Le forme del passato e la poesia del Novecento
Data: Luned́, 18 febbraio 2008 ore 13:46:47 CET
Argomento: Rassegna stampa



 " Ungaretti...cerca il nuovo per leggere la tradizione (sia pure) in  modo antitradizionale"
 "Per due volte Montale ribadisce questa «grande verità»: «Dante non è un poeta moderno»e  " resta estraneo ai nostri tempi, a una società soggettivistica e fondamentalmente irrazionale, perchè pone i significati nei fatti e non nelle idee".

Eppure leggere Dante oggi ci serve  a riconoscere al fondo di noi stessi i segni di una appartenenza a una civiltà che ,in questa realtà complessa, stentiamo a decifrare. Ma la parola poetica eterna di umanità non supera le barriere e i confini del tempo perchè riscopre l'autenticità ,unica fonte della nostra identità?

Eccovi un interessante articolo di Romano Luperini: Le forme del passato e la poesia del Novecento .

Insegna letteratura italiana moderna e contemporanea a Siena dal 1980.
È professore aggiunto all'University of Toronto, Canada. È coordinatore del dottorato "Letteratura italiana, tecniche di analisi del testo e teoria dell'interpretazione" presso l'Università degli Studi di Siena.
Inoltre, è coordinatore del Master "L'arte di scrivere" presso la stessa università. Fa parte del direttivo nazionale A.D.I , l'associazione universitaria di docenti di italianistica.( M.Allo) 

di Romano Luperini

Si considerano, attraverso testi di Zanzotto e di Luzi, due immagini di Petrarca diffuse nella poesia contemporanea: una anticlassica e nichilistica, l’altra classicistica e umanistica. Nella posizione di Zanzotto si rispecchia la riflessione di Ungaretti su Petrarca e su Leopardi. L’interpretazione ungarettinana di Petrarca è splendidamente modernista: Petrarca è il primo dei moderni, iniziatore di una linea che giunge, attraverso Gongora e Leopardi, sino a Mallarmé. In questa linea Dante è l’“altro”, e si definisce solo per differenza. Diverso il caso di Montale che si ispira piuttosto alla linea dantesca, come d’altronde il secondo Luzi. E tuttavia dopo la svolta degli anni Cinquanta e Sessanta in Montale si affaccia l’idea di un Dante diverso rispetto a quello stilnovista e paradisiaco, un Dante basso, comico e prosastico. A Montale interessa Dante perché non moderno ed espressione di un mondo, quello medioevale, che presenta strane analogie con quello contemporaneo che oggi viene definito postmoderno.

 


Scavando nell’humus del bosco, andando a fondo nell’intreccio di materia e di civiltà, Zanzotto riscopre una falda oscura della vita e l’origine luminosa della parola. L’autentico viene raggiunto attraversando a ritroso il tempo. È la scoperta dell’innocenza attraverso la memoria, la ripetizione della grande operazione ungarettiana.

Come è noto, Ungaretti ne attribuiva la paternità a Petrarca, il primo – a suo dire – dei moderni. E tuttavia nel Sonetto del che fare e che pensare, l’undicesimo degli ipersonetti di Galateo in bosco, la ripresa di Petrarca non approda ad alcun porto sepolto, ma al nulla. Invece della radice della esistenza, si spalanca dinanzi all’interrogante la verità dell’inesistenza. Il vertiginoso nichilismo di Zanzotto qui pone in discussione infatti non solo l’essenza e l’esistenza del mondo, ma quelle di chi parla e del suo pensiero stesso.

«Che fai? Che pensi? Ed a chi mai chi parla?
Chi e che cerececè d’augèl distinguo,
con che stillii di rivi il vacuo impinguo
del paese che intorno a me s’intarla?

A chi porgo, a quale ago per riattarla
quella logica ai cui fil m’estinguo,
a che e per chi di nota in nota illinguo
questo che non fu canto, eloquio, ciarla?

Che pensi tu, che mai non fosti, mai
né pur in segno, in sogno, di fantasma,
sogno di segno, mah di mah, che fai?

