Tiziano senza «vanità» A Venezia, Galleria dell’Accademia
L’ULTIMO TIZIANO
Fino al 20 aprile
Un ottuagenario alle prese con lo sfuggire della vita riflette come altri grandi sulla morte e trasporta questo sentire in pittura L’artista sente che non è più il tempo dei tessuti sfarzosi di colore e che sarebbe inane cercare di fermare il tempo che passa
Da molto tempo è aperta la discussione su alcune delle ultime opere di Tiziano, talmente multicolori da sembrare monocrome,allo stesso tempo di un’espressività travolgentemente filosofica: sono da considerare come la realizzazione di una visione, o semplicemente come opere non finite? E ancora: in quale misura le sue opere tarde possano essere considerate autografe?
Le Gallerie dell’Accademia di Venezia posseggono l’ultimo dipinto di Tiziano La Pietà, un grande ex voto contro l’epidemia che infuriava nell’anno della sua morte, che rappresenta forse il momento più alto di tale tecnica.
Attraverso un quadro generale della situazione culturale veneziana nel terzo quarto del xvi secolo arricchito da studi sulla committenza e sul collezionismo tizianeschi e dalle personalità degli artisti contemporanei (soprattutto Schiavone, Tintoretto e Jacopo Bassano), il catalogo trova finalmente una risposta alle questioni ancora aperte e giunge a una focalizzazione sempre piú stretta sulla figura del maestro.(a cura di M.Allo)
Eccovi da Venezia un interessante articolo
N on c’è stato nemmeno il tempo per tirare il fiato che, appena rinserrati i battenti bellunesi di Palazzo Crepadona, dove fino al 6 gennaio si è tenuta la discussa e discutibile mostra dedicata a Tiziano e drammaticamente intitolata da Lionello Puppi 'L’ultimo atto', due settimane fa si è aperta a Venezia, alle Gallerie dell’Accademia, un’altra rassegna dedicata all’'Ultimo Tiziano'... ancora?... questa volta intitolata, sempre con verve teatrale, 'la sensualità della pittura'… - un omaggio alla joie de vivre dell’appena celebrato carnevale? - , a cura di Sylvia Ferino-Pagden e Giovanna Nepi Scirè. La mostra fa tappa a Venezia dopo essersi chiusa in prima battuta a Vienna sempre il 6 gennaio: strana coincidenza, questa data di chiusura, che sia l’Epifania la festività ideale per porre il sigillo alle mostre di Tiziano che creano 'ponti culturali' fra grandi città europee? Del resto, Tiziano si rappresenta nella Pietà
- suo ultimo quadro, o quadro ultimo come in effetti è anche nella sua essenza di una lebbra grigiastra che squama i corpi e le cose raffigurate , nella posa di un vecchio re Mago che, ormai spogliato della propria vanità, abbia deciso di far visita, trentatré anni dopo, a quell’uomo che adorò da neonato portandogli in dono oro-incenso-mirra, e che ora se ne sta disteso e morto sulle ginocchia di sua madre, per onorare la promessa fatta. E lui, Tiziano, s’inginocchia come se chiedesse perdono, come se, quel drappo rosso che ora è la sua unica veste di uomo un tempo ammirato e adulato e ben pagato per i suoi servizi, ecco quel drappo fosse il suo più onesto mea
culpa.
Dunque la profezia si corona, nella nostra eccentrica e un po’ maldestra simbologia, nel giorno dell’Epifania, e la chiusura delle due mostre a Vienna- Belluno prende un’intonazione da de profundis, non per Lui, il Cristo, semmai di lui, Tiziano, che si trova, nell’una e nell’altra come negato, anzi tradito. Il fatto è che in Italia - soprattutto in Italia, soprattutto oggi - si fatica sempre a capire le ragioni di qualsiasi cosa. O meglio, si capiscono benissimo, basta guardarsi intorno e cogliere l’andazzo dei tempi, che non riguarda più le 'caste', ma il modo di essere dell’intero corpo sociale. La peste, che fece le scarpe a Tiziano, è oggi una lebbra che colpisce tutti e riduce questo Paese a un lazzaretto dove ciascuno pensa a salvare se stesso. E in effetti, se la si guarda bene, quella Pietà
sembra dipinta coi colori di quel morbo che rende tumefatti i corpi di tutti quelli che colpisce.
Uno sente dire che a Belluno stanno preparando una 'grande mostra' sull’ultimo Tiziano e gli sfugge un’esclamazione forte: accidenti! che sia la volta buona che capiamo che cosa accadde al buon vecchio Tiziano dopo una vita spesa per la vanità, ma con genio e oculatezza, avidità smo- data, sentimento un po’ vigliacchetto del sopruso che sempre si fa spazio quando hai a che fare con uno che è cosciente del proprio talento, e che talento signori miei!, insomma, uno che fa tornare in mente quella frase apocrifa (ma vera) di Braque che a proposito del suo amico- nemico Picasso diceva rivolgendosi agli amici artisti: «Non mostrategli quello che fate perché lui vi copia e lo fa meglio di voi». Il Picasso cadorino quanti ne ha messi nel sacco, e forse non aveva nemmeno bisogno di copiare, gli bastava intingere il pennello che il capolavoro gli usciva di mano senza troppo pensare. Che cosa accade, appunto, al vecchio Tiziano? Quel che accade a tutti gli uomini che invecchiano: le forze calano, il corpo cade, senti che dietro ti segue come un’ombra paziente e premurosa la nera signora, e non è la Mater dolorosa che ti prende fra le braccia e ti stringe a sé piangendo: 'figlio mio, perché patisti tanto?'.
