SCUOLA: ECCO PERCHE' CHI HA VOTATO CENTRO SINISTRA SI SENTE DELUSO
Data: Sabato, 23 febbraio 2008 ore 16:14:23 CET
Argomento: Opinioni


Le ragioni per cui una parte della scuola - consistente e motivata -
 che ha votato due anni fa centrosinistra, si sente oggi delusa.

La scuola non sia merce di scambio politico.

di Marina Boscaino da l'Unità del 23.2.2008

 

Per tanto tempo ho scritto di scuola dalle colonne di questo giornale, sostenendo che il disinvestimento - che ha accomunato governi di centro destra e di centro sinistra, sia pur con le dovute differenze - è stato, oltre che economico, culturale. L’antipolitica che serpeggia nel Paese - una malattia pericolosa, che rischia di sclerotizzarsi - sta attecchendo anche tra noi. Spiegare le ragioni della delusione è uno dei motivi per cui l’Associazione Nazionale Per la Scuola della Repubblica ha organizzato a Roma il convegno Una scuola statale, laica, democratica per tutti in una società in trasformazione: un impegno per la sinistra. Un impegno per la sinistra tutta, non solo per quella parte che interverrà ai lavori di oggi e parteciperà coesa alle elezioni. In quelle parole, in quelle caratteristiche, credo, vadano individuati i valori fondanti ai quali anche il Partito Democratico dovrebbe ispirare la propria politica scolastica. Vorrei provare perciò a spiegare qui le ragioni per cui una parte della scuola - consistente e motivata - che ha votato due anni fa centrosinistra, si sente oggi delusa.

Alcuni dati di realtà: si va al voto con una legge elettorale sulla quale la Corte Costituzionale eccepisce e che ha ampiamente dimostrato il senso e i costi, in termini etici, politici ed economici, dell’ingovernabilità; la recessione degli Stati Uniti probabilmente coinvolgerà l’economia mondiale, e quindi anche la nostra; il disamore è dovuto all’assenza della politica - di cui la politica stessa è responsabile - dall’orizzonte di attesa del cittadino comune: il successo della "casta" e del "vaffa-day" rappresenta il paradigma della II repubblica caduta su se stessa. In questo panorama, qualora anche si dovesse prevalere come moltissimi di noi auspicano, è inutile pensare a grandi riforme.

Quindi investire culturalmente sulla scuola significa innanzitutto non ripetere l’errore di fare della scuola pubblica una merce di scambio politico: affidare il luogo dell’educazione, della formazione della coscienza critica, della cultura emancipante, delle pari opportunità e dell’accoglienza seguendo una logica di strategia di spartizione piuttosto che di competenze specifiche si è dimostrato un errore; tanto più grande, se si considera che il ministro Fioroni - al quale bisogna comunque riconoscere una notevole capacità politica e una disponibilità rara a tentare di recuperare un gap di cui non aveva alcuna responsabilità - non ha mai fatto mistero di una spiccata vocazione confessionale, che mal si coniuga con il concetto di scuola dello Stato: basti pensare alle diverse incursioni e ai tentati attacchi alla laicità. Uno dei punti fermi sui quali molti insegnanti non ammettono deroghe.

Significa non promettere il migliore dei mondi possibili. Inutile riprendere in mano le pagine del programma dell’Unione: il velleitarismo di certe promesse è sotto gli occhi di tutti (la generalizzazione della scuola dell’infanzia), così come l’ambiguità di certe affermazioni (obbligo di istruzione e obbligo scolastico), che hanno di fatto perpetuato un sistema che andava mantenuto (quello della formazione professionale) con la scusa della lotta alla dispersione.

Significa valorizzare realmente la professionalità dei docenti, al di là delle dichiarazioni canoniche e pre-elettorali: essere un insegnante, infatti, vuol dire non solo esercitare una professione, ma interpretare una delega costituzionale. È una cosa seria, che non può essere impoverita né avallando un’eccessiva sindacalizzazione, che non tiene conto dell’interesse generale; né ignorando (o fingendo di ignorare) che tra abbassamento del livello di autorevolezza culturale, delegittimazione sociale, riconoscimento economico irrisorio, il nostro sta diventando un lavoro di ripiego, in un ambiente sempre meno stimolante e accogliente per chi ha voglia di fare e di seguire il cambiamento attraverso studio, impegno, cura della relazione educativa.

Significa interpretare il concetto dell’ autonomia non come un trito slogan, ma nel suo valore autentico di potenziamento della dimensione di ricerca e sperimentazione che ogni insegnante che abbia intenzionalità culturale, consapevolezza del proprio mandato e della propria funzione politica in senso ampio è in grado di esprimere. E non ricordarne l’autentico significato solo nel momento dell’emergenza, affidando alla scuola - in mancanza di fondi e senza l’adeguata formazione - la responsabilità di progettare, per esempio, un biennio unitario. Significa potenziare la dimensione della collegialità, incoraggiare la ricerca di senso che molti di noi stanno compiendo nella direzione di una rifondazione dei paradigmi su cui si fondano le discipline e il modo in cui - pedissequamente, da decenni - vengono trasmesse, amplificando il divario tra noi e i nostri studenti; tra noi e i cittadini che saranno. Significa mettere il dito nella piaga di tanti sprechi che pure dalla scuola vengono fatti (si pensi ai Pon, Programmi Operativi Nazionali, alimentati da fondi dell’UE) e concepire realmente una scuola inclusiva, in cui tutti abbiano diritto di cittadinanza. Rafforzando pratiche educative, professionalità, ricerca curricolare e relazionale alternative, là dove le condizioni lo richiedano: zone a rischio dispersione, integrazione degli alunni stranieri, attenzione per i diversamente abili.

Investire culturalmente sulla scuola significa credere - ma crederlo veramente - che questa sia il maggior serbatoio di energie, di civiltà, di progresso e di vita fondamentale per un Paese civile. Formare adeguatamente gli insegnanti, incoraggiarli a mettere al servizio degli studenti un’autorevolezza culturale, relazionale e didattica in un ambiente, in condizioni di lavoro, con riconoscimenti economici che mostrino concretamente il senso di quell’investimento. Non servono grandi riforme, insomma. Serve la convinzione che la mancata percezione di guadagni immediati non corrisponde all’inefficacia di un’operazione. Considerare questo punto di vista è un investimento a basso costo economico, ma ad alto rendimento in termini di civiltà. E di consenso.








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