Voci d’augei, di rii, di selve, intensi
moti del niente che sé a niente plasma,
pensier di non pensier, pensa: che pensi?1

Alla fine di ogni interrogazione resta solo l’atto dell’interrogazione medesima, il pensiero, che può pensare se stesso e la propria negazione, ma senza alcuna certezza o garanzia. Il pensiero si scopre solo con se stesso, privo di fondamenti. Petrarca introduce non alla solidità e alla misura del classico, ma all’atterrita fragilità e all’ horror vacui del barocco. L’ultimo verso – «pensier di non pensier, pensa: che pensi?» – potrebbe esser di Marino o piuttosto, direi, di Gòngora.

Zanzotto offre di questo suo sonetto un implicito autocommento nel saggio su Petrarca compreso in Fantasie di avvicinamento, dove torna a considerare il componimento 273 del Canzoniere. Dopo aver parlato di una «doppia frustrazione, quella “in vita” e quella “in morte”, le quali, anziché elidersi, vengono portate ad illustrarsi, a potenziarsi a vicenda», e della scoperta petrarchesca di «un’alterità come irrimediabile rifiuto e silenzio, per cui ogni accenno al dialogo, ogni illusione di interscambio, ricade nel monologo», osserva che l’incidenza dell’orizzonte metafisico-religioso «aggrava la situazione presentando un terzo gradino negativo […] di colpa e di autopunizione», aggiungendo infine, a conferma:

«"Che fai? Che pensi?": questo celebrato inizio di un sonetto del Canzoniere ne è forse la parola portante, rivolta dal poeta a sé, all’alterità, a tutto. L’esperienza del Canzoniere si risolve in questi interrogativi che possono avere mille risposte ma sono destinati a rientrare in un’unica non-risposta.»2

2.

In Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini un componimento è intitolato Petrarca. Mario Luzi vi rappresenta il poeta che spia, con ansiosa invidia, il pittore intento al proprio lavoro:

«Perché non lo lasciava
un momento con lo sguardo?
Lo seguiva in ogni istante
dell’opera, scrutava
il laborioso facimento
dei volti, dei panneggi,
aspettava trepidando
la mandorla degli occhi,
dagli occhi il loro misericordioso dardo.
"Studiava il poeta della Corte
maestro in cortesia
la mia sovranità, la mia maestria,
domandava elemosina
di luce e di pietà
alle mie storie la sua arte
che non aveva storia – divorata
dalla beltà, assetata di grazia"».3

Petrarca, poeta di corte, prigioniero di un’arte priva di storia e di pietà e immobilizzata in un sogno di decoro e di bellezza, vede in Simone Martini, incontrato ad Avignone, la grazia di una spinta vitale che da lui è invece come defluita via. Anche in questo caso possiamo individuare un implicito autocommento dell’autore:

«ho cercato di spiegare perché Petrarca sia stato un po’ una sirena che ha incantato molto tutta la storia della lirica italiana, ma anche perché, rinnovatosi e riattizzatosi il problema della poesia, si sia dovuti venire di nuovo a contatto con Dante. Dante lascia al mondo la sua qualità e la sua natura interrogativa, mentre Petrarca tende piuttosto a chiuderlo in una forma conchiusa, incantevole: di isolamento e solitudine, ma di pericolo al tempo stesso».4

Al banchetto della lirica moderna, egemonizzata da Petrarca, assiste insomma un convitato di pietra, Dante, con cui bisognerebbe di nuovo tornare in contatto. Se per Zanzotto Petrarca è il poeta dell’interrogazione che s’interroga su se stessa, per Luzi è il poeta che all’interrogazione chiude ogni spazio rinserrandosi in una forma conchiusa.

3.

