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Umanistiche: L'INFLUENZA DELLA CULTURA ARABA SUL MONDO LATINO MEDIEVALE

Rassegna stampa

L’influenza della cultura araba sul mondo latino medievale
di Benedetto Ippolito*

 

 

 

 

 

 

 

Tutti i percorsi filosofici dell’alto medioevo sono stati caratterizzati in modo profondo dalla scarsità delle fonti e dalla perdita di contatto con i testi classici dell’antichità. La conservazione della cultura per molti secoli è stata esclusivamente affidata ai monasteri e all’opera di evangelizzazione dei grandi missionari, con una riduzione dei rapporti con i testi classici a pochi riferimenti fondamentali.
In tal senso, si deve ricordare l’influenza enorme avuta dall’opera di Anicio Manlio Severino Boezio (480-524). Egli, infatti, grazie ai viaggi ad Atene e ad Alessandria, ha potuto commentare e tradurre l’Organon di Aristotele, lasciando un’impronta indelebile nella cultura latina di tutto il primo millennio. I suoi Commentari alle Categorie e al De interpretatione, uniti al fortunato opuscolo introduttivo di Porfirio alla logica aristotelica noto come Isagoge, attraversano l’intero specchio del medioevo, giungendo fino alle soglie della modernità.
Nel passaggio attraverso la grande stagione monastica e la successiva rinascita carolingia non assistiamo ad arricchimenti eccezionali nell’uso delle fonti, a esclusione dell’opera di traduzione e di elaborazione speculativa compiuta da Giovanni Scoto Eriugena nel IX secolo. Al suo lavoro si deve l’acquisizione di alcuni importanti contributi della Patristica greca, come, ad esempio, la traduzione del Corpus delle opere di Dionigi Areopagita.

La ricchezza delle fonti arabe
Una nuova riscoperta delle fonti classiche è avvenuta realmente soltanto per mezzo delle fonti arabe, che hanno veicolato in Occidente buona parte della cultura greca.
Questo incontro diretto con i classici dell’antichità non avviene però in Occidente prima del XII secolo. A partire da allora e progressivamente per circa due secoli, ci troviamo di fronte ad un insieme di influenze che possono essere definite come l’“eredità greco-araba”.
La presenza dell’Islam nella penisola iberica e in tutto il nord Africa ha di fatto messo sempre più facilmente a disposizione del mondo latino questo insieme di fonti provenienti dall’Oriente.
La prima presenza in lingua latina è rinvenibile in alcune traduzioni di opere scientifiche e mediche realizzate da Adelardo di Bath intorno agli anni Quaranta del 1100. La sempre maggiore disponibilità di testi in lingua araba si è accompagnata ad una crescita di importanza della figura culturale dei traduttori, ai quali, in larga parte, si deve questa rapida diffusione.
La vera svolta, in questo senso, si è avuta nella seconda metà del XII secolo con l’organico lavoro di traduzione compiuto a Toledo per volontà politica del vescovo Raimondo di Sauvetat.

Il primo incontro con l’eredità greco-araba
La più eminente figura toledana di traduttore arabo è stato certamente Gerardo da Cremona.
Giunto a Toledo intorno agli anni Sessanta del XII secolo, egli ha compiuto una prima grande parafrasi dall’arabo in latino. Importante è la sua traduzione della Fisica di Aristotele e del Libro delle cause, anch’esso attribuito erroneamente allo Stagirita almeno fino alla metà del XIII secolo, risalente invece a Proclo. Inoltre, Gerardo ha riportato in latino alcune opere di Alessandro di Afrodisia, di Al-Kindi e di Al-Farabi.
Particolarmente importante, inoltre, è stato il lavoro di traduzione fatto tra Bizanzio e la Sicilia da Giacomo Veneto, a cui dobbiamo la conoscenza degli Analitici e della prima parte della Metafisica di Aristotele (traslatio vetus).


La traduzione delle fonti platoniche  e aristoteliche in Occidente
L’accoglienza della filosofia platonica nel mondo occidentale, come è noto, è un fenomeno che si verifica all’inizio della modernità. Nel XV secolo abbiamo in successione la traduzione dal greco di tutti i Dialoghi di Platone, a opera prima di Leonardo Bruni, poi di Marsilio Ficino.
La conoscenza diretta di Platone nel medioevo si è dovuta limitare ad alcune parti del Timeo, del Menone e del Fedone. Per contro, la fonti neoplatoniche sono più saldamente presenti già nell’alto medioevo, grazie anche all’elaborata ricezione fatta in lingua latina dai Padri della Chiesa.
Il contributo decisivo alla diffusione del platonismo è venuto certamente dall’espansione latina della filosofia araba di Avicenna. L’insieme delle opere del filosofo di Afshana, unite a quelle di altri pensatori importanti come Gundissalino, rappresenta una fortunata sintesi tra una cosmologia di tipo neoplatonico e la Fisica di Aristotele. La vicinanza del suo pensiero con molte conclusioni teologiche di Agostino, nonché la prossimità a Dionigi Areopagita e a Scoto Eriugena, hanno determinato un rapido successo e un’enorme diffusione della filosofia di Avicenna.
Altrettanto fondamentale è stato il contributo arabo alla diffusione sistematica del pensiero di Aristotele. Il cosiddetto Aristoteles latinus, infatti, è indissociabile dai contributi interpretativi provenienti dalla lettura fatta all’interno della cultura islamica occidentale. È molto importante, però, per chiarire il reale valore di questa influenza, rendersi conto dell’apporto originale proveniente dagli stessi traduttori latini.
Come abbiamo accennato inizialmente, grazie a Boezio, si era conservata solo una minima e, proprio per questo, preziosa presenza delle opere dello Stagirita nella filosofia occidentale. Alla fine del XII secolo assistiamo alla riscoperta di alcune antiche traduzioni boeziane, come quella degli Analitici primi, dei Topici e delle Confutazioni sofistiche. A queste, poi, si è progressivamente aggiunta tutta la nuova ondata di traduzioni arabo-latine, recentemente ricostruite nel loro sviluppo storico-cronologico.
Questa ondata di nuove traduzioni di Aristotele integrano e completano le precedenti, aggiungendone delle altre elaborate direttamente dal greco.
Particolarmente rilevante in questo complesso sviluppo è stata la traduzione dall’arabo di Gerardo da Cremona degli Analitici secondi, certamente successiva a quella di Giacomo Veneto, risalente agli anni Ottanta del XII secolo. Lo stesso Gerardo ha tradotto, oltre alla Fisica, il De Caelo e il De generatione et corruptione. Da queste opere scientifiche di Aristotele è partito il lavoro seguente di Michele Scoto, il quale è tornato sulle stesse opere agli inizi del XIII secolo, aggiungendo il De anima e il De animalibus. Indispensabile è stata la traduzione che egli ha eseguito della Metafisica tra il 1220 e il 1230, a cui si è potuto aggiungere, alla fine, l’ultimo intervento sul testo fatto da Guglielmo di Moerbeke intorno al 1250. Per la Retorica, invece, si dovrà attendere alla fine del Duecento la traduzione dall’arabo di Ermanