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Voce alla Scuola: SCUOLA, LA COMMEDIA DELL'OBBLIGO SCOLASTICO

Opinioni
l'Unità - 19 gennaio 2008

Scuola, la commedia dell'obbligo

Marina Boscaino

Una forza inerziale sta trasformando un’operazione importante e civilmente significativa (che aveva connotato la campagna elettorale del centro sinistra), l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 16 anni, in una sorta di commedia all’italiana, con tanto di equivoci, ambiguità, colpi di scena, risate amare sui vizi e le virtù del nostro Paese.

Partiamo da una constatazione: nessuno, nemmeno alcuni insegnanti, si è realmente reso conto di cosa significhino due anni di istruzione in più per tutti. Aggiungiamone un’altra; taluni vedono l’operazione con sospetto: lavoro in più, gatte da pelare, programmi rallentati, sforzo per il potenziamento della relazione educativa. Aggiungiamo gli insegnanti dei bienni del liceo, convinti di essere esenti dall’impegno.

È questo il risultato di un’operazione condotta politicamente in modo pedestre. Di cui nessuno si è impegnato a preparare i docenti (e la società) sulle ricadute in termini di civiltà che avrebbe potuto avere. Non è semplicemente la necessità di omologazione ai parametri europei (quasi tutti i Paesi hanno l’obbligo a 16, se non a 18 anni); ma innalzare mediamente gli standard di coscienza critica, di senso di cittadinanza, di autonomia ed emancipazione nei futuri cittadini; potrebbe inoltre significare liberare la scuola media dal ruolo di fase terminale dell’obbligo, che ne ha compresso didattica, funzione, efficacia.

Davanti a tale cambiamento una stupefacente sordina. Nonostante la legge del 27 dicembre 2006 (la Finanziaria precedente) ai commi 622 e 624 prevedesse l’innalzamento dell’obbligo di istruzione fino a 16 anni, solo all’inizio di quest’anno scolastico dal ministero si sono ricordati di divulgare la novità: 3 giorni di fanfare mediatiche, di annunci che non hanno spiegato nulla, se non dato la notizia, peraltro parziale.

Uno dei motivi della resistenza e della reticenza a divulgare in maniera diffusa e capillare la notizia è stato l’enorme dissenso su una parte non irrilevante della legge: si parla di obbligo di istruzione e non scolastico perché quell’obbligo può essere assolto anche nei percorsi sperimentali di istruzione e formazione professionale previsti dalla Moratti; in via transitoria e “per prevenire” il fenomeno della dispersione. E questa “soluzione”, da sola, parla chiaramente di quanto l’emergenza della dispersione sia sottostimata.

Chiunque è in grado di capire la differenza tra l’andare a scuola e andare ad imparare un mestiere. Il dissenso - all’interno della stessa maggioranza - è stato grande, ma non tale da bloccare il progetto. Non c’è stato modo di considerare una possibile riconversione dei lavoratori, soprattutto perché sul mantenimento di quei percorsi hanno precisi interessi partiti stessi e sindacati, anche all’interno della maggioranza.

Il braccio di ferro si è concluso con un nulla di fatto: il decreto sull’innalzamento dell’obbligo prevede che (art.5, «ai fini di quanto previsto dal regolamento (...) possono essere realizzati, per gli anni 2007-8 e 2008-9 percorsi e progetti sperimentali per prevenire e contrastare la dispersione scolastica, nonché per favorire il successo formativo dei giovani (...)». Insomma, come nel caso del recupero, la scuola alzi le mani e si arrenda: non è quello il luogo deputato a provvedere al recupero delle criticità di apprendimento, comportamento, relazione ecc; un vero e proprio paradosso. Se si dà un’occhiata all’art. 2 del decreto stesso, si scopre poi che - tra le strutture formative abilitate eventualmente dalle regioni a farsi carico di queste problematiche - si prevede (punto d) addirittura «personale in possesso di un diploma di laurea inerente l’area di competenze e di un’esperienza triennale o, almeno, di un diploma di scuola secondaria superiore e di un’esperienza quinquennale».

Il problema è - ancora una volta - intenderci sui termini: l’innalzamento dell’obbligo è finalizzato a riorientare o a emarginare definitivamente? Nel primo caso, affidare un ragazzo in difficoltà a figure professionali così caratterizzate non sembra la strada più corretta da imboccare. Anche in termini economici a lungo termine sarebbe più vantaggioso per la società riconquistare alla scuola il 3% degli studenti italiani destinati a quell’alternativa, senza strumentalizzare un dramma come quello della dispersione, scardinando un sistema presumibilmente basato su clientele ed equilibri di potere.

In questo panorama durante tutto lo scorso anno non sono stati attivati corsi di formazione per insegnanti per prendere le misure rispetto alla nuova legge. In questo panorama piove dall’Ufficio Scolastico Regionale del Lazio, in data 22 ottobre, la comunicazione che è stato «istituito un nucleo regionale di supporto per l’introduzione dell’obbligo (...); che si invitano i Dirigenti a predisporre opportune strutture organizzative e a individuare un referente che curi i rapporti della scuola con il Nucleo regionale (...). Si richiama l’esigenza di avvalersi di reti di scuole al fine di ottimizzare l’organizzazione degli interventi sul territorio, per diffondere le esperienze più significative, per affrontare e discutere i temi generali e specifici connessi alle innovazioni prima indicate».

La data, 22 ottobre, e i tempi tecnici di comunicazione, suggeriscono - a chi conosca le procedure scolastiche - che a quell’epoca è stato già definito il piano di lavoro e il relativo stanziamento di danaro per le attività della scuola. E in quel documento non si fa menzione di fondi investiti. La richiesta è in nome della “autonomia”: un contenitore che finora è servito ad alimentare una visione soprattutto mercantile della scuola, snaturando la vocazione reale di quella legge, che prevedeva, soprattutto, l’autonomia di ricerca, sviluppo e sperimentazione, cioè la sottolineatura marcata di una dimensione intellettuale dell’insegnante. Un contenitore che però, oggi, serve a rimandare la patata bollente agli insegnanti: dei quali, improvvisamente, si riscopre capacità di elaborazione, competenze professionali, dimensione intellettuale.

Saranno gli insegnanti a dover lavorare sul biennio unitario: un biennio che individui gli obiettivi di apprendimento e le competenze finali dei primi due anni delle scuole superiori, che saranno obbligatori. Un biennio la cui articolazione delle competenze in uscita dei ragazzi preveda la revisione dei programmi vigenti - quelli ordinari e quelli delle sperimentazioni - l’individuazione dei nuclei fondamentali, la definizione di gruppi interdisciplinari intorno ai quali far ruotare le varie discipline che forniranno ai ragazzi strumenti adeguati a un adeguato esercizio della cittadinanza attiva. Per non parlare della valutazione del rendimento che - in virtù dei nuovi assi culturali e delle nuove competenze - dovrà naturalmente mutare.

E a chi sarà assegnato il compito di sperimentare sistemi alternativi? Ai collegi dei docenti. Che si occuperanno pure dei sistemi di certificazione da stilare, per rendere ufficiale a livello nazionale il titolo conseguito dopo la scuola dell’obbligo. Si parla di corsi di formazione in via di attivazione: ma per il momento non ce n’è traccia. Come non c’è traccia concreta di finanziamenti per portare avanti un’operazione così articolata e impegnativa.





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Postato il Lunedì, 21 gennaio 2008 ore 14:54:29 CET di Silvana La Porta
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