Zanzotto e l’ultimo Luzi esprimono due modi diversi di confrontarsi con le forme della tradizione. Di «due scuole», entrambe interne al «gusto moderno», Montale parla nel 1946: una sarebbe quella della «poesia pura o alogica», l’altra quella che, «attraverso l’approfondimento dei valori musicali, tenta di giustificare […] quelle parti grigie, quel tessuto connettivo, quel cemento strutturale-razionale che i poeti puri respingono». Della prima, spiega Montale, fanno parte «il Coleridge di Kubla Khan, il Rimbaud di Illuminazioni e l’Ungaretti di molte poesie»; della seconda, «il Foscolo dei Sepolcri, il Hopinks delle liriche più pensate, il Valéry del Cimitero marino e l’Eliot dei Quartetti»,5 nonché, potremmo aggiungere noi, il Montale delle Occasioni e della Bufera. Secondo Montale, in Italia entrambe scontano un vuoto, la mancanza, nel secolo precedente, di un poeta come Baudelaire, e cioè di «un poeta centrale, normativo, integralmente ottocentesco, che potesse fare scuola». Foscolo e Leopardi non bastano, perché «partono dal Settecento e si affacciano al nostro tempo lasciando allo scoperto gran parte dell’Ottocento». Di qui «la sensazione, penosa e insieme fortificante, che da noi tutto è sempre da rifare, punto e daccapo».6

Questo vuoto della tradizione più recente è avvertito solo in parte da Ungaretti, che, inoltre, lo imputa esclusivamente alla generazione che immediatamente lo ha preceduto: «storicamente anche grandi poeti come il D’Annunzio, il Carducci e il Pascoli» – scrive – «non sono che dei ritardatari rispetto al loro momento, dei ritardatari non solo rispetto a un Leopardi, ma perfino rispetto a un Baudelaire, ma perfino rispetto a uno Chénier: in ritardo di più di un secolo sulla tragedia umana negli sforzi di un rinnovamento delle umane forme».7 Ovviamente sul giudizio circa le tre corone di fine secolo anche Montale sarebbe d’accordo. Ma Ungaretti non condividerebbe mai l’idea di un vuoto nella tradizione italiana moderna. Per lui la lezione di Leopardi è tutt’altro che insufficiente, anzi è più attuale di quella di Carducci, Pascoli e d’Annunzio che, rispetto a essa, risulta, come abbiamo visto, ritardataria. La scuola della poesia pura e alogica (per usare di nuovo le parole montaliane) Ungaretti la colloca saldamente all’interno di una tradizione iniziata da Petrarca, sviluppata da Leopardi e continuata fuori d’Italia da Mallarmé, «il maggiore dei petrarchisti».8 Non avverte dunque il rischio della precarietà denunciato da Montale, quella fragilità della tradizione che induceva ogni volta i lirici italiani del Novecento, secondo il poeta della Bufera, a dovere ricominciare da zero, «punto e daccapo».

Per verificare le ragioni di questa differenza sostanziale e per sciogliere questo nodo, in cui si stringono i principali dilemmi della poesia novecentesca, quali si ripropongono anche nelle opposte soluzioni di Zanzotto e di Luzi (ma potrei ovviamente, se ce ne fosse il tempo, fare anche altri nomi e introdurre numerosi altri esempi), sarà bene compiere un passo indietro.

4.

Per Ungaretti Petrarca è il «nostro migliore e maggiore contemporaneo».9
È l’inventore della poesia moderna perché è l’inventore del tempo, del «sentimento del tempo». L’interpretazione della poesia petrarchesca che Ungaretti ci offre è splendidamente modernista. Nella poesia del Canzoniere la meta sta dietro le spalle. Ogni luce è trascorsa e può solo essere ricordata. Un verso del Canzoniere – è del sonetto 18 – ritorna con cadenza ossessiva nelle citazioni ungarettiane: «et m’è rimasa nel pensier la luce». Il poeta è in esilio dal passato, in una separazione senza pace. La sua condizione è quella dell’assenza. La malinconia è l’unica corda che possa esprimerla. Malinconia, esilio, assenza, mito degli inizi: si squaderna qui tutta la gamma tematica del modernismo simbolista e primonovecentesco. La durata non è più solo bergsonianamente una condizione dell’interiorità o della coscienza, è soprattutto percezione di un distacco storico da colmare attraverso un tragitto a ritroso fra le rovine e i detriti del passato. Il linguaggio della poesia porta con sé, insieme, l’invecchiamento del mondo e l’eco dell’origine perduta. Petrarca insegna la nostalgia dell’Antico; e come raggiungere l’innocenza attraverso la memoria. Perseguire l’assoluto diventa con lui un percorso storico. Il «momento petrarchesco» – malinconia, sentimento del tempo, memoria – diventa strumento necessario per attingere al «momento omerico» dell’origine.10

