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Umanistiche: La ''Volpe'' di Montale nei testi de''La bufera e altro''

Rassegna stampa


"Bisogna abbandonarsi al ritmo delle parole"

Maria Luisa Spaziani esprime l’esigenza di ritrovare nella poesia, che rappresenta la «possibilità della verità e della concentrazione di tutti i significati», una capacità in qualche modo eversiva, in grado di «aggredire il mondo compiendo qualcosa di forte»..
Recentemente, quello che definisce un «aziendalismo prima strisciante, poi esplosivo» ha tentato di estrometterla dalla presidenza, mantenuta da sempre. Percepiamo che l’amarezza provocata dalla intricata vicenda è profonda, nonostante sia stata temperata dalla solidarietà del mondo intellettuale e istituzionale. In ogni caso l’episodio, che non cede a facile risentimento, ha ispirato un ironico dialogo radiofonico.
D. Qual è l’attuale situazione del Centro?
Il Senato della Repubblica ha dichiarato che, anche considerata la posizione di Montale che fu senatore a vita, non è pensabile lasciare cadere il lavoro svolto sin qui e mi ha confermato la sua fiducia, nel segno di una continuità con il passato. L’attività deve essere ripresa, naturalmente con l’aiuto di altri. L’interazione con istituzioni quali il Gabinetto Vissieux, l’Accademia dei Lincei, la Fondazione Cini… determinerà un miglioramento del ruolo e del peso, anche economico, del Centro. Avremo, inoltre, il sostegno dell’Unione Nazionale Scrittori che si è offerta di darci una sede, mettendoci a disposizione personale e strumenti informatici.
D. Ma il nostro intento, venendo qui a Roma a incontrarla, era soprattutto quello di conoscerla meglio come poetessa e animatrice della vita culturale del Paese. Vorremmo dunque partire dal suo testo del 1954 Le acque del sabato che rappresenta un momento giovanile del suo percorso, nel quale vi erano già contatti con Luzi, Sinisgalli, Penna… In che termini ha creduto in questa possibilità di interrelazione personale?
Furono i miei maestri, ora sono diventati i miei amici. Luzi per me è un fratello. Allora lo vedevo in lontananza, evidentemente, come tutti i giovani. L’unico che non volevo conoscere era Montale, per la sua fama di antipatico, misogino, misantropo, egoista, anche se, come autore, era per me un modello. Poi, come ho raccontato tante volte, capitò che, nel 1949, Montale venne a Torino (dove abitavo a quei tempi) per una conferenza a cui decisi di prender parte. Successe, però, una cosa alquanto strana, che doveva decidere l’intero corso della mia vita e anche della sua: al termine, la direttrice dell’Associazione letteraria che aveva organizzato l’incontro comunicò che era stato deciso di presentare a Montale alcuni giovani poeti, io tra questi. Lui salutava in modo distratto, fino a che, sentendo il mio nome, con mia grande sorpresa, affermò che da anni attendeva un mio invito a collaborare alla rivista post-ermetica «Il dardo» che avevo fondato a diciannove anni. Risposi che non avrei mai osato sperare tanto. Dopo un momento di silenzio e di sguardi reciproci, fui presa da un moto di coraggio e gli rivolsi un invito a pranzo per il giorno seguente che lui accettò. La mia era una famiglia estremamente allegra e conosceva la mia passione letteraria per Proust (autore sul quale mi ero laureata) e per Montale, così non appena comunicai che Montale sarebbe stato da noi, mia madre affermò «Meno male che Proust è morto!». Questa frase fu poi motivo di successive divertenti espressioni da parte di Montale che dimostrò spirito e simpatia non comuni. In seguito fui assunta a Milano, dove mi trasferii trovandomi così nella stessa città di Montale che cominciai a vedere quotidianamente. Fu un idillio che durò undici anni. Lui era molto diverso da come me l’avevano descritto, aveva un temperamento allegro e spiritoso. È stato un buon compagno e abbiamo lavorato molto insieme, facendo traduzioni e pubblicando poesie.
