film negli ambienti del sottoproletariato, ma soprattutto «impresentabili» di fronte al consesso internazionale di paesi civili di cui l’Italia aspirava a far parte: il Nord Europa, gli Stati Uniti. Lo facevano anche i neorealisti, ma nessuno «scandalosamente» come lui. In questo, alcuni scorsero delle affinità con l’opera di Caravaggio, il pittore lombardo che visse a Roma nel '500. Lo stesso Contini, lo stesso Calvino, lo stesso Moravia. non potevano fare a meno di apprezzarlo per la straordinaria versatilità, e per la puntigliosità con cui si sottoponeva al lavoro artistico, ma un abisso li separava.

A Roma (1950) apprese subito il romanesco della periferia, quello degli emigrati meridionali e dei ragazzi di strada. Non quello dei cultori e dei poeti dialettali locali.

Quando si accorgerà che anche nelle periferie romane non si parla più il romanesco genuino dei Ragazzi di vita e di Una vita violenta, abbandonerà il progetto dei romanzi ‘di borgata’ a cui aveva continuato a lavorare fino ai primi anni ’60, perfezionando le espressioni gergali, con la «consulenza» dei ragazzi che frequentava. Dei personaggi di Petrolio nessuno parlerà il dialetto perché, con la televisione, ovunque si era imposto l’italiano degli –ismi, degli –isti e delle –enze. Accattone sarà l’ultima opera contaminata col dialetto. Nel Decameròn farà parlare napoletano ai suoi personaggi, ma, eccezione, è solo un espediente stilistico. A Gennariello, lettore ideale di alcuni articoli del ’75 (Lettere Luterane), tenta di restituire la memoria delle cultura a cui apparteneva. Ma ormai il dialetto è un ricordo.







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