Nella distanza che unisce e divide Petrarca da Leopardi l’assenza incontra l’orrore del vuoto. Per Petrarca Laura è una forma vivente inaccessibile o scomparsa. Per i barocchi ogni forma vivente si è annullata, è diventata polvere di morta cultura, delirio di metafore e di idee astratte, horror vacui. Dal sentimento del tempo al sentimento del nulla. È questo il passaggio da Petrarca a Gòngora. Ma è lungo questa linea che Ungaretti inserisce Leopardi, il poeta che scopre nel corso della civiltà la storia di una decadenza. Anche per Leopardi il recupero dell’Antico è il ritrovamento di una «giovanezza», e l’eleganza della parola vetusta e desueta un mezzo per raggiungere la familiarità con il primitivo. Però questa tensione fra eleganza e familiarità, fra Antico e «giovanezza», e anche fra termine e parola, fra finito e infinito, assume ora una sfumatura ironica e paradossale. Leopardi conosce l’invecchiamento del mondo e il declino della civiltà e il carattere perciò paradossale della propria ricerca. La sua linea petrarchesca è passata attraverso i barocchi. Ha scoperto infatti l’ironia dell’infinito, la vanità del tutto, la realtà del nulla. Ecco come Ungaretti commenta la conclusione dell’Infinito:

«Ed ecco l’ironia, il mare, il mare nel quale naufragare gli è dolce, è la morte, l’eterno della morte, è eterno non dissimile dall’illusione d’infinito dove sparisce la voce di vento stormita tra le piante: è il nulla: le néant, le néant pascaliano visto con altri occhi!»11

Come il Petrarca di Ungaretti era anticlassico perché in nuce già mallarmeano, così il Leopardi di Ungaretti avrebbe scoperto da ultimo addirittura la tecnica anticlassica del frammento, un procedimento fondato sull’interruzione in bilico fra due nulla, sulla rottura, sullo choc, o forse meglio sullo Schreck, dell’angoscia:

«Leopardi […] rifece, in modo oracolare, terribile com’è buia la verità, frammenti di sue poesie dell’adolescenza, dando loro, intensissimo, l’effetto di frattura abissale all’origine; di frattura abissale da ultimo.
Per frammento va definito dunque quel brano di discorso che per essere nei suoi effetti poesia compiuta incomincia da un interrompimento e termina per interruzione. La poesia indicava in quel momento d’essere solo angoscia frenata, inciso allarme fra due catastrofi.»12

Insomma, «espressioni mutili» e «linguaggio macellato»,13 senso delle rovine e visione anticlassica, difesa del barocco ed elogio del frammento: non è mancato chi ha visto qui una qualche concordanza con la ricerca di Benjamin.14

La polemica antifuturista e antisurrealista, che colpisce l’immediatezza delle avanguardie, è in Ungaretti una polemica modernista, non tradizionalista. Ungaretti non è un fautore della tradizione, ma il poeta del modernismo italiano. Cerca il nuovo leggendo la tradizione in modo radicalmente antitradizionale. La sua interpretazione di Petrarca come poeta dell’assenza e di Leopardi come poeta della decadenza e dell’invecchiamento del mondo, la valorizzazione dell’ironia, del frammento e del barocco, la dialettica fra memoria e innocenza, fra tradizione e poesia pura fanno della sua esperienza poetica l’esempio più avanzato che ci sia stato in Italia del modernismo europeo. Il modernismo non è l’avanguardia; piuttosto cerca sempre di dare una risposta alle questioni che l’avanguardia pone, magari facendo ricorso alla tradizione. Per questo Ungaretti è potuto sembrare un futurista e un petrarchista, un espressionista e un simbolista ermetizzante, un barocco e un poeta puro.

Si legga Lucca:

«In queste mura non ci si sta che di passaggio.
Qui la meta è partire. […]
Ora lo sento scorrere caldo nelle mie vene, il sangue dei miei
morti».