D. Come è stato possibile conciliare il rapporto affettivo con le forti motivazioni intellettuali di entrambi?
Non concordo affatto con l’opinione comune, secondo la quale, quando si realizza un legame tra una donna e un poeta, vi sia un influsso di lui nell’attività o nell’opera di lei. Per quanto mi riguarda ero già formata, con idee precise, non ritengo dunque che la mia poesia assomigli a quella di Montale. Indubbiamente, però, c’è stato un grande arricchimento culturale, avendo approfondito con lui la filosofia dell’ultimo Ottocento (la stessa che ha nutrito la sua poesia) studiando autori quali Boutroux, Bergson… Sono stati anni molto belli, anche se poi, come tutte le cose di questo mondo, sono finiti. Mi sono trasferita a Roma e con Montale, che era sempre molto occupato, ci sentivamo per telefono, che definiva «diavolo cancellatore». Fino ad allora, infatti, nonostante ci vedessimo sempre, mi aveva scritto trecentosessanta lettere (che ho successivamente donato al fondo di Maria Corti), poi con il telefono, non ci scrivemmo più e, dunque, non rimane traccia della nostra amicizia successiva, continuata a distanza.
D. Ritornando a Le acque del sabato, come mai ha privilegiato un titolo che sottende un’idea di poesia come contemplazione?
Perché è questo. La poesia svolge un ruolo analogo a quello della preghiera: un momento di solitudine con se stessi, con lo sguardo proiettato oltre la quotidianità, che ha bisogno di un luogo (la chiesa) dove sussiste una delimitazione spazio-temporale rispetto al quotidiano. Con la poesia succede la stessa cosa. La poesia è contemplazione. Anche se ci si riferisce a oggetti concreti, si tende a creare un alone di solitudine intorno alle cose che si stanno guardando. Ma altri miei titoli, Transito con catene (1977) e Geometria del disordine (1981), mantengono caratteristiche identiche.
D. Qual è stato il suo rapporto con l’ambiente parigino di cui è impregnato Utilità della memoria (1966)?
È stato un rapporto di amore folle, che tuttora mi induce a fermarmi in città non appena posso. Il primo impatto, magico e delirante, fu nel 1953. Conoscevo già bene la letteratura francese e avevo letto tutto quanto era possibile. A Parigi ebbi modo, tra l’altro, di incontrare persone molto significative (mentre oggi questa possibilità è molto più ridotta), tra questi il poeta Yves Bonnefoy. Del romanziere Michel Tournier e di Marguerite Yourcenar realizzai traduzioni dei loro libri. E poi incontrare Colette (che sarebbe morta l’anno successivo) era come incontrare il mito. Avevo una vitalità estrema, che mi induceva a muovermi a piedi, desiderando enormemente di scoprire luoghi e cose, la cui essenza di volta in volta incapsulavo e assimilavo. Ritengo che oggi ci sia un’eccessiva distrazione. Le nuove tecnologie, sacrosante del resto, hanno messo in ombra il rapporto personale e il piacere di vedere, osservare, sentir parlare uno scrittore. C’è il ritratto di un’epoca nelle loro esistenze. Ad esempio la mia vita, a partire dagli anni Venti quando sono nata, ha visto un passaggio di civiltà, che implica una enorme differenza di abitudini con le generazioni dei miei genitori e dei nonni (mio padre si ricorda che da ragazzo, per leggere Balzac, gli venivano concesse due candele a sera). Si tratta della stessa, abissale differenza tra noi e i nostri nipoti, che rischia di rendere incomprensibile il passato, se non attraverso i libri.
D. È forte l’impatto di elementi panici e biografici ne L’occhio del ciclone (1970)…
Anche in questo libro ricorrono elementi analoghi a quelli de Le acque del sabato. Intorno al centro del ciclone, infatti, c’è quel vuoto di cui parlava anche Simone Weil quando esortava a far in modo di delimitare sempre, nella giornata di ciascuno, un momento di vuoto, per realizzare una sorta di antica igiene mentale. L’occhio del ciclone rappresenta un momento di bonaccia e di calma assoluta, mentre all’esterno infuria la tempesta.
