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Umanistiche: L'INDAGINE SULLA MORTE NELLA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

Rassegna stampa

 

 

L'indagine sulla morte nella filosofia del Novecento
di Federico Pastore*

 

 

 

 

Negli ultimi due o tre decenni del secolo scorso l’idea della morte nei paesi ad alto sviluppo industriale è stata largamente rimossa: la crescita generalizzata del livello di vita e le scoperte della medicina hanno prodotto un aumento dell’aspettativa di vita del singolo, riducendo drasticamente, nello stesso tempo, l’esperienza diretta della morte come avvenimento di cui noi siamo testimoni. D’altro canto l’immagine dell’uomo moderno, nel fiore dell’età, nel pieno del vigore fisico e della bellezza, diffusa dai media, hanno confinato la malattia e la morte in uno spazio molto marginale, di cui in una certa misura bisogna vergognarsi.

Diversità di approcci all'evento: rimuovere o riflettere?
La morte, per questa strada, non solo si caratterizza esclusivamente come 'morte dell’altro', nel senso che la 'mia' morte non è un evento contemplato o contemplabile nell’universo in cui vivo; ma la stessa parola 'morte' diventa qualcosa di sconveniente e che è opportuno sostituire con perifrasi: semplicemente non esiste più, al punto che può addirittura essere 'sospesa', in attesa che la scienza metta a disposizione strumenti per sconfiggerla definitivamente.
Prima, e accanto a questa rimozione, che è stata studiata da parte di filosofi e di storici soprattutto di scuola francese, in parte influenzati dall’antropologia (come, per esempio, Edgar Morin, Philippe Ariès, Jean Baudrillard, per citarne solo alcuni), il Novecento ha indagato a lungo e in maniera approfondita il tema della morte. Indagine che indubbiamente ha ricevuto un forte impulso dalla traumatica esperienza della Prima guerra mondiale e che ha finito per coinvolgere autori anche molto diversi tra loro, fino all’elaborazione di una visione tragica della storia, che fissa il suo momento escatologico nella fine della civiltà occidentale, dal Disagio della civiltà di Freud al Tramonto dell’Occidente di Spengler a Gli ultimi giorni dell’umanità di Kraus, in un modo sostanzialmente non dissimile all'attesa escatologica della 'fine del mondo' che permeò di sé gran parte del Rinascimento.

Kierkegaard: l'aporia della condizione umana
La speculazione sul concetto di morte nel Novecento raccoglie e rielabora l’eredità di Kierkegaard, che proprio alla vigilia della Prima guerra mondiale comincerà a essere letto e apprezzato. In Kierkegaard non c’è alcuna concezione oggettivizzata della morte (come per esempio era presente in Hegel, per il quale la morte dell’individuo è sempre e comunque inscritta all’interno del processo del genere in cui l’individuo si trova collocato), perché il suo interesse è di tipo esistenziale: al filosofo danese interessa analizzare il percorso attraverso il quale il singolo, 'gettato' nel mondo dallo 'scacco ontologico' costituito dalla nascita, realizza la propria autenticità attraverso l’infinito ventaglio di possibilità che appunto la sua condizione di essere gettato nel mondo gli offre. La morte, per Kierkegaard, non è concettualizzabile: è un evento singolo, individuale, è qualcosa che riguarda me e soltanto me e, in quanto tale, è inconcepibile e irrapresentabile. L’ineluttabilità della morte e, contemporaneamente, l’inconoscibilità del momento in cui essa giungerà, fa sì che il pensiero di essa debba essere sempre presente in qualsiasi cosa che facciamo: la morte rappresenta il limite, l’aporia della nostra condizione umana e, allo stesso tempo, l’orizzonte di senso nel quale sfugge alla disperazione e si pone come momento di passaggio, carico di speranza, verso l’annullamento in Dio.

Heidegger: la possibilità dell'impossibilità dell'esistenza
Ora, non c’è dubbio che l’elaborazione più completa ed esaustiva in tutto il Novecento del concetto di morte sia quella condotta da Martin Heidegger nel celeberrimo primo capitolo della seconda sezione di Essere e tempo. Proprio qui Heidegger inscrive immediatamente la morte nella dimensione dell’esistenza, dell’esserci: la morte è 'un’esperienza della vita' e, d’altro canto, l’esserci dell’essere dell’uomo è un essere-per-la-morte. Nella sua Analitica esistenziale Heidegger individua due modalità dell’esistenza, la modalità autentica e quella inautentica. La modalità autentica è quella che riconosce la morte come la possibilità radicale della propria esistenza: nella sua condizione di essere nel mondo, l’uomo progetta se stesso, e, proprio progettandosi, si pone di fronte al nulla. In questa dimensione la morte rappresenta per l’esserci la sua possibilità più radicale, la possibilità di non esserci più: in quanto esistente l’esserci è gettato in questa possibilità e in questo senso l’uomo progetta la sua morte come possibilità più propria e autentica del suo esserci. In questo progetto l’uomo scopre la dimensione emotiva dell’angoscia come rapporto di fronte al poter essere più proprio dell’esserci, cioè alla morte. Questa angoscia non va confusa con la paura della morte, che invece appartiene alla modalità inautentica della vita: nella dimensione inautentica, caratterizzata dal 'si' impersonale, il 'si muore' allude a un avvenimento che capita continuamente e a cui nessuno può sfuggire e che, in quanto colto anonimamente, esclude il riconoscimento di se stessi come assoluta progettualità: non genera angoscia, genera soltanto paura del decesso, inteso come interruzione inopinata dell’ininterrotto fluire della quotidianità. Il 'si' impersonale e anonimo dell’inautentico copre la progettualità della morte come possibilità più reale e più propria dell’essere dell’esserci.
Su questa base il Novecento, come si diceva precedentemente, svilupperà un’attenta riflessione sulla morte, che prenderà senz’altro le mosse dall’elaborazione heideggeriana, attraverso anche un recupero del pensiero espresso all’inizio del secolo da Georg Simmel: Helmut Plessner, Paul L. Landsberg, Vladimir Jankélévitch, Jacques Derrida, per citarne solo alcuni, saranno i filosofi che riprenderanno il tema della morte, giungendo spesso a elaborazioni estremamente originali e significative e riproponendo sempre il suo carattere di dimensione dalla quale l’essere vivente non può prescindere e che, già con la sua presenza in quanto momento ineluttabile, condiziona il nostro modo di essere vivi.

*Insegna Storia della filosofia alla Facoltà di Scienze della formazione dell'Università di Genova. Tra le ultime pubblicazioni: Saggio di teoria dell'ideologia (Patron, 1994), La fabbrica delle streghe (Campanotto, 1997), La paura e la morte nel Rinascimento, in Homo moriens. Ermeneutica della morte da Omero a oggi (Pellegrini, 2006).

 

 

 

 

 









Postato il Domenica, 11 novembre 2007 ore 15:28:36 CET di Salvina Torrisi
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