Quarant’anni dopo la sua morte, non perde forza l’insegnamento del priore di Barbiana. Da una polemica nel 1965 con i cappellani militari – che accusarono di viltà i primi obiettori coscienza al militare incarcerati – don Lorenzo Milani coglie lo spunto per affermare il primato della libertà di coscienza. Ai suoi ragazzi insegnava a rispettare le leggi. Ma a battersi se erano ingiuste: col voto, lo sciopero e – se necessario – la disobbedienza. Nel 1972 la legge sul servizio civile permetterà ai giovani di servire la Patria senza divisa.
Il primato della libertà di coscienza è l’eredità più importante che il priore di Barbiana ha lasciato alla società italiana. Educatore appassionato, in anticipo sui suoi tempi, nel 1965 don Milani coglie una polemica sull’obiezione di coscienza al servizio di leva per volare più in alto di una semplice posizione antimilitarista. Ogni cittadino – afferma –, deve obbedienza alle leggi finché esse assomigliano alla legge di Dio. Diversamente, deve battersi per cambiarle, in modo democratico e nonviolento. Anche arrivando, se necessario, a trasgredire la norma, sapendo di dovere pagare di persona. La sua Lettera ai giudici, chiamati a vagliare la denuncia a suo carico da parte di alcuni ex combattenti, presto verrà ribattezzata L’obbedienza non è più una virtù. Non lo era negli anni Sessanta per alcune decine di obiettori di coscienza – per lo più anarchici, protestanti, testimoni di Geova e poi anche cattolici – che pur di non imparare il mestiere della guerra accettavano il carcere militare. La pena non li assolveva dagli obblighi di leva: scarcerati, ricevevano un’altra cartolina, che rifiutavano, scatenando un nuovo processo. Finché le Forze armate non li riformavano adducendo motivi di salute, anche per evitare di dare eccessiva eco ai fatti, in un’opinione pubblica che iniziava a riflettere sulla necessità di una legge per un servizio alla Patria alternativo, che avrebbe incrinato il dogma nazionalista “Patria = Forze armate”. Bisognerà aspettare la fine del 1972 perché anche in Italia il Parlamento vari una legge sul servizio civile, la 772. Abbracciare la causa degli obiettori a don Milani costerà incomprensioni, ostracismi e severe reprimende da parte della gerarchia ecclesiale. Innamorato evangelicamente dei poveri e degli oppressi e severo censore dei ricchi e della borghesia, don Milani non è tuttavia riducibile al pensiero comunista, di cui ha ben chiare le radici antidemocratiche e violente.
I cappellani in congedo e gli “obiettori vigliacchi” La scintilla iniziale scaturisce dalla presa di posizione di una ventina di cappellani militari toscani in congedo, che fanno pubblicare sulla “Nazione” il 12 febbraio 1965 un comunicato in cui definiscono “un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta ‘obiezione di coscienza’ che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”. L’uscita dei sacerdoti con le stellette è la spia di un dibattito in corso. Don Milani segue da tempo le vicende degli obiettori. Nel 1962 a un amico sottolineava la necessità di sostenere l’obiettore milanese Giuseppe Gozzini, sotto processo presso il tribunale militare fiorentino: “È cattolico. Una rarità – scrive don Milani – tra gli obiettori che son tutti protestanti. E loro sono assistiti dalla solidarietà della loro chiesa”. Nel 1963 padre Ernesto Balducci paga il suo appoggio agli obiettori con una condanna a otto mesi per apologia di reato. Il priore di Barbiana dunque scrive una risposta lucida, argomentata, tagliente. La Lettera ai cappellani militari toscani viene volantinata tra comunità, associazioni e giornali. A pubblicarla sarà soltanto il settimanale comunista “Rinascita”, il 6 marzo 1965. Dieci giorni dopo, don Milani viene denunciato da un’associazione di ex combattenti assieme al direttore del periodico, Luca Pavolini.
“La mia patria sono i poveri, la vostra è solo una scusa” Ai cappellani che la bollano come “viltà”, don Milani replica definendo l’obiezione “eroica coerenza cristiana”. Poi smonta la retorica patriottarda dello straniero nemico: “Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”. La parola Patria, insomma, “è stata usata male molte volte”, come “una scusa per essere dispensati dal pensare” e “dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti”. In un rapido excursus storico don Milani elenca i troppi casi in cui l’obbedienza acritica ha provocato disastri. Come le cannonate del generale Beccaris sui manifestanti, le guerre coloniali, l’aggressione all’Austria nel 1914. Nel 1922, invece, i soldati non difendono la Patria dagli squadristi che marciano su Roma, aprendo le porte alla dittatura e alla guerra. Bisogna obbedire agli ordini di bombardare civili, decimare truppe insubordinate, usare armi chimiche o atomiche? Anche i concetti di eroismo e tradimento sono per lui assolutamente relativi. Furono “briganti” e “ufficiali napoletani disertori” ad assaltare nel 1860 il Regno delle due Sicilie, o eroi garibaldini? E Cesare Battisti? Per l’Italia un patriota, per l’Austria un disertore. Don Milani cita San Pietro: “Si deve obbedire agli uomini o a Dio?”. In Italia non c’è una legge per gli obiettori, mentre grazie al Concordato gli unici a poter fare obiezione al militare – ricorda – sono proprio i preti.
“Obbedire non è una virtù. Ciascuno è responsabile di tutto” Il 16 marzo un gruppo di ex combattenti denuncia lui e il direttore di “Rinascita” per incitamento alla diserzione e vilipendio alle Forze armate. Il tumore ai polmoni non gli permette di presentarsi al processo a Roma. Invierà un’arringa ancora più tagliente della risposta ai cappellani, senza risparmiare una stilettata alla rivista comunista che “non merita l’onore di essersi fatta bandiera di idee che non le si addicono, come la libertà di coscienza e la non violenza”. Per don Milani stavolta l’obiezione è lo spunto per un discorso più ampio, che parte dall’impegno civile. È l’I care, il “mi importa” scritto sui muri della sua scuola, “il contrario esatto del motto fascista ‘me ne frego’”. Parla dell’“arte delicata” dell’educazione, che nei ragazzi deve formare il “senso della legalità”, ma allo stesso tempo “la volontà di leggi migliori”: “Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo di amare la legge è d’obbedirla”. Dovranno osservare le leggi “quando sono giuste, cioè quando sono la forza del debole”, dovranno invece “battersi perché siano cambiate” quando non lo sono. Con il voto, lo sciopero e influendo “con la parola e con l’esempio”. Se serve, arrivando a “violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che prevede”. Perché “chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri. Non capisco come qualcuno possa confonderlo con l’anarchico”. Dunque bisogna “avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene fare scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto”. È il passaggio chiave. Il 15 febbraio 1966 don Milani è assolto “perché il fatto non costituisce reato”. I giudici nella sentenza sottolineano il vuoto legislativo sull’obiezione. Il ricorso dell’accusa ribalterà, due anni più tardi, il verdetto: cinque mesi a Pavolini, per don Milani “reato estinto per morte del reo”. Di fatto, una condanna.
*Obiettore di coscienza presso la Caritas di Roma, lavora dal 1991 nella redazione interni del quotidiano “Avvenire”, con una particolare attenzione ai temi del sociale. Nel 2004 ha curato, assieme ad Alberto Chiara e Diego Cipriani, il volume della Caritas italiana Voci sull'obiezione. Interviste ai protagonisti, ed. La meridiana.
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