D. In questo testo vi è compresenza di prosa e poesia. Come mai questa scelta stilistica?
Direi che si tratta sostanzialmente di poesia. Infatti il poemetto in prosa è poesia, possedendo dei ritmi interni propri. Non vi è stata una ragione precisa, ma è semplicemente capitato. Nel testo ho fatto riferimento ad alcune situazioni reali vissute e all’atmosfera magica della Sicilia: ad esempio la pompa dell’acqua che strideva aveva prodotto in me la sensazione di udire il lamento di uccelli prigionieri. La genesi de Gli uccelli, che molte antologie amano riproporre e che è stato tradotto più volte anche all’estero, è stata occasione per me di evocare la mitologia, preistorica e magica, della terra siciliana. Sono poi passata ai racconti: il mio unico libro di questo genere è La freccia, pubblicato da Marsilio tre anni fa. Sono molto legata a questo testo perché, nonostante vi siano argomenti tipicamente prosastici ed emerga l’azione dei personaggi, si percepisce, a mio avviso, un approccio testuale tipicamente poetico.
D. Quale ritiene essere oggi lo “stato di salute” della poesia italiana?
Questo è un discorso disperatamente difficile. Nel ruolo di Presidente del Montale (quale continuo a sentirmi), desidererei ricevere, dai giovani, più emozioni di quelle che attualmente ricevo. Indubbiamente ci sono dei buoni poeti, ma manca l’espressione di ciò che, una volta, si definiva “un’anima”, che si sveli, si riveli, aggredisca il mondo, compiendo qualcosa di forte. I nostri poeti sono in gran parte minimalisti, raccontano cioè delle piccole cose; sovente sono spiritosi. Stimo molto i poeti come Zeichen. Quello che mi aspetto sempre che accada, però, è l’esplicitazione di qualcosa che cambi il corso dell’esistenza... e in grado di riunire, in una formula di parole, un messaggio vero che non sia solo letterario. In questo senso, oggi, di poeti ne vedo pochi, non solo in Italia, ma anche in Francia, Inghilterra… Il tasto epico, in grado di permettere di oltrepassare gli stretti limiti della nostra biografia, è molto raro. Ritengo che il racconto di alcuni drammi vissuti in natura, espressi in modo così efficace da Montale ne L’anguilla, diventino un messaggio cosmico che, abbandonato il linguaggio ottocentesco, riescono a impersonare, anche se in modo indiretto, emozioni e sofferenze umane.
D. Quale il senso, nel pensare poetico, di una rivisitazione di elementi o di un loro ricorrente ritorno?
Può darsi che i poeti dicano sempre la stessa cosa, cantando se stessi, utilizzando vari travestimenti e metamorfosi. Certo molte cose vengono riprese, anche i paesaggi: scrivendo in America possono emergere, ad esempio, elementi completamente estranei all’ambiente in cui il poeta in quel momento si trova, come il ricordo dell’olmo nell’astigiano…
D. Ma il riferimento era alla “parola chiave”, cioè alla parola che ritorna quasi come voce della memoria…
La memoria è la parola chiave, in quanto, benchè ogni poesia non possa che ricollegarsi a un tessuto precedente, se non avessimo memoria saremmo come neonati privi della percezione del passato. La memoria, invece, ci consente di preventivare l’avvenire. E, se parliamo dell’avvenire, non possiamo che farlo in termini di memoria. Inoltre il presente non esiste in quanto, immediatamente, diventa memoria.
D. Alla luce della definizione di Lukas secondo cui «nel capitalismo evoluto la sorte inevitabile che tocca al poeta di talento è il fallimento», quale ritiene essere oggi la sua posizione nella società civile?
Si tratta di una vecchia questione, per esplicitare la quale, in un’epoca in cui si è “bombardati” e ossessionati dalle parole, divenute una sorta di cartamoneta che subisce l’inflazione generale, utilizzo l’immagine del lingotto d’oro, che, viceversa, non varia. La poesia per me è il lingotto d’oro: rappresenta la possibilità della verità detta in una forma non intercambiabile e della concentrazione di tutti i significati. La poesia è inamovibile e funge da garanzia della società civile.
D. Però la società stenta a riconoscere pienamente la funzione dell’intellettuale, che talvolta occupa una posizione defilata…
Non viene tanto emarginato in quanto intellettuale, perché un grande politico o uno scienziato sono anche intellettuali. Pensi a ciò che ha scritto Einstein, per cui tutto era poesia, realizzando un incredibile binomio scienza-poesia. Dunque, se per un verso la società non si accorge di loro, dall’altro dubita di perdere qualcosa. Esiste un complesso di inferiorità, che si esplica facendo dell’ironia sui poeti, come già Manzoni aveva sottolineato, quando a Renzo, che aveva affermato «son poeta anch’io», viene concesso una sorta di perdono per la sua presunta “gagliardaggine”. Quando il poeta, però, per qualche motivo, assume un ruolo maggiormente pubblico, come è recentemente capitato a me lo scorso 2 giugno in occasione del conferimento da parte del Presidente dell’alta onorificenza di Cavaliere di Gran Croce, si diventa oggetto di un incremento dell’interesse da parte di persone che, magari, non hanno eccessiva dimestichezza con il nostro panorama letterario…
D. A questo proposito, cosa ne pensa della carente preparazione su aspetti della cultura italiana?
Io ho un “vizio segreto” che consiste nel seguire ogni sera i quiz televisivi. Mi diverto molto, anche se osservo che le persone ignorano cose per me molto ovvie, quali il nome dell’autore del Gattopardo o del “gran poeta della Liguria”…
D. Conosciamo la sua “passione” per Giovanna d’Arco, un personaggio che ha ispirato l’opera omonima (1990), in cui lei utilizza l’ottava, strofa tipica del poema cavalleresco…
Mi sono “innamorata” del personaggio di Giovanna d’Arco dodicenne, ma sono passati circa quarantacinque anni prima di scriverne. Nonostante continuassi a pensarci e avessi “carta bianca” circa il tipo di testo (opera teatrale, romanzo, libro di storia, poesie) non mi “usciva” nulla. Alberto Mondadori la chiamava la mia «gravidanza isterica» perché, diceva, «ti si gonfia la pancia, ma il bambino dentro non c’è». Poi, improvvisamente, in trentacinque giorni… una valanga. Ho scritto senza sapere fossero ottave. È stata la mia segretaria che, ribattendo a macchina il testo, si è accorta dello stacco netto ogni otto versi. Fu dunque una scelta involontaria; l’accumulo di contenuti, riflessioni… nel subconscio diede i suoi frutti senza che ci mettessi una volontà particolare. Sono convinta che tra una cinquantina d’anni si scoprirà che si tratta, in realtà, di un libro di storia, che si propone di svelare il segreto di Giovanna d’ Arco, anche se non può essere preso sul serio perché è scritto in forma di poema.
D. Dunque metterà in crisi gli storici…
Ritengo che, a distanza di cinquecento anni, siano molti i misteri insoluti nella storia di quella fanciulla sedicenne, che, priva di cultura, aiuti, possibilità di parlare francese… è stata in grado di rivoluzionare l’Europa nel giro di poco più di due anni. Vi sono, a mio avviso, troppe cose che non quadrano o che appaiono inaccettabili per chi abbia una visione laica. Come poteva guidare un esercito, sfamarlo, rifornirlo di armi, facendosi accettare dagli alti gradi militari? E, soprattutto, come è riuscita a vincere senza cognizioni di tattica, strategia, logistica? Nel testo si dà una chiave per cercare di comprendere il mistero.
