Marco Capra
“Le ansie angosciate di Cio-Cio-San”
Punti di vista sugli esordi tribolati di Madama Butterfly
Nell’Italia musicale degli inizi del Novecento coesistevano due realtà contraddittorie:
da una parte la vitalità di quelle nuove esperienze moderniste che più
avanti si sarebbero identificate con la cerchia della cosiddetta “generazione
dell’Ottanta” della triade Casella-Pizzetti-Malipiero; dall’altra la crisi del teatro
d’opera, della quale era specchio fedele la situazione materiale dei teatri, in parte
chiusi o comunque in gravi traversie economiche e gestionali. A quella crisi –
che riguardava direttamente anche il modello di fruizione – faceva da effimero
contrappeso il successo dell’Operetta, attecchita in Italia, specialmente a Milano,
agli inizi del nuovo secolo. La popolarità del genere “leggero” avrebbe tentato
anche i maggiori esponenti del teatro d’opera (da Mascagni a Leoncavallo al
Puccini della Rondine), a riprova della manifesta difficoltà a risolvere la contraddizione
tra ricerca continua di nuove esperienze ed effettiva incapacità di reale
rinnovamento. In generale, per gli autori non più giovanissimi della cosiddetta
“giovane scuola” di fine Ottocento, così legata alle fortune della breve stagione
verista, il tentativo di rinnovamento si sarebbe in genere tradotto nel tentativo
di adeguare proprio la poetica e il linguaggio veristi ad argomenti di natura
storica o favolosa, o di un Settecento riscoperto sull’onda della voga preromantica;
nel ritorno a forme più ampie e ridondanti rispetto all’essenzialità delle opere
degli anni 1890; nella maggiore perizia ed eleganza della strumentazione. Tra
di loro, il solo Puccini batteva una strada tutta sua di sviluppo reale, fra scelte
tormentate e ripensamenti. Sull’altro versante, l’esempio della “generazione
dell’Ottanta”, nonostante le sue interne distinzioni e contraddizioni, sarebbe
stato la base storica delle esperienze moderniste e dei loro sviluppi futuri. Le
due anime della vita musicale italiana dell’epoca non potevano che essere in
contrasto, come appariva del tutto evidente nella recensione che il giovane
Pizzetti dedicava a Siberia, opera di Umberto Giordano, nel 1906: «Il pubblico
dei teatri italiani – grandi e piccoli – è ancora così incolto in fatto di arte musicale
che il concetto che egli ha della musica in genere e in particolare del dramma
lirico è il più errato, il più falso che si possa immaginare. In questo stato
miserevole di cultura artistica l’hanno mantenuto fino ad ora l’ignoranza degli
artisti da un lato, e l’ignoranza o la disonestà di certa critica dall’alto. Gli artisti
– intendo i compositori di musica – si accontentano di rimanere tuttavia con
la loro arte al livello della cultura del volgo, nulla tentano per elevare il gusto
artistico popolare, e continuano a improvvisar melodie su vecchie formule –
affidandosi solamente al naturale impulso – come un qualunque cantore di
piazza o come un mandolinista napoletano. Nella loro ignoranza essi credono
pur sempre che in Italia il musicista non abbia che da lasciar scorrere il flotto
della propria ispirazione, senza frenarlo senza regolarne il corso e in nome della
spontaneità giudican buona qualunque melodia loro venga in mente, sia pure
la più volgare o la più comune. L’universale entusiasmo che ha accolto per due
secoli l’opera italiana li pone ora su falsa strada e li fa incoscienti del valore e
del compito dell’arte moderna»1.
