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Umanistiche: ''GOMORRA'' DI ROBERTO SAVIANO PRESENTATO DA ROMANO LUPERINI

Rassegna stampa
Recensione di Romano Luperini su "Gomorra" di Roberto Saviano.

Per Roberto Saviano

        Nessun altro libro recente ha la forza di rottura, la capacità di indicare la nascita di una nuova fase, come Gomorra di Roberto Saviano. La materia non è molto diversa da quella di un romanzo di qualche anno fa, Sandokan, opera di un maestro della neoavanguardia, Nanni Balestrini. Il tema è sempre lo stesso, la camorra. Ma Balestrini lavora delle lasse senza punteggiatura; il fine, evidente, è quello dell’invenzione e dell’arte. Saviano ha un altro scopo, la verità. E il genere è diverso: il documentario. Se il postmoderno è stato il trionfo della metaletteratura, della riflessione sul linguaggio, del citazionismo, della intertestualità infinita (dietro un testo ci deve essere sempre un altro testo, mai la realtà, che sembra andata perduta per sempre), con Saviano si torna alla verità delle cose e dei fatti, al primato delle relazioni sociali, alla durezza del rapporto diretto e spietato io-mondo.

        Si sta aprendo una fase nuova che potremmo chiamare neomoderna o tardomoderna, una fase in cui la tangibilità della realtà non è più eludibile. D’altronde, quando può caderti sulla testa una bomba o può saltare in aria la metropolitana su cui viaggi, è sempre più difficile pensare che la realtà sia solo linguaggio e che non esistono fatti ma solo interpretazioni. Si spiega così perché la ripresa e il rilancio del documentario siano in atto non solo nella letteratura ma anche nel cinema.  Gomorra è un libro atteso, un libro necessario.

        Quando si dice che il genere è il documentario – qui ci sono fatti e cifre, nomi di paesi e di persone, statistiche e dati, paesaggi concreti e storie di individui in carne e ossa –, non si intende affatto negare la letterarietà dell’opera. Alcune scene di forte realismo e di agghiacciante espressività non si possono dimenticare: per esempio, quelle dei tossicopendenti-cavie uccisi per testare l’eroina, del morto con l’erezione e della vergogna dei morti ammazzati, dell’arresto di Cosimo Di Lauro, del padre che ha sposato una rumena e che viene incontrato per caso ai funerali di Giovanni Paolo II, insieme al fratellino ancora sconosciuto. Il realismo qui non è che l’altra faccia di uno stile epico, di una rappresentazione ampia e tragica in cui alla vastità del male si oppone un eroe alla ricerca della verità, un nuovo cavaliere senza cavallo e senza sbandieramento di valori che si aggira in Vespa sui luoghi del crimine, fra enormi discariche di rifiuti, sangue di morti ammazzati, fiumi di cemento, villaggi abusivi, quartieri e periferie degradati in cui si accumulano masse enormi di denaro, armi, merci. Per questo piccolo, emarginato e rabbioso eroe dire la verità significa esserci, fare uso di una «parola-sentinella» e di un’unica «armatura»: «pronunciarsi». Bisogna accumulare prove inconfutabili e parziali, perché vissute con il corpo, esperimentate dal vivo, filtrate e temprate dalle emozioni. Tra oggettività e soggettività s’istaura così un cortocircuito che rivela una eredità assunta consapevolmente: quella dell’intellettuale scomodo e marginale, che vive al confine, sulla frontiera, e pratica una sorta di contrabbando fra società e comunità diverse (quella dei camorristi e quella del laureato in filosofia che fa il ricercatore, quella delle periferie degradate e l’altra dei centri della civiltà, quella del denaro e della arroganza e quella della cultura e della dignità morale). Questa figura storica – da Baudelaire a Pasolini – ha assunto però da qualche tempo una nuova dimensione: non aspira più a occupare il centro della scena, non accampa utopie, accetta come scontata e senza prospettive la propria marginalità.

        Al centro del libro, la visita alla tomba di Pasolini a Casarsa è assunzione di una eredità, ripresa e continuità di una linea di opposizione tipica del moderno. E tuttavia è una ripresa senza cristologie, senza incanti e senza consolazioni nella bellezza o nel mito di una società popolare scomparsa. È una continuità che non consente più le illusioni politiche e soprattutto letterarie degli anni sessanta e settanta. Nei fatti, forse più che l’esempio di Pasolini, conta per Saviano quello di don Peppino Diana, un prete ucciso dalla camorra perché cercava, anche lui, la verità: la verità concreta delle discariche, del sangue, e del denaro che gonfia, cresce, si sposta e si accumula. Se Pasolini aspirava ancora al ruolo del grande protagonista, don Peppino, come Saviano, ha accettato da sempre la propria condizione di intellettuale delle periferie.

        La verità e la morale, per Saviano, non hanno a che fare con l’ideologia, ma con la pelle del corpo, con la stilettata che attraverso la sguardo, il fiuto, i polpastrelli ti colpisce nelle viscere, con la realtà di una esperienza che, ancor prima di essere intellettuale, è fisica o biologica. Forse anche per questo la nuova epica non è moderna, ma neomoderna: perché solo nella datità dell’esistenza, nella solidità e brutalità degli accadimenti e dell’esperienza corporale che li vive – e non nell’orgoglio intellettuale, non nella ragione e nelle idee – trova la misura della verità e la ragione di una nuova dignità.

        Se nel moderno – da Baudelaire a Pasolini, appunto – lo scrittore attraverso una battaglia di manifesti, di idee e di poetiche mirava a occupare il centro, s’impegnava in vere e proprie guerre di successione, come ha scritto Bourdieu, volte alla conquista di una egemonia culturale, di uno spazio dominante all’interno di un “campo” anch’esso privilegiato e per certi versi decisivo nella formazione ideologica, oggi non è più così. Fortini, Calvino, Volponi, Sciascia, Pasolini, Sanguineti (l’ultimo, a veder bene, di una lunga tradizione di poeti-intellettuali), da posizioni diverse, hanno svolto questo ruolo. Ma oggi questo spazio ideologico non esiste più, e quel privilegio è scomparso. Il nuovo intellettuale, il trentenne che esce da una adolescenza prolungata per piombare nella condizione del precario, ha da essere fungibile e flessibile, deve adattarsi a lavori e mansioni diverse all’interno dell’ICT (Information and comunications tecnology). Se i giovani del Gruppo 63 erano l’avanguardia in vagone-letto, il ricercatore Saviano che si muove in scooter nei territori devastati del napoletano e del casertano è la figura più eloquente di una nuova condizione storica.

Romano Luperini








Postato il Venerdì, 25 gennaio 2008 ore 15:26:27 CET di Silvana La Porta
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