Tiziano ottuagenario sentiva che il destino aveva talmente eroso il tempo che diventava sempre più difficile afferrarne la consistenza, diventava, ecco, un gioco inane cercare di imbrigliarne le trame dentro un tessuto sfarzoso di colore e di sensualità pittorica, e patetico cercare di fermare il tempo nello specchio della pittura. Se il tempo si sfilaccia al punto che senti, avverti il suo fisico dispendio e la fine vicina, che cosa ti resta da fare? Ispessire. Rendere materico, sordo e opaco, carnale, nel senso ebete di una carne che non risponde più alla bellezza di un tempo, eppure si rende sacra nella sua decrepitezza, terragno insomma, ciò che un tempo era flusso ammaliante e del tutto vanesio del colore che faceva brillare gli eidola del bel mondo sempre pronto a lisciare la tua fame di onori e di denaro, magari nell’intrigo intellettuale, nella sfida cólta alle tue capacità di tessere sotto la trama quasi diafana delle velature, quella luce che sembrava esente da ogni vincolo materiale.
E qui si ritorna al capolinea. Perché in Italia si fa tutto un tanto al chilo? Qualcuno dice: perché ci sono gli assessori! Si potrebbe aggiungere: gli storici, i soprintendenti, i direttori di museo, i sindaci, i governatori… Ognuno col suo carico di vanità. Dov’è finito il cosiddetto 'genio italico' capace di pensare e scompaginare le carte in tavola? Ci spieghino gli storici, i funzionari, gli scienziati dell’arte perché a distanza di pochi mesi chi - poniamo - era molto interessato a capire qualcosa di più della pittura di Tiziano, e nella fattispecie dell’'ultimo Tiziano', perché deve vedersi rifilate due mostre dedicate agli ultimi vent’anni del cadorino, e nessuna delle due che regga a sufficienza e paradossalmente per ragioni opposte, che ti prenda in contropiede nei fatti, cioè nelle opere mostrate e nel modo di esporle e nei rapporti stabiliti, nelle interpretazioni riviste e contraddette, insomma che nasca da un pensiero critico? Bisogna aver letto tutte le sere prima di addormentarsi almeno una paginetta dell’ultimo Freud, per interpretare le atmosfere sacrificali e punitive dell’ultimo Tiziano - quello, sia ben chiaro, dei quadri di Marsia, san Sebastiano, san Gerolamo, dell’Ecce Homo, della Pietà -- come 'sensualità della pittura', tanto invece è palese la volontà del pittore di cospargersi il capo di cenere, di punire la propria anima mondana, rendendola capace di custodire sotto l’epidermide grigiastra quei carboni ancora accesi che lo spinsero a una stratificazione di colore che parla chiaramente il linguaggio della ricerca lacerata della forma 'finale' e forse per questo 'non finita'; e bisogna vivere in un mondo a parte per fondare un’interpretazione da 'ultimo atto' su una sequenza di opere che in gran parte erano, a Belluno, di incertissima attribuzione. Perché, dunque, assistere al penoso spettacolo di due mostre una a ridosso dell’altra, a ridosso di tempo e di territorio persino, e dover constatare che la prima, quella bellunese, era una sorta di escursione avventurosa nella congerie di materiali pittorici emersi da nuove incerte attribuzioni; e l’altra, quella appena dischiusa sul Canal Grande, affetta da un male oggi comune alle mostre che si offrono al pubblico italiano, quello della vetrina di moda, dove tutto è al posto giusto, con la luce giusta, ma senza assumersi il rischio di una ipotesi eretica, di uno scarto che ci apra gli occhi e ci mostri ciò che avevano avuto sempre davanti ma non avevamo mai sospettato potesse essere così. Ci prova, fra timidi accenni e un po’ di sussiegoso dettato critico, Bernard Aikema quando affrontando la questione della 'pittura di macchia' di Tiziano, in catalogo (Marsilio) ne difende la cosciente premeditazione prendendo partito di fronte al vecchio stereotipo del 'non finito' che accomunerebbe le vecchiaie di Tiziano, di Michelangelo, di Rembrandt, Picasso e Bassano, e altri se ne potrebbero aggiungere. Il dubbio retorico: drammatica percezione della fine che si risolve nel non-finito, oppure 'limiti fisici imposti dall’età avanzata' che costringe all’incompiutezza? Viene sciolto considerando che quella macchia fece scuola: era una sprezzatura
ante litteram, che condizionò già all’epoca Tintoretto, Bassano, Rubens, Rembrandt fino a diventare una sorta di cifra stilistica di moda (cioè moderna). Ci può stare: sprezzatura, nonchalance, nuovi modi espressivi, che in Tiziano ebbero, forse, il catalizzatore di dibattiti poetici, letterari e artistici, come scrive Aikema.
Tutto finirà, dice Tiziano; anch’io finirò, molto presto, e a dare conferma di questo sentore ci penserà appunto la peste, il cui morbo intride le fibre del quadro che ricapitola l’esistenza del pittore nell’immagine di un mondo che muore anche in colui che avrebbe dovuto redimerlo: le radiografie fatte alla Pietà rivelano vari strati di colore, addirittura dieci in qualche punto della grande tela, come se su quella superficie anche il colore dovesse assumere, rantolo o conato, le fattezze di un mondo che fermenta e scompare dentro il grigiore delle ripetute e plurime tumefazioni.
Questa mostra, dotata di un catalogo pensato secondo la moda dell’eccessivo dispendio di parole che si limita a fare confronti e notazioni da accademia pittorica, perde sia l’azzardo, sia il pathos che dovrebbero muovere ogni nuova impresa espositiva che voglia essere occasione per riflettere non fra storici, ma fra gente interessata a capire l’enigma della propria umanità e del proprio stare al mondo. In definitiva: cui prodest?
Da Avvenire