Nelle parole del giovane compositore in veste
di critico stava tutto il disprezzo per il mestiere e la routine, la polemica nei
confronti dell’opera verista e dei suoi epigoni, l’intellettualismo e la vocazione
elitaria che alcuni anni dopo avrebbero ispirato il notissimo pamphlet in cui
Fausto Torrefranca se la sarebbe presa con l’indole commerciale e accondiscendente
dell’opera italiana contemporanea e soprattutto con Puccini, maggior esponente
di quel mondo che Torrefranca definiva con disprezzo come quello in cui «la
cultura si spaccia molto all’ingrosso e si acquista, più che si può, al minuto»2
Erano tutti sintomi di quella separazione in atto tra musica colta e musica
popolare di cui viviamo ancora oggi gli sviluppi a cent’anni di distanza. Quella
netta divisione generazionale non rappresentava tuttavia il segnale di una crescita
reale, di una evoluzione produttiva almeno nell’ambito del teatro musicale; ma
era il segno di una crisi irreversibile in atto, che avrebbe, alcuni decenni dopo,
portato all’estinzione dell’Opera in musica come genere di spettacolo vitale e
alla sua conversione in bene culturale da gestire e valorizzare.
Ma all’inizio del secolo il senso della crisi non era ancora percepito come
presagio della fine o della trasformazione d’uso del genere operistico: era il segno
di una delle ricorrenti e fisiologiche contrapposizioni generazionali che avevano
accompagnato l’evoluzione dell’Opera fin dalla sua nascita, tre secoli prima.
Anche l’insuccesso della prima milanese della Madama Butterfly, nel febbraio
del 1904, era del tutto nella tradizione costellata di clamorosi insuccessi
“eccellenti” alle prime e di altrettanto clamorosi ripescaggi alle repliche, dal
Barbiere rossiniano in avanti, per rimanere nell’ambito di quelle che oggi
consideriamo opere di repertorio. Nel caso di Puccini, tuttavia, l’insuccesso
scaligero della Butterfly avrebbe innescato un tormentato processo di ripensamento
e sviluppo, pur nella coerenza a un modello votato al sempre primario rapporto
col pubblico.
E il pubblico fu il protagonista indiscusso di quella prima e unica rappresentazione
milanese:
Grugniti, boati, muggiti, risa, barriti, sghignazzate, i soliti gridi solitari di bis fatti
apposta per eccitare ancora più gli spettatori, ecco, sinteticamente, quale è
l’accoglienza che il pubblico della Scala fa al nuovo lavoro del maestro Giacomo
Puccini. Dopo questo pandemonio, durante il quale pressoché nulla fu possibile
udire, il pubblico lascia il teatro contento come una pasqua! e mai si videro tanti
visi allegri, e gioiosamente soddisfatti come di un trionfo collettivo: nell’atrio del
teatro la gioia è al colmo, e non mancano le fregatine di mani, sottolineate da
queste testuali parole: consumatum est! parce sepulto. – Lo spettacolo che si ha
nella sala pare altrettanto bene organizzato quanto quello del palcoscenico, poiché
principiò esso pure precisamente col principiare dell’opera. Tanto che sembrava
di assistere ad una battaglia di tutta attualità come se i russi in serrati battaglioni
d’oste nemica volessero dare l’assalto al palcoscenico per spazzar via tutti i
battaglioni giapponesi pucciniani3.
Nella versione dell’editore Ricordi, qui espressa dal suo periodico “Musica e
musicisti”, non poteva essere più trasparente l’allusione a una macchinazione
ordita dal suo maggior concorrente italiano: l’editore Sonzogno, che in quella
stessa stagione alla Scala metteva in scena Siberia (da qui l’allusione ai battaglioni
russi), nuova opera di Giordano, che apparteneva proprio alla scuderia Sonzogno.