Il cortocircuito morte-vita, caldo-freddo, passato-presente, il rovesciamento paradossale della partenza nella meta sono per qualche verso barocchi; ma modernista è l’idea dell’esilio, del transito, di un traguardo irraggiungibile, di un’origine che è anche una meta, di mura protettive che per destino indecifrabile dobbiamo abbandonare e a cui non si sa se si potrà più tornare, questo senso drammatico di radici strappate e di continuità-rottura rispetto al passato.

5.

Il modernismo ungarettiano ha due confini: verso l’alto, le avanguardie; verso il basso, Dante. Alle avanguardie Ungaretti oppone un rifiuto duttile, che accetta alcune loro ragioni (la simultaneità, la frantumazione, il gusto barocco) ma fornendo loro però diversa risposta (non l’immediatezza ma la mediazione, non la tabula rasa del passato, ma la memoria). Quanto a Dante, nel quadro della riflessione ungarettiana il poeta della Commedia rientra come contrappunto necessario all’interno di un sistema teorico sostanzialmente petrarchesco. Ungaretti ne inserisce la lezione in un regime rigido di contrapposizioni. Per Dante la purezza è davanti, una meta da raggiungere, l’ultimo gradino di una scala da salire; per Petrarca essa non è di questo mondo e bisogna trovarne traccia andando indietro nel passato. Per Dante il sacro esiste, è qui; per Petrarca è esistito. Per Dante il rapporto è fra l’uomo e l’eterno; per Petrarca fra l’uomo e il tempo. Beatrice è messaggera presente d’amore divino; Laura immagine di malinconia e di assenza. Per Dante le cose e la materia stanno lì con tutta la loro urgenza incombente, e la sua poesia dà loro forma attraverso un potente «impressionismo», mentre Petrarca «non ha più per punto di riferimento se non il tempo, anzi, meno, il passato».15

Lo sguardo di Ungaretti è ancora quello di uno storicista – e sia pure di uno storicista singolare che unisce Vico a Bergson -, e nel gioco dei suoi contrappunti non manca certo l’eco di De Sanctis. Nel suo diagramma storico l’estraneità a Dante medievale è l’altra faccia di una linea moderna, che ha in Petrarca il suo capostipite, in Gòngora, Leopardi e Mallarmé le principali articolazioni, e in cui le cose e la materia, così presenti e vive in Dante, sono ormai echi sbiaditi e perduti, da perseguire attraverso l’eleganza degli artifici e l’ironia della forma.

6.

Nel libro che raccoglie i principali scritti di Montale sulla poesia (e Sulla poesia infatti si intitola)16 il nome di Petrarca ricorre solo otto volte, quello di Dante una trentina, pure escludendo le occorrenze del discorso dantesco del centenario. Una proporzione opposta rispetto a quella del libro corrispondente di Vita di un uomo che raccoglie Saggi e interventi, dove il nome di Petrarca ricorre un numero di volte quasi doppio rispetto a quello di Dante. Dietro il dato numerico, una questione di sostanza. Montale si sente lontano da Petrarca e comunque estraneo alla linea Petrarca-Leopardi. Beninteso la lezione di Petrarca non manca d’influenzare il rigoroso monostilismo de Le occasioni, mentre nell’Opera in versi sono indubbiamente percepibili le tracce di un canzoniere in morte. Parimenti l’insegnamento di Leopardi è presente, tanto per stare agli esempi più noti e vistosi, sia nel mito poetico di Arletta che nella polemica della vecchiaia contro il progressismo. E tuttavia è un dato incontestabile che le menzioni montaliane di Petrarca risultano sempre alquanto scontate e generiche, mentre quelle di Leopardi, pur sempre rispettose, non nascondono addirittura, in qualche caso, una punta di insofferenza e quasi di polemica (dalla prima redazione di Stile e tradizione, più tardi corretta proprio su questo punto, in cui l’importanza di Leopardi è limitata a «quattro o cinque momenti più alti e leggiadri», dopo i quali ci sarebbe «già scadimento e autoretorica»17 sino alla dichiarazione perentoria del 1961: «Non sono mai stato un lettore accanito di Leopardi»18 ). Certo, si può ritenere che questo atteggiamento sia tutto interno al conflitto di poetiche che opponeva Montale alla scuola rondesca e poi alla poesia pura dell’ermetismo, l’una e l’altra volte al recupero di Petrarca e di Leopardi. Ma resta comunque il fatto che sorprendentemente Leopardi sembra interessare a Montale meno del Foscolo dei Sepolcri (quello delle Grazie, caro a Ungaretti, era altra cosa e infatti viene escluso). Se poi ci volgiamo a un altro punto di riferimento di Ungaretti, il Barocco, per Montale, che ne parla abbastanza a lungo in uno scritto del 1945, esso «non avrà mai una riabilitazione totale», e aggiunge: «Noi non crediamo che il qualificativo di “barocco” potrà andar disgiunto neppure in avvenire, allorché un’opera d’arte ci si imponga specificamente come barocca, da una sfumatura almeno limitativa» come sinonimo di «manierismo viziato».19

