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Umanistiche: LA RIVOLUZIONE D'OTTOBRE:INTERPRETAZIONI SULL'ESPERIENZA SOVIETICA

Rassegna stampa

LA RIVOLUZIONE D'OTTOBRE

Interpretazioni sull’esperienza sovietica

di Ilaria Mori*

 

 

La rivoluzione bolscevica del 1917 segna uno spartiacque nella storia della civiltà moderna: lo “spettro” profetizzato da Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista si materializzava, dando vita al primo regime comunista della storia, nel corso dei decenni successivi, poi, tale ideale si sarebbe diffuso rapidamente, mobilitando milioni di persone. La storia di tale movimento appare segnata da un’intima contraddizione tra gli ideali di libertà e di emancipazione sociale, di cui i movimenti comunisti si fecero promotori, e il carattere totalitario dei regimi che essi realizzarono.

Questa aporia tra ideali e realizzazioni costituisce una delle questioni centrali nella riflessione storiografica sulla rivoluzione sovietica e sui regimi comunisti che si è svolta nel corso del XX secolo secondo due direzioni principali:

 

 

 

a) l’utilizzo della categoria di ‘totalitarismo’;

 

 

 

b) l’analisi del rapporto tra la vecchia Russia zarista e il regime sovietico nato dalle sue ceneri.

 

 

 

La rivoluzione d’ottobre e il totalitarismo

La categoria di totalitarismo fu elaborata nel corso degli anni Trenta del secolo scorso negli ambienti antifascisti e anticomunisti europei nello sforzo di individuare i tratti comuni dei regimi di Mussolini, Hitler e Stalin. Il totalitarismo come strumento interpretativo unificante dei tre regimi venne recuperato da un gruppo di storici e filosofi, tra cui spicca il nome di Hanna Arendt con la sua opera Le origini del totalitarismo del 1951. Secondo la studiosa “i regimi totalitari hanno scoperto crimini che gli uomini non possono né punire né perdonare” e tali regimi politici sono stati possibili grazie all’avvento di una società di massa ‘atomizzata’ in cui gli individui, ormai senza più legami sociali, sarebbero stati annichiliti e assorbiti, attraverso l’uso sistematico del terrore, nella dimensione ‘totale’ del regime stesso.

La forza di tale categoria, il suo carattere ‘metastorico’ in grado di individuare tratti comuni nel fascismo, nel nazismo e nel comunismo e che tende a omologare strutture statali profondamente diverse dal punto di vista ideologico, è stata utilizzata in modo strumentale e propagandistico antisovietico durante gli anni della guerra fredda. Proprio in quel clima arroventato e in seguito al XX congresso del PCUS, da cui prese l’avvio la ‘destalinizzazione’ iniziata da Kruscev nel 1956, sono nate delle perplessità sul valore ‘onnicomprensivo’ del concetto di totalitarismo e quindi l’esigenza di un uso più attento di tale termine e la necessità di mettere in luce sia i caratteri distintivi dei tre regimi sia il contesto storico profondamente diverso, in cui essi si svilupparono.

Molto interessante è il lavoro fatto da A. Gleason, Totalitarian. The inner History of the cold war, 1995; l’autore studia sia l’uso dell’aggettivo totale e totalitario sia il concetto di totalitarismo a seconda dei paesi e dei regimi, presentando la varietà dei contesti storici a cui sono stati applicati questi termini. Per quanto riguarda il dibattito in Italia si deve ricordare il convegno internazionale su L’esperienza totalitaria nel XX secolo organizzato dall’università di Siena nel 1997; gli atti del convegno sono stati pubblicati da Marcello Flores nel volume Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto nella cui introduzione il curatore arriva alla conclusione che “il termine connotativo generico per definire i regimi dittatoriali di massa del XX secolo (…) totalirismo è un concetto ancora troppo utile per poter essere abbandonato: a patto di coniugarlo con quello della modernità e delle particolarità dei paesi dove ha trovato sede e radici”.

La storiografia sull’Unione Sovietica, quindi, tanto di parte marxista che liberale, ha cercato di ricollocare la Rivoluzione bolscevica nel contesto storico in cui essa è avvenuta, insistendo sull’arretratezza dell’impero zarista e sulle conseguenze che essa ebbe.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La rivoluzione d’ottobre dopo la fine dell’URSS

Il crollo dell’Unione Sovietica e di gran parte dei regimi comunisti che a essa si ispirarono nel corso degli anni Novanta del ‘900 e la conseguente crisi dei movimenti comunisti ha spinto la storiografia a interrogarsi sul senso dell’esperienza comunista nel suo complesso.

Lo studio più significativo di questa fase recente è il volume di F. Furet Il passato di un illusione (1995). L’autore aveva militato nelle fila del partito comunista francese e ne era uscito dopo l’invasione dell’Ungheria. Non stupisce, quindi, che l’opera analizzi con vigore le ragioni della diffusione nel nostro secolo del mito della rivoluzione d’ottobre. Il libro, secondo Renzo de Felice, “è una delle opere fondamentali di questo secolo. Furet [dopo la frammentazione del sapere storico e della ricerca, determinate dalla storiografia degli Annales] ci ha ridato il sapore di un grande affresco, di un’indagine seria e documentata che abbraccia gli ultimi due secoli (…) che costituisce un effettivo bilancio della storia e delle illusioni dalla Rivoluzione francese alla caduta del muro di Berlino”. È quindi un lavoro coraggioso sia dal punto di vista metodologico in quanto grande opera di sintesi, sia contenutistico in quanto tocca un argomento ancora scottante, oggetto di passioni politiche che coinvolgono ancora molti.

