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Umanistiche: SCUOLA E POLITICA:CONTRADDIZIONI IRRISOLTE

Rassegna stampa

Scuola e politica: contraddizioni irrisolte

di Roberto Lolli*

 

 

Secondo Aristotele, l’uomo è l’animale politico; secondo Hegel, non esistono spazi impolitici, perché anche dove non vi sia la competenza della sfera pubblica – come nella famiglia e nella società civile – c’è comunque politica. Per i giusnaturalisti uno spazio prepolitico c’è, nello 'stato di natura', ma gli uomini in ogni caso si affrettano a uscirne il prima possibile per timore (Hobbes) o per l’utile (Locke). Per Michel Foucault, infine, c’è politica ovunque sia presente una relazione di potere e il potere è dappertutto: nelle carceri, negli ospedali, nelle scuole.

 

 

 

La scuola: uno spazio politico o uno spazio per la politica?

Riassumendo, i modelli filosofici ci indicano che la politica è ovunque o che, dove è assente, ci si prepara ad affrontarla, sperimentata l’impossibilità di vivere sicuri e felici senza associarsi agli altri istituendo regole comuni.

A questo punto in quale relazione è la scuola nei confronti della politica? Nel sentire comune, si vorrebbe che essa ne rimanesse fuori. Tuttavia, alla scuola è sempre stato affidato un compito politico, dato che già la scelta tra la trasmissione del sapere e la formazione della coscienza critica della ragione si configurano come opzioni politicamente non irrilevanti. Sembrano passati molti anni dalle riflessioni pedagogiche di Dewey o di don Milani, eppure a ben guardare anche nei paesi più democratici la realizzazione di una scuola davvero capace di educare alla libertà non si è attuata.

Una delle contraddizioni della scuola italiana è l’insegnamento dell’Educazione Civica, affidata (delegata) a un solo docente che, spesso, la sacrifica per fare spazio alle altre discipline della sua cattedra sulle quali incombono gli impegni del programma e della valutazione. Ciò è inadeguato, giacché la formazione del cittadino nell’ambito scolastico è responsabilità comune del consiglio di classe e degli altri organi scolastici.

In molte scuole, per esempio, si assiste alla deriva delle assemblee d’istituto verso il fatuo, poiché spesso si convocano per svolgere feste studentesche d’inverno, primavera, estate. Si svilisce così l’opportunità introdotta dai Decreti Delegati del ’74 di fare della scuola non un luogo di militanza, ma di attivazione della coscienza politica. Collegio Docenti e Consiglio d’Istituto dovrebbero sentire la responsabilità di favorire o contrastare tale processo, educando i giovani al miglior uso degli spazi di democrazia loro concessi. “Il deserto cresce, ma guai a chi cela i deserti dentro di sé” scriveva Nietzsche…

 

 

 

La scomparsa dei giovani come categoria politica

Un modestissimo sondaggio – senza alcuna ambizione scientifica – condotto da chi scrive tra i propri studenti ha evidenziato alcune cose: l’irrilevanza della scuola nella formazione delle opinioni politiche (nonostante la presenza nei licei di materie come Filosofia e Storia o, in altre tipologie di istituti, come Diritto,); la difficoltà a discutere di politica in astratto senza riferirsi all’esempio – giudicato negativo – delle forze politiche presenti; lo scarso interesse verso gli argomenti e il linguaggio della politica nella comunicazione mediatica e nel dibattito dei partiti. Come docenti, c’è da riflettere, indipendentemente da quel che faranno i politici. Il fatto che gli studenti confessino di essere influenzati dalle opinioni dei genitori, di non capire le differenze tra gli schieramenti e di andare a votare più che altro come tifosi, seguendo simpatie e antipatie e non per principi e valori fa rabbrividire. Soprattutto perché è segno di un fallimento generale nei confronti dei giovani, considerati interlocutori solo dai pubblicitari che devono vendere canzoni, videogiochi o scarpe alla moda.