Nulla di troppo strano, beninteso, poiché quel genere di concorrenza, basata su
interessi squisitamente economici, allora come sempre (e non limitata al settore
di pertinenza editoriale), si serviva anche della manipolazione o del condizionamento
del pubblico. La tesi della premeditazione – accolta da alcuni storici
anche ai giorni nostri – all’epoca fu fatta propria da alcuni organi di stampa, ma
da altri decisamente confutata:
Non sarebbe il caso di riparlare della disgraziata Butterfly di Puccini. Fu una
caduta che impressionò tutti quanti vogliono un po’ di bene alla gloriosa arte
musicale italiana, e per conseguenza al Puccini che, nell’ultimo lustro, tanto ha
concorso, col suo talento e colla sua genialità, a tenerne altissimo il prestigio. La
nota comica, nella dolorosa contingenza, l’ha portata il Corriere della Sera,
dapprima con uno sforzo enorme di trampoli, da parte del suo critico d’arte, per
non dire di un insuccesso che gli scappava fuori ad ogni riga; poi con una lettera
firmata “uno del pubblico” rivelante nello stile tutto l’alto sapere e l’abilità di un
celebre architetto ristauratore dell’antico ed ex-deputato, e poi ancora con
un’intervista da parte del redattore giudiziario al maestro, che gli è andato
riversando nel gilet tutto il suo magone, e quello dei suoi congiunti. Lo sforzo
acrobatico del Corriere mirava a persuadere che il fiasco della Butterfly, non era
già dovuto alla mancata originalità e novità della musica, ma sibbene ad un partito
preso, e stampò – nientemeno – che se si fosse tentata la seconda rappresentazione
in teatro sarebbe successo una cagnara contro il buon Puccini. Dove diavolo il
Corriere della Sera, col suo “uno del pubblico” e col redattore giudiziario
intervistatore, che vide tutti piangere lagrime disperate sulla povera ghescia [sic]
capitombolata, sia andato a pescare così grossa corbelleria, non sappiamo; ma
crediamo che Puccini stesso leggendo quegli sdiliquimenti deve averrne provato
nausea. Nessun partito preso. Attorno alla Butterfly s’è fatta troppa réclame. Si
stampò in tutti i toni che la “giapponesina” doveva essere il capolavoro dell’autore
di Manon, di Bohème e di Tosca, e invece fu ammannito al pubblico un pot-pourrì
delle tre graziose opere e di altre ancora. Al pubblico quel pot-pourrì non piacque
e da quel sovrano egoista che è ha zittito. Ed ha zittito anche perché trovò che
gli si era fatto pagare troppo cara quella porzione di musica ammannitagli
.
“Tragedia” fin che piace ai librettisti di chiamarla questa Butterfly, ma nessuno
vorrà ammettere che essa abbia le proporzioni adatte al nostro grande teatro. Le
proporzioni artistiche – intendiamoci – che hanno voluto darle gli autori. I prezzi
esagerati resero il pubblico giustamente più esigente. Se per assistere a questo
bibelot – così com’è riuscito – dell’arte il pubblico dovè pagare L. 60 una poltrona,
L. 50 una poltroncina, qualcuno si domandava quanto avrebbero dovuto pagarsi
quei posti quando gli impresarii allestivano Don Carlos, Ugonotti, Ebrea, Aida,
ecc. ecc., con quel po’ po’ di complesso di artisti e di messa in iscena che quei
colossi esigevano. E il pubblico era anche allora pretenzioso verso le imprese!
Queste sono nostre considerazioni, ma, lo ripetiamo, disse una corbelleria il
Corriere stampando che fossevi un partito preso contro Puccini. Egli era prima
di quella sera, come lo è ancora, il maestro amato dal pubblico perché, se colle
Villi, colla Manon, con Bohème e con Tosca gli ha dato soavissime commozioni,
confida che altre ancora gliene darà4.