La riflessione di Furet si snoda lungo due direttive:

 

 

 

a) qual è il processo storico-filosofico che porta le ideologie e perciò le illusioni ad essere protagoniste del XX secolo?

 

 

 

b) perché il comunismo ha avuto un fascino e un credito così duraturi?

 

 

 

Sinteticamente la risposta al primo quesito è costituita dalla relazione tra Rivoluzione francese e “la passione rivoluzionaria del 900”. La Francia ha consegnato il testimone di guida del progresso umano, conquistato nel 1789, alla Russia della rivoluzione d’ottobre che ne assume l’eredità con nuovi tratti distintivi derivati dalla Prima guerra mondiale che ha prodotto, a suo modo, una coscienza democratica, un senso di uguaglianza, di appartenenza a un comune destino “arruolando sotto le sue bandiere tutti gli uomini validi”; con tali caratteristiche l’Ottobre del 1917 è diventato “momento mitologico per eccellenza della storia”. Ecco quindi che si delinea la risposta al secondo quesito posto: il fascino duraturo del bolscevismo vittorioso è vivo e potente per il fatto che esso nell’immaginario degli intellettuali e delle masse realizza la promessa di universale rigenerazione dell’umanità contenuta nell’evento rivoluzione dal 1789 in poi. Inoltre, l’idea leninista viene letta come un giacobinismo compiuto e perciò come una dottrina e una prassi che sono strettamente connesse con la tradizione democratica europea.

 

 

 

 

 

 

Il difficile connubio tra realtà e utopia

Inizia così, secondo Furet, quello strano dualismo, che durerà sino alla parabola conclusiva degli stati comunisti, per il quale parlare della Russia sovietica non era mai parlare di uomini e fatti reali ma di ciò che quegli uomini dicevano secondo l’ideologia di cui erano i simboli e l’opera dello storico francese tenta di dare una spiegazione globale e fondata di questa enorme distanza tra “sovietismo reale e sovietismo immaginario” che ha caratterizzato la cultura storica e politica occidentale.

I concetti e le argomentazioni di Furet possono e devono essere criticate e discusse ma da esse non si può prescindere nel momento in cui si vuole tentare di comprendere a fondo le coordinate portanti del secolo trascorso. Ha spiegato in modo inedito la dote del comunismo di sapersi presentare per quello che dice di essere e di farsi credere da milioni di persone perché vive in due dimensioni: è reale ma vuole restare un’utopia.

La sua analisi dello sviluppo dell’ideologia comunista procede attraverso lo stalinismo, i suoi rapporti con il fascismo e il nazismo, il secondo dopoguerra, il rapporto Kruscev, l’età di Breznev fino al maoismo, a Castro, al“Che”. A proposito del Sessantotto scrive queste parole (che non lasciano dubbi sulla sua posizione) “L’eredità più consistente dei fatti accaduti alla Sorbona, all’università di Berlino, alla scuola Normale di Pisa, o ad Oxford, non è né il maoismo, né il castro-guevarismo, effimeri astri di un giorno, ma un nuovo progressismo borghese. Gli ex sessantottini hanno fatto subito la pace con il mercato, con la pubblicità, con la società dei consumi in cui spesso nuotano come pesci nel mare, come se ne avessero denunciato le tare per adattarsi meglio. Ma pur nel loro inserimento sociale intendono conservare i benefici intellettuali dell’idea di rivoluzione”.

Il saggio di Furet ha provocato alla sua uscita un ampio dibattito non solo storiografico ma anche politico e pubblicistico in quanto nella sua interpretazione il comunismo non è più visto come un prisma dalle molteplici sfaccettature: comunismo-rivoluzione/comunismo-termidorocomunismo-liberatore/comunismo-oppressore; comunismo-movimento/comunismo-regime; comunismo della resistenza e dei movimenti di liberazione/comunismo degli apparati repressivi (gulag-Kgb) ma il prodotto di un’ideologia che ha illuso.

 

 

 

La ricerca di una lettura equilibrata

Il comunismo stigmatizzato come totalitario è l’antitesi dell’ideologia e del regime politico dominanti: il liberalismo, sui cui binari il mondo sembra aver ritrovato il suo equilibrio.

Tra coloro che in Italia hanno risposto allo stimolo suscitato dall’opera di Furet sembra condivisibile la posizione di A. Agosti in Bandiere rosse. Un profilo storico dei comunismi (1999) che, in polemica con le posizioni di Furet, afferma “il comunismo non è stato solo un’illusione travolta dal fallimento dell’Unione Sovietica e dei sistemi politici, economici e sociali ad essa collegati né solo la galleria degli orrori dittatoriali e di miseria morale e materiale cui si ha ora la tendenza a ridurlo: è stato un movimento collettivo che ha riguardato la vita di milioni di persone e che ha assunto con gli anni un carattere sempre più differenziato e meno unitario, che ha inciso in profondità nella storia delle relazioni internazionali e in quella dei singoli paesi, intrecciandosi in forme le più varie alle specificità della loro tradizione nazionale e della loro conformazione sociale; che ha plasmato in forma diretta o indiretta l’organizzazione economica, i sistemi politici, le coordinate culturali del mondo contemporaneo”.

 

 

 

*Docente di italiano e storia in un liceo artistico romano.

 

 

 









Postato il Venerdì, 18 gennaio 2008 ore 09:04:05 CET di Salvina Torrisi
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