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Umanistiche: LA FATICA DI CREDERE IN DINO BUZZATI

Rassegna stampa

Montagna e deserto sono le facce dell'unica metafora della solitudine e i due luoghi figurativi in cui si colloca l'immaginazione "metafisica" di Dino Buzzati.  Da un punto di vista esistenziale montagna e deserto diventano figurazione privilegiata del disagio, dell'angoscia, del tempo distruttore, della morte, luoghi naturalmente simbolici e soggetti all'ambiguità del simbolo , infatti vi è connesso anche il coesistere di una tensione salvifica , di rifugio regressivo  e di una tensione distruttiva . In sostanza la scrittura di Buzzati non conosce realismo e la narratività del materiale fantasmatico, di per sè frammentario e ripetitivo, è assicurata dal particolare moralismo dello scrittore, che esistenzializza la produzione psichica, ricavando dai fantasmi parabole di vita e di  morte, di coraggio e di destino, di colpa e di dovere.
"Racconto di Natale", apparso nella raccolta "La boutique del mistero" (pubblicata da Dino Buzzati nel 1968 come selezione dei racconti più rappresentativi della propria opera), risente, come tutta la sua produzione, dell'influenza surrealista. L'autore restituisce il senso misterioso ed enigmatico dell'esistenza, sottolineandone la dimensione dell'assurdo e dell'attesa.
Così l'"ateo - credente" Buzzati coglie, in un racconto breve ed ingenuo in apparenza, il significato autentico del Natale, che risiede nella condivisione dell'amore divino, attraverso una rappresentazione paradossale dell'egoismo umano.
"Dio pareva farsi sempre più raro, e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo (ma nell'atto stesso che lui rispondeva di no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente)": è quel che succede a Don Valentino, un prete che, avendo scacciato un mendicante dalla cattedrale ricolma di Dio durante la notte di Natale, non riesce più a sentire la presenza divina e, convinto di aver fatto scappare Dio, è in affanno perché l'arcivescovo ne ha bisogno per la Messa. "Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c'era neppure lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso e potente, era diventato all'improvviso inospitale e sinistro. E tra un paio d'ore l'arcivescovo sarebbe disceso". Don Valentino parte allora alla ricerca di Dio, ma non lo trova da nessuna parte; quando, attraversate feste e banchetti profani, giunge presso una famiglia riunita a tavola ne trova un pochino e domanda di poterlo portare nella cattedrale, ma gli viene rifiutato: "Caro il mio don Valentino" fece il capofamiglia. "Lei dimentica, direi, che oggi è Natale. Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio? Mi meraviglio, don Valentino." Così, Dio scompare anche da quella casa. Esausto, dopo aver a lungo camminato nel freddo, Don Valentino torna a sentire finalmente la presenza divina e capisce che il problema era dentro di lui, non nella cattedrale, al cui interno l'arcivescovo, splendente di Dio, lo sta aspettando. M.Allo

link di Buzzati
In questo interessante articolo di Tullia Fabiani "La fatica di credere" Dino Buzzati si definisce un non-credente eppure non c’è una pagina dei suoi scritti che non trasudi trascendenza.



La scrittura, la pittura, il giornalismo: semplici bussole. I fatti del mondo, con i loro personaggi: punti cardinali. Lo sguardo lucido e discreto, acceso dalle dinamiche della realtà e fisso nel desiderio di travalicarle. Per guardare in profondità, dall’orizzonte al vertice della vita e oltre. Fino a trovare un nuovo volto. Quello sempre cercato. Quello pregato anche se non è. Paradossale dire “Dio che non esisti ti prego”. Un’antinomia discutibile per chi non professa o non accetta altro che coerenti certezze. Ma non per Dino Buzzati che della sua esperienza di uomo, delle sue passioni, del suo mestiere fece tesoro di ricerca. Occasioni per scrutare sé e ascoltare l’altro. E soprattutto per interrogarsi sull’Altrove.

Lo si legge nelle pagine dei suoi racconti, dove immagini e protagonisti si fanno portatori di messaggi trascendenti. Ma anche nelle cronache giornalistiche o sulle tele, a lui molto care, dove si esprimeva appieno con colori e pennelli. Proprio attraverso queste tracce Lucia Bellaspiga, giornalista di “Avvenire”, ha ricostruito in un libro ricco di testimonianze (la moglie Almerina, il compagno di scalate, i colleghi, anche quelli, nel frattempo, scomparsi come Indro Montanelli e Gaetano Afeltra), documenti, aneddoti, l’intenso percorso di Buzzati e la sua “fatica di credere”.

Il testo ripercorre i racconti del mistero, le discese agli inferi, le fini del mondo, il fantastico e il surreale, rintracciando quei ‘segnali’ che lo scrittore percepiva come notizie inviate da un ‘altrove’. Così partendo dai vari lavori e indagando anche il ricordo che custodisce chi l’ha conosciuto, il lettore partecipa a una “caccia al tesoro nel mistero di Buzzati”. E se l’autrice precisa di aver preso in considerazione i racconti di Buzzati come “la forma che più gli è congeniale per comunicare intuizioni rapide e folgoranti” ciò non toglie che “tutta la sua produzione - romanzi, racconti, teatro, quadri, cronaca giornalistica - rimanda sempre a significati ‘altri’. Il lettore impara ad attendersi il colpo di scena, il mistero, l’evento, il prodigio che all’improvviso scardinano le nostre certezze e sovvertono le conoscenze: tutto è possibile in un suo racconto perché tutto dipende dalla grande mente che alberga fuori dal nostro mondo. Ecco perché d’ora in poi non diremo che Buzzati è un ateo, cioè un senza-Dio, bensì un non credente”.

L’autore del Deserto dei Tartari, il cronista del “Corriere” dichiara di non credere, ma cerca, chiama, aspetta. E guarda alle creature semplici, a quelle scartate dalla società. O non comprese, come il Colombre, il “mostruoso pesce dal muso di bufalo”, temuto come un predatore e inascoltato come un profeta. Il rischio è di perdere la chiamata, ignorare i messaggeri che ‘sanno’ ma non riescono a comunicare il loro segreto, perché ci si accorge di loro troppo tardi.

Buzzati sente di aver corso tante volte questo rischio, pensa di non aver sentito o di averlo fatto ‘troppo tardi’. Ma prega Colui che non esiste. E lo chiama, perché – scrive nella poesia l’Addio del 1957 – “se io lo chiamo verrà”.

Durante la sua malattia, pochi giorni prima di morire, nel 1972, disse a un amico “sofferta disillusione e appassionata speranza. Nonostante il residuo cattolico che rimane in me per l’educazione religiosa ricevuta, oggi non credo. Soprattutto non credo nell’aldilà. E siccome per me tutto il problema di Dio deriva dal credere o non credere nell’aldilà il resto ha minore importanza”. Ma aggiunse: “Però non posso non avere dubbi”. E ogni lettore oggi dalle sue opere e da questo libro può dire come siano stati fecondi.

m.allo








Postato il Venerdì, 01 febbraio 2008 ore 00:34:51 CET di Maria Allo
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