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INVALSI: LA SCUOLA AFFONDA. IN SILENZIO.

Opinioni
Unità: La scuola affonda. In silenzio

 Marina Boscaino
 Ci risiamo: ogni tre anni il cahier de doléance relativo alla scuola italiana ha un nome preciso. Si chiama rapporto Ocse Pisa (Programme for International Student Assessment): un monitoraggio delle competenze dei quindicenni scolarizzati nei 30 Paesi Ocse, con l’aggiunta di ulteriori 27 Paesi. Dal 2000 ad oggi, ogni tre anni, vengono pubblicati risultati generali e specifici su determinate competenze: quelli presentati ieri a Parigi riguardano in particolare l’area della scienze, nell’ambito delle quali l’Italia passa dal ventisettesimo al trentaseiesimo posto. Ma l’aggiornamento delle competenze di matematica - al centro dell’indagine del 2003 - vede la scuola italiana permanere nelle parti basse della classifica. Peggiorano notevolmente le competenze nell’area della lettura (oggetto privilegiato nel 2000): da quell’anno a oggi la percentuale degli studenti scesi sotto il livello 1 - il più basso - è cresciuta di 6 punti. La scuola italiana - ancora una volta - in prima pagina; e non per celebrarne la qualità. Basta sfogliare i quotidiani di ieri per rendersi conto del catastrofismo dei titoli. Fermo restando che le criticità del nostro sistema di istruzione non le scopriamo oggi, l’impressione diffusa è che - nonostante le reiterate diagnosi negative - la sottomissione all’indagine Ocse Pisa rappresenti più un obbligato rituale di harakiri che una indicazione da cui partire per prendere meglio la mira. Sembra quasi la doverosa messinscena di un rito espiatorio, assolto il quale nulla cambia; se non una stima sociale sempre più bassa nei confronti della scuola.
 Il nostro è un Paese davvero strano: in assenza, per il momento, di un sistema e di un istituto di valutazione nazionale degno di questo nome (l’Invalsi ha realizzato prove che non hanno convinto né la scuola né la ricerca) nell’omologazione a modelli estranei in parte alla nostra cultura e alla visione economicista e globalizzata che ci caratterizza, affidiamo auspici (e fondi notevolissimi) all’Ocse (pur nella sua riconoscibilità e autorevolezza), attribuendogli fideisticamente una funzione profetica degna di una novella Sibilla cumana. E non sforzandoci di andare oltre ciò che quei dati e quei parametri - peraltro individuati sulla e dalla tradizione anglosassone, profondamente differente da quella che caratterizza il fare scuola nel nostro Paese - ci suggeriscono. Il nostro Paese è strano anche perché un intellettuale come Benedetto Vertecchi - professore di pedagogia sperimentale all’Università Roma Tre e uno dei massimi esperti di valutazione a livello internazionale, costretto ai tempi della Moratti a dimettersi da presidente dell’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione - continua da anni ad indicarci alcune strade che, stelle polari per gli insegnanti democratici, rimangono totalmente inascoltate da chi ha la responsabilità politica e amministrativa della scuola pubblica italiana. Un vero peccato. Ciò da cui Vertecchi ha sempre messo in guardia è l’estrema complessità dell’effettuare prove attendibili sul piano delle competenze alfabetiche, considerata anche l’eterogeneità dei linguaggi che il mondo propone alla scuola e le differenti potenziali pratiche di decodificazione. In secondo luogo, ha insistito sulla significatività di una comparazione di dati diacronici relativamente a un singolo luogo e non della comparazione di dati sincronici tra luoghi diversi (che sono socialmente, culturalmente, economicamente determinati); sulla necessità, poi, di individuare nuovi paradigmi epistemologici e interpretativi per rispondere alla complessità del mondo e dei messaggi da esso proposti; sull’importanza di una maggiore permanenza nella scuola, un argomento che soprattutto in tempi di innalzamento dell’obbligo di istruzione potrebbe fornire soluzioni decisive.
 Infine, il riconoscimento dello statuto di intellettuali e ricercatori che i docenti da anni - per responsabilità proprie e politiche - si vedono negato. Di un investimento sulla qualità degli insegnanti (e sul riconoscimento anche economico della loro professionalità) parla anche Maria Teresa Siniscalco, curatrice della precedente ricerca Pisa e coautrice di «Le valutazioni internazionali e la scuola italiana», recentemente edito da Zanichelli.
 Come i dati di per sé non servono a nulla - se da essi non si traggono conseguenze in termini di ricerca di soluzioni - così la parola “investimento” - che pure sorge spontanea davanti alla constatazione della debacle - non ha senso se gli investimenti non vengono dirottati verso specifiche finalità e verso la possibilità, da parte della scuola, di fornire risposte convincenti alla complessità: ne sono la prova i flop di Paesi come gli Stati Uniti e l’Inghilterra che, a fronte di aumenti di budget non finalizzati, non hanno ottenuto cambiamenti apprezzabili in termini di qualità del sistema dell’istruzione; cambiamenti che si sono puntualmente realizzati là dove le risorse sono state destinate alla qualità dell’insegnamento. E ne sono prova nel nostro Paese i consistenti Fondi strutturali dell’Unione Europea che foraggiano i “PON” (Programmi Operativi Nazionali) destinati alle scuole di alcune regioni del Mezzogiorno e che - nonostante l’erogazione copiosa - stentano a produrre effetti apprezzabili perché mal finalizzati, soprattutto nell’ambito della lotta alla dispersione.
In conclusione: sarebbe bello poter pensare che - dopo i titoloni che occupano lo spazio di una giornata, i mea culpa e gli atti di accusa dei nudi e puri - le evidenze del rapporto Ocse Pisa possano servire (oltre che a fornire nuovi spunti per la relazione di Mario Draghi a giugno) anche a prendere le misure rispetto a ciò di cui la scuola ha oggi realmente bisogno. Comprendendo finalmente, come ha scritto Vertecchi, che «invece di tendere al ribasso per assicurare improbabili livelli minimi, si dovrebbe procedere al rialzo, alzando il livello dell’assicella che funge da criterio, con l’effetto di orientare l’attività delle scuole al raggiungimento del traguardo indicato. Alle difficoltà della parte degli allievi che si caratterizza per condizioni sociali o cognitive meno favorevoli occorre trovare soluzioni specifiche, che non comportino l’abbassamento della soglia attesa».





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Postato il Venerdì, 07 dicembre 2007 ore 00:05:00 CET di Silvana La Porta
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