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Umanistiche: LA LETTERATURA ITALIANA TRA IMPEGNO E CONTESTAZIONE

Rassegna stampa

La letteratura italiana tra impegno e contestazione (1944-1967)

di Mauro Novelli*

 

 

Tra la fine della guerra e il maggio francese, nella letteratura italiana sfilarono diverse modalità di contestazione dello status quo politico e sociale: dalle impegnate denunce del Neorealismo ai romanzi dell'alienazione, che segnarono gli anni del boom; sino ad arrivare alle negazioni radicali propugnate dalla Neoavanguardia, con il Gruppo 63.

La stagione del Neorealismo

Negli anni della Ricostruzione, mentre in sede politica la Democrazia Cristiana andava consolidando il potere che avrebbe mantenuto per tutta la Prima Repubblica, gli indirizzi culturali legati alle teorie marxiste acquisirono in Italia un'importanza di primo piano, giungendo ad assumere una funzione egemonica. Proprio sull'egemonia, come pure sui concetti di intellettuale organico e di arte nazionalpopolare, aveva ragionato Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, avidamente compulsati nel dopoguerra, quando poterono vedere la luce per i tipi di Einaudi. Non a caso, Le ceneri di Gramsci (1957) è il titolo di una delle più importanti opere di Pier Paolo Pasolini.

Dalle riflessioni gramsciane trasse linfa anche il Neorealismo, uno dei pochi 'ismi' del XX secolo guidati da istanze democratiche, dal desiderio di radunare il maggior numero possibile di lettori attorno ad alcuni ideali condivisi, senza disdegnare il ricorso al pathos. Più che di un movimento vero e proprio, si trattò di una fase, nella quale – come notò Italo Calvino – esplose spontaneamente la smania di raccontare e raccontarsi, all'indomani di un'esperienza tragica che aveva coinvolto tutti. Si ebbe allora finalmente la libertà di stampare storie in grado di far luce su realtà incrostate di ingiustizie e sofferenze – fossero esse scomparse, perduranti o affatto nuove. Furono gli anni dell'engagement, delle denunce, del populismo, che pervadono romanzi di intatta freschezza, come Cronache di poveri amanti (1947), di Vasco Pratolini.

In questo quadro, due ambiti tematici appaiono decisivi: la lotta di Liberazione dal nazifascismo e le condizioni disgraziate delle plebi, specie meridionali. Dovendo poi indicare dei testi di riferimento, che inaugurarono la stagione in esame, la scelta cadrebbe su Uomini e no (1944), di Elio Vittorini, e Cristo si è fermato a Eboli (1945), di Carlo Levi. Nella loro scia si accese una galassia di opere molto significative, in cui presto iniziarono a farsi strada contestazioni e accuse a uno status quo deludente, di fronte a una Repubblica che non riusciva a inverare gli ideali scaturiti dalla Resistenza. Le parrocchie di Regalpetra (1956), di Leonardo Sciascia, da questo punto di vista rappresenta uno snodo fondamentale, per il vigore con cui è messa in scena l'arroganza dei poteri privati, insieme alla sfibrante latitanza dello Stato. Tutto ciò, in una Sicilia intesa come metafora di una "continua sconfitta della ragione", amaramente constatata da un maestro di scuola, mosso dai medesimi ideali illuministi sciorinati da Calvino nel Barone rampante (1957), ma restio a rifugiarsi in cima a un albero.

Boom e alienazione

Per cogliere l'alba di una nuova stagione, occorre rivolgersi di nuovo alle prime opere di Sciascia: prima ancora che a Il giorno della civetta (1961) – celebre apologo in forma di giallo su mafia, omertà e storture del potere – a un racconto memorabile come La morte di Stalin (compreso in Gli zii di Sicilia, 1958), che ritrae lo spaesamento di un ciabattino comunista dinanzi alla morte e alla smitizzazione del leader sovietico. È curioso come si debba a un suo collega settentrionale, Il calzolaio di Vigevano (1959) immaginato da Lucio Mastronardi, l'irruzione in letteratura del tumultuoso, disordinato sviluppo economico che nel giro di pochi anni – con un picco tra il 1957 e il 1962 – mutò tanto il volto della penisola quanto le mentalità dei suoi abitanti, come ben si vede negli altri capitoli della trilogia, Il maestro di Vigevano (1962) e Il meridionale di Vigevano (1964). Le difficoltà degli immigrati e il disagio dei ceti intellettuali di fronte ai nuovi costumi dilagati negli anni del boom si trovano idealmente riuniti nel capolavoro di Luciano Bianciardi, La vita agra (1962).

Presero piede in quel periodo nuove problematiche, ruotanti intorno ai concetti di alienazione e incomunicabilità, a partire dai quali Paolo Volponi costruì il romanzo Memoriale (1962) ed Elio Pagliarani il poemetto La ragazza Carla (1962), incentrato sulle vicende di una dattilografa, "all'ombra del Duomo". Proprio a Milano operavano allora diversi autori che svilupparono in poesia una lucida critica della realtà sociale coeva, come Vittorio Sereni (Gli strumenti umani, 1965), Franco Fortini (Una volta per sempre, 1963) e Giovanni Giudici, che in La vita in versi (1965) creò uno "stilismo dell'usuale" magistralmente atto a cogliere le dinamiche esistenziali di un anonimo impiegato, schiacciato dalla modernità urbana.

Pasolini e la Neoavanguardia

Nei primi anni Sessanta molti intellettuali, tra i quali Pier Paolo Pasolini (che nel decennio precedente aveva scandalizzato i benpensanti con due crudi romanzi sulle borgate romane) maturarono una critica radicale nei confronti della modernizzazione, deprecando lo scarto tra progresso economico e civile. Pasolini mostrava particolare sgomento nei confronti di una nefasta "omologazione", che a suo dire non avrebbe risparmiato neppure la lingua. Tutt'altre erano le prospettive di Calvino, deciso a lanciare la "sfida al labirinto" della contemporaneità, anche attraverso la rivista da lui diretta insieme a Elio Vittorini, "Il Menabò" (1959-1967), che propose numeri monografici sulle maggiori questioni allora sul tappeto, come il destino dei dialetti, o il rapporto tra industria e letteratura.

Nell'ambito di un'altra rivista, "Il Verri" (1956- ), molto attenta ai fermenti culturali provenienti dall'estero, nacque nel 1961 l'antologia poetica I Novissimi, manifesto di quella Neoavanguardia che si riunì poi nell'agguerrito Gruppo 63. I suoi esponenti (tra i quali si ricordi almeno Edoardo Sanguineti), nell'intento di demistificare i valori fondanti la società neocapitalistica, scatenarono una battaglia a tutto campo contro le presunte forme di "neocrepuscolarismo" (individuato, ad esempio, nella narrativa di Cassola), arrivando a propugnare la manipolazione del linguaggio e la disarticolazione programmatica dei significati, per sottrarre alla letteratura ogni potenziale valenza di merce.

*Docente di Letteratura italiana contemporanea presso l'Università degli Studi di Milano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 









Postato il Lunedì, 24 dicembre 2007 ore 15:41:30 CET di Salvina Torrisi
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