La tendenza a conciliare tempo epifanico e cemento strutturale-razionale induce Montale, negli anni delle Occasioni e della Bufera, a optare per la linea metafisica aperta da Baudelaire e Browning e poi sviluppata da Hopkins, Eliot e Valéry. Una linea, potremmo dire con espressione d’altronde montaliana, di classicismo paradossale, dove l’aggettivo non ha minore rilevanza del sostantivo e rinvia non certo al barocco ma alla tensione sperimentale e dantesca con cui Montale vive il proprio assai particolare classicismo. Basta citare:

«Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco
tocco la Martinella ed impaura
le sagome d’avorio in una luce
spettrale di nevaio. Ma resiste
e vince il premio della solitaria
veglia chi può con te allo specchio ustorio
che acceca le pedine opporre i tuoi
occhi d’acciaio.»

Siamo nel cuore delle Occasioni. Eppure qui il classicismo petrarchesco è una traccia davvero sottile. Nessuna malinconia, nessuna ottica della distanza, nessuna morbidezza, ma una perentorietà dantesca. Il topos stilnovistico degli occhi, che tanta storia ha nel petrarchismo europeo, viene potentemente rinnovato con un riferimento bruciante all’attualità storica (gli «occhi d’acciaio» di Clizia contro il “patto d’acciaio” di Hitler e Mussolini), e la visione della città assediata, della Martinella, delle sagome d’avorio e dello specchio ustorio non ha la luce calma e fredda del decoro umanistico, ma il colore spettrale di un livido medioevo. L’inarcamento sintattico va al di là di ogni pulitezza espressiva: rivela uno stravolgimento e una energia turbata e forte che lo controlla. Endecasillabi come «Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco» oppure come «veglia chi può con te allo specchio ustorio» sono così instabili e insieme così tempestati di accenti forti da essere ben lontani dall’equilibrato rigore della scuola petrarchesca.

7.