D. Un invito dunque a leggere un testo a lei particolarmente caro…
Sì, il testo che mi è più caro è la Giovanna d’Arco, che, tuttavia, non volevo nemmeno pubblicare… La mia poesia è sempre stata definita di tono alto, lirica… Ma di questo personaggio io non potevo fare una dama che parla forbito, in quanto era una contadina analfabeta. Era necessario tradurre in versi il suo modo di pensare e di parlare, come ho fatto, ad esempio, a proposito del desiderio di Giovanna di continuare a combattere per liberare tutto il suolo francese dagli inglesi (dopo la conquista di Orléans), in contrasto con la volontà del re (che contava di pagare i debiti contratti attraverso le tasse) di interrompere la battaglia. Lei allora afferma «anche una mucca è opera di Dio, non si riduce al latte che dà».
D. I fasti dell’ortica (1996) comprende argomenti molto diversi (musica, politica, ricordi di viaggio…). Quale conciliazione tra impegno politico e sociale?
Noi poeti viviamo nel mondo, non essendo né eremiti, né asceti. Ci addoloriamo per fatti di cronaca violenta, ci preoccupiamo se non si riesce ad acchiappare Bin Laden. È evidente che ciò finisca in poesia. Si tratta di distinguere però la poesia dal giornalismo ritmato. Storicamente gli esempi sono innumerevoli, avendo avuto un Majakovskij, Dante… Viene spontaneo riferirsi a ciò che colpisce il poeta. Nella mia poesia ho trattato molti aspetti della società: dall’assassinio di Moro a Tangentopoli… Quest’ultimo momento l’ho esplicitato in una poesia che riconduce a una frase di Santa Teresa d’Avila: «mi domando da tempo se il denaro sia di natura materiale o spirituale». Questa riflessione si rifaceva a una situazione in cui Teresa aveva urgentissimo bisogno di denaro per le suore che morivano di denutrizione e di tubercolosi e per pagare gli operai che avevano costruito il convento. Lei aspettava i fratelli che, al rientro dei loro viaggi, le portavano alcuni pezzi d’oro con cui poteva far fronte alle spese, sentendo una valenza spirituale del denaro, accettato non per sé ma per realizzare progetti costruttivi per gli altri.
D. Può farci qualche anticipazione sulle sue prossime uscite editoriali?
Sto per pubblicare un libro sulla poetessa Marceline Desbordes-Valmore a cura dell’editore Gallino di Milano. Fu un’esponente di spicco di tutta la letteratura francese, e non solo, dell’Ottocento, anche se venne sempre messa in secondo piano a causa della sua condizione femminile. Ispirò Hugo, Rimbaud, Verlaine, Mallarmé. Inventò il verso dispari e quello libero, nonchè le sinestesie, poi riprese da Pascoli. È un esempio di poesia altamente lirica, ma ci sono anche testi sui primi scioperi di Digione e sull’uccisione di alcuni cittadini da parte della polizia. Il libro, che uscirà a Natale, conterrà una lunga prefazione e la traduzione della sua poesia.
D. Come è nato l’amore per la letteratura e la lingua francese di cui, a più riprese, ha fatto cenno?
Semplicemente, a scuola, ho cominciato a scoprire alcuni romanzetti francesi. Avendo già letto di Giovanna d’Arco, mi incuriosiva sapere cosa ne dicessero in Francia. Così chiesi che mi inviassero dei testi, anche se ricevetti dei libretti superficiali. La mia cultura francese è nata in giovane età, con la lettura dei libri sull’eroina di Orléans, ed è stata agevolata dal fatto che ai tempi della mia infanzia la lingua francese era più importante di quella inglese. Più tardi mi sono specializzata in francese (questa predilezione si è poi trasformata in attività professionale sia nell’insegnamento universitario sia come traduttrice, ndr).
D. Ha qualche altro progetto per il prossimo futuro?
Mi piacerebbe pubblicare un libro di aforismi, anche se ne ho già dati alle stampe, nel testo Aforistica del Novecento, pubblicato a suo tempo da Mondadori. Mi piace moltissimo l’aforisma in quanto è un concentrato, a volte esplosivo, di poesia, di intelligenza, di critica, ed esprime una verità paradossale. Ma è necessario individuare una formula convincente, alternando altri generi letterari.
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Postato il Mercoledì, 02 gennaio 2008 ore 16:35:02 CET di Maria Allo
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