Per alcuni versi, la nuova opera di Puccini riproponeva il medesimo caso
occorso più di cinquant’anni prima, allorché La traviata sembrò prefigurare una
via impropria alle esigenze e alle funzioni del teatro d’opera. Se negli anni
Cinquanta dell’Ottocento il dramma di Violetta sembrò a molti troppo modesto
e quotidiano nell’argomento, ancorché imbastardito da troppe compromissioni
con il linguaggio del teatro drammatico, ora, agli inizi del nuovo secolo, l’intimo
e modesto dramma quotidiano di Cio-Cio-San veniva ritenuto artisticamente
inadeguato al grande teatro milanese e la dimensione tragica tuttalpiù limitata
alla definizione datane dai librettisti Illica e Giacosa. Sotto questo aspetto,
tuttavia, le opinioni divergevano, come di consueto. Nell’attenta disamina uscita
sul “Mondo artistico” pochi giorni dopo la rappresentazione, Ettore Moschino
scriveva:
Nella ricerca affannosa d’una drammaticità realistica che sembra per i nostri
compositori lirici la condizione essenziale d’un buon libretto e del conseguente
trionfo dell’opera, questa Madama Butterfly giunge come un soffio di poesia e
come una visione di grazia. È la poesia del dolore ed è la grazia dell’ambiente,
due coefficienti che bastano a dare un suggello di durevole nobiltà a qualunque
manifestazione rappresentativa o letteraria. Se non che, nella costruzione di
questo libretto, sia per reali esigenze sceniche o per uno sbaglio d’ottica teatrale
non sempre la poesia è profonda e non sempre l’ambiente è interessante. Il
dramma di quella piccola geisha che Giacomo Puccini vide una sera in un teatro
londinese: la passione mortale di quell’esotica eroina che miss Eveline Millard
rendeva con profondità affascinante e con ricchezza di sfumature sentimentali,
quel dramma e quella passione misurati nel giro di un solo atto, tradotti in versi
da musica e allungati in due atti perdettero alquanto della loro efficacia perché
perdettero principalmente il carattere della spontaneità5.
Se la meditata critica che “Il Mondo artisitico” dedicava al dramma si concentrava
sui problemi derivati dalla sua trasposizione operistica, e ad essi attribuiva una
certa parte di responsabilità nell’esito negativo della rappresentazione, l’esame
della musica era invece teso alla ricerca delle attenuanti da concedere al
compositore. Ryno Le Clerc, al quale era affidata l’analisi musicale, si concentrava
in particolare sull’accusa rivolta a Puccini di aver troppo spesso ceduto alla
tentazione di plagiare le proprie opere precedenti, e la capovolgeva in senso
positivo:
Non solo codesti che si potrebbero chiamare gli auto-plagi di Madama Butterfly
non provano nulla contro la vivacità e la potenza dell’ingegno dell’autore, ma
sono anzi un argomento a favore di una tesi generale. E la tesi generale è che di
quando in quando l’estro dell’artista più coerente a sé stesso entra in una fase
d’evoluzione o, se volete, semplicemente d’inquietudine, ed allora, nella preoccupazione
assorbente di aprirsi una via nuova, diventa noncurante di tutto il
passato, dimentico delle esigenze della tradizione e quindi completamente
disarmato davanti al rischio di codesto genere di faux pas. Via: è possibile che
Puccini abbia voluto deliberatamente farsi un sistema di quel risparmio di fatica,
che nel corso del suo lavoro di composizione poteva essere rappresentato, ad
esempio, dall’intercalare quattro battute del celeberrimo tema della Bohème nel
tema fondamentale di Madama Butterfly? Ma non credete voi, che con l’abilità
tecnica, che tutti gli riconoscono, egli avrebbe saputo da un momento all’altro,
con un giro di mano, mascherare quelle somiglianze, togliere appunto ciò che
esse hanno di palese, riservire caldo al pubblico il tema sotto una forma per
questo lato ineccepibile?6
La tesi del critico era che l’utilizzo di spunti melodici pre-esistenti fosse in
realtà funzionale a un’evoluzione in atto: non immobilismo dell’ispirazione,
quindi, ma metamorfosi artistica.
Suggestionato dalla natura del libretto, in cui tutto, favola, caratteri, passioni,
ambiente, forma di testo, è minuto, sfumante, profondo, ma come visto attraverso
un velo d’acqua, egli ha tentato di raffinare il più possibile l’emozione musicale
al rischio di portare i mezzi d’espressione ad un colmo di tenuità. Egli si è detto,
o forse – e tanto meglio – ha semplicemente sentito, che i tratti di frivolezza
gentile, di sentimentalità adolescente, di tragicità lillipuziana, di cui è fatta codesta
affascinante evocazione di un’anima femminile così piccina e così grande ad un
tempo, avrebbero pure potuto esser trasportati quasi tali e quali in una musica,
in cui gli spunti melodici fossero brevi, e gli effetti orchestrali fossero sovratutto
di sfumature, e gli sviluppi tematici si muovessero lungo una linea dalle rientrature
e dalle spezzature, frequenti, e la melodia presentasse continuamente delle
oscillazioni di tonalità e fondesse in sé la banalità voluta dalle forme popolari
colla originalità del colorito esotico7.