A Dante Montale dedica attenzione costante e un famoso discorso, quello in occasione del centenario del 1965. Dietro la evidente modestia, il titolo con cui esso appare in Sulla poesia, Dante ieri e oggi, nasconde una particolare densità di significati. Ieri è la modernità, e siccome «Dante non è un poeta moderno», «gli strumenti della cultura moderna non sono i più adatti a comprenderlo». Oggi la modernità si è conclusa, siamo agli inizi di un nuovo medioevo, e per questo possiamo sentire Dante «stranamente vicino a noi».20 Per due volte Montale ribadisce questa «grande verità»: «Dante non è un poeta moderno», sottolineando il non con il corsivo. A Ungaretti modernista e storicista Petrarca interessa perché moderno, a Montale antimodernista e antistoricista Dante interessa perché non moderno. Il Dante di Montale non è il contraltare di Petrarca, come per Ungaretti e poi anche per Luzi; e non è neppure l’iniziatore di una linea. Esprime l’alterità radicale di un medioevo assai diverso da quello in cui stiamo entrando; e per questo, avvisa Montale, non ripetibile.21 E tuttavia è espressione di un mondo che presenta “strane” vicinanze con quello che si sta aprendo dopo la conclusione della modernità. Difficile dire se Montale avesse già qualche sentore della discussione sui confini e sul tramonto della modernità e magari del cosiddetto postmoderno; e la cosa, comunque, ha ben scarsa rilevanza ai fini di questo discorso. Certo è che con Dante è ora possibile un rapporto frontale, al di fuori di qualsiasi linea di continuità storica. Con un gesto solo, Montale si colloca fuori non solo del modernismo, ma della modernità, facendo crollare il castello di carta dei percorsi storici, di una progressione da ricostruire e da ereditare, della tradizione da riprendere e sviluppare, della miscela dialettica di ingenuità e memoria. La modernità si è conclusa, e dunque, potremmo ripetere con lui, «punto e daccapo». Da questo punto di vista appare più drastico e coraggioso dei suoi eredi Zanzotto, Luzi o Sereni, con cui pure aveva condiviso la grande crisi del genere lirico degli anni Cinquanta e Sessanta. Se il rifiuto etico di Petrarca in nome di Dante di cui si fa portavoce Luzi è ancora tutto interno a una tradizione addirittura secolare del moderno, anche l’interpretazione nichilista e barocca di Petrarca offerta da Zanzotto, sulla scorta, come si è visto, di Ungaretti, ne rappresenta un momento estremo di continuità e di crisi. Quel nichilismo è esso stesso effetto o conseguenza di un mutamento storico che, pur continuando ad accettarle, ha posto in discussione le basi stesse del petrarchismo riducendolo, direbbe Montale, a un “delirio d’immobilità”. D’altronde che ne è oggi del classicismo su cui si è discusso per cinque secoli e più? E dell’ascetismo letterario, della “solitudine dell’artista” (per citare il titolo di un articolo montaliano), della «cameretta» all’ombra del «palazzo»? Che cosa resta di quel sogno di decoro e di bellezza contro cui Luzi continua a ripetere il proprio no?

Un cambiamento profondo è avvenuto. Il vecchio Montale l’aveva intravisto quarant’anni fa con il consueto intuito e con la reattività al nuovo che contraddistingue tutta la sua vicenda intellettuale. Perciò è stato così radicale. L’importanza della distinzione, teorizzata vent’anni prima, fra le «due scuole» del «gusto moderno» doveva apparirgli superata, quasi residuo di una stagione, quella fra le due guerre, che la nuova situazione storica aperta dal “miracolo economico” e dalla seconda rivoluzione industriale italiana rendeva ormai anacronistica. Nel discorso di Stoccolma, riprendendo una serie di spunti contro la massificazione presenti da sempre nella sua riflessione, Montale li inquadra nella prospettiva di una nuova fase della storia umana in cui «una sorta di generale millenarismo si accompagna a un sempre più diffuso comfort», «il benessere ha i lividi connotati della disperazione» e «l’uomo civilizzato è giunto ad avere orrore di se stesso»; in cui «le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione» e domina perciò, nella società e nella cultura, un «esibizionismo isterico»; e in cui infine, di conseguenza, «le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità», entrando in una crisi strettamente legata al mutarsi della condizione umana stessa. 22

Difficile dire oggi se questa crisi corrisponde a un lungo declino o a un nuovo inizio. Certo è che l’ultimo Montale batte la nuova strada con alterni risultati sul piano estetico ma con il coraggio della coerenza più rigorosa. Non per nulla l’Esposizione sopra Dante è contemporanea alla sperimentazione di Satura che apre i conti con un Dante poco praticato nella tradizione lirica moderna, quello comico. Lui che pure, nelle Occasioni e nella Bufera, aveva ripreso la linea alta della lirica europea facendosi portatore, come è stato scritto, di un «dantismo assimilato senza residui, proprio perché assunto come struttura significante di un dramma moderno», 23 poteva ora, nella seconda metà degli anni Sessanta, farsi cantore del mondo basso e mescidato – permanentemente ossimorico e nondimeno senza tragedia avendo espulso da sé la possibilità stessa dell’antinomia – che lui chiamava “nuovo medioevo” e che i più giovani dei suoi contemporanei denomineranno piuttosto “postmoderno”.
 ROMANO LUPERINI






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