I giovani, invece, costituiscono una categoria importante nella storia: dei giovani erano piene le piazze nel 1848, nel 1968 o nel 1989, quando potenti sogni di emancipazione li trasformarono in un grande fattore di rinnovamento e trasformazione; dei giovani erano piene le bande di partigiani che nella seconda guerra mondiale contribuirono a riscattare una nazione che da altri giovani era stata incamminata verso la dittatura. Ora che i giovani sono confinati dalla politica e dai media in un limbo fatuo e consumistico c’è da temere il momento in cui una generazione sarà chiamata ad assumere delle responsabilità alle quali non è stata educata.

 

 

 

La banalità del banale

La prima vera operazione che può fare la scuola per avvicinare i giovani alla politica è porre in questione la banalità degli slogan, dei luoghi comuni dei quali la comunicazione politica presente si nutre. Magari proprio a partire dalle considerazioni degli studenti dalle quali è nato lo spunto di questo articolo: 'la politica è vecchia' , 'non parla un linguaggio per i giovani' e così via.

Per esempio, sull’opinabilità che un’idea sia migliore o peggiore per l’età di chi l’abbia pensata, si potrebbe didatticamente sollevare il problema analizzando la Querelle des Anciens et des Modernes nei suoi risvolti politici (quando fu posta la questione, tra Bouileau e Perrault, gli antichisti erano oppositori di Luigi XIV, mentre i modernisti erano fautori di un allineamento della cultura al Palazzo e, dunque, politicamente assai meno innovatori e rivoluzionari dei primi). Sarebbe anche interessante stimolare un confronto sulla definizione che Ortega y Gasset dà dell’uomo occidentale nella Ribellione delle masse (1930): costui, per il filosofo spagnolo, è il 'signorino soddisfatto' che ha totalmente rinunciato all’assunzione delle proprie responsabilità e respinge tutto ciò che, producendo sforzo e fatica, induce a migliorarsi; meglio 'sentirsi come tutti gli altri' e identificarsi nel modello dell’uomo prodotto in serie, 'l’uomo-massa'. Se davvero i media, le famiglie, i politici cercano di indurre i giovani a non occuparsi della cosa pubblica, sono essi senza colpa se assecondano l’invito?

Una lezione su La politica come professione (1920) di Max Weber e su Le origini del totalitarismo (1951) di Hannah Arendt può suggerire l’analisi della leadership carismatica e delle sue possibili conseguenze, nell’attivazione di masse politicamente inerti che, all’improvviso, si ridestano per spazzare via un mondo. Un linguaggio vecchio venne sostituito da uno nuovo: ma siamo sicuri che quest’ultimo, il linguaggio dei regimi totalitari, meritasse di affermarsi?

Oggi che, cavalcando la cosiddetta 'antipolitica', diventa facile riempire le piazze in adunate vagamente messianiche, la scelta di materiali idonei a favorire lo sviluppo di strumenti interpretativi efficaci è essenziale. Però la scuola deve evitare di impelagarsi in un mare di scrupoli che in democrazia non le competono – il rispetto della 'par condicio', il mito dell’imparzialità a ogni costo, la neutralità delle informazioni – per accettare che dentro di essa i problemi veri vengano affrontati, analizzati e discussi e che gli studenti, magari a partire dalle loro idee confuse espresse con un linguaggio approssimativo, vengano progressivamente posti nelle condizioni di partecipare davvero in modo attivo alle proprie responsabilità comprendendo il significato dei concetti e la portata storica delle azioni.

 

 

 

*Insegna Filosofia e storia presso il Liceo scientifico 'A. Roiti' di Ferrara. Ha curato con P. Salandini l'opera di storia della filosofia Filosofie nel Tempo, diretta da Giorgio Penzo, 4 voll., Roma, SpazioTre, 2000-2006.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 









Postato il Domenica, 13 gennaio 2008 ore 10:57:22 CET di Salvina Torrisi
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