Dunque, non opera dell’invenzione melodica franca ed esibita; ma opera della
variazione infinitesima e trascolorante al servizio dell’espressione più intima.
Ma anche una partita persa, secondo il critico, nei confronti di un pubblico
incapace di cogliere la sincerità delle intenzioni del compositore e di apprezzare
il sacrificio di quei «lati più brillanti e noti del suo talento» che avrebbero invece
potuto garantirgli un successo sicuro e immediato.
E sia: v’è un proverbio che dice: chi perde ha torto. Ma v’ha torto e torto.
E il torto, che il Puccini ebbe stavolta, non fu verso i diritti e la dignità
della sua arte, ma verso le esigenze e le suscettibilità del suo pubblico. Ma
l’ultimo a convincersi, che codesta sia pel Puccini la più valida delle
attenuanti, sarà appunto il pubblico, si capisce8.
Invece, è risaputo, l’opera, opportunamente rivista e corretta, sarebbe risorta
pochi mesi dopo a Brescia; e in quell’occasione il pubblico le avrebbe accordato
un favore ulteriormente accresciuto proprio dal confronto con l’entità
dell’insuccesso milanese, come spesso accade in questi casi.
Puccini, con quella serenità che deriva dalla coscienza della propria forza, ha
profittato dell’insuccesso, ed ha data una ritoccata allo spartito: ha tolto qualche
esuberanza, ha mascherata qualche reminiscenza, ha diviso un atto troppo lungo,
ha aggiunto una di quelle frasi tenorili, che piacciono tanto più a chi le canta,
quanto più sono brutte e mandano in sollucchero un certo pubblico… L’opera
ha avuto così, al teatro Grande di Brescia, un grande successo. Ma lo ha ottenuto
con questi ritocchi? No, certamente. I pregi dei quali si adorrna lo spartito, hanno
maggiore evidenza in un vaso più ristretto; le finezze di dettaglio della composizione
pucciniana, l’eleganza delle trovate strumentali, appaiono più facilmente in un
ambiente meno vasto e più raccolto che non fosse quello della Scala; la tenuità
del soggetto, fatto tutto di sottigliezze di pensiero, esigeva poi assolutamente una
cornice limitata. Così il pubblico ha potuto seguire con maggior facilità, epperò
con maggior godimento, le ansie angosciate di Cio-Cio-San; ha rilevato con più
agio la raffinatezza con la quale l’autore si compiace di mettere la sua notoriamente
ricca tavolozza strumentale al servizio di una ispirazione poco varia, ma sempre
nobile ed aristocratica; ed il successo fomentato da ragioni estranee ai meriti della
Butterfly, ha sorpassato anche i vasti limiti di una manifestazione sincera per
divenire un vero trionfo9.
1 Ildebrando Pizzetti, La Siberia di Umberto Giordano, “Gazzetta di Parma”, 14 gennaio 1906.
2 Fausto Torrefranca, Giacomo Puccini e l’opera internazionale, Torino, Fratelli Bocca Editori, 1912, p. 4.
3 Il giro del mondo in mese, “Musica e musicisti”, LIX/3, marzo 194, p. 189.
4 Cronaca Milanese. Scala, “Gazzetta teatrale italiana”, XXXIII/5, 20 febbraio 2004, p. [1].
5 Ettore Moschino, Madama Butterfly. Il libretto, “Il Mondo artistico”, XXXVIII/9, 21 febbraio 1904, p. 1.
6 Ryno Le Clerc, Madama Butterfly. La musica, “Il Mondo artistico”, XXXVIII/9, 21 febbraio 1904, p. 2.
7 Ivi, pp. 2-3.
8 Ivi, p. 3.
9 Franco Fano, La nuova edizione di “Madama Butterfly”, “Il Mondo artistico”, XXXVIII/24-25, 11 giugno
1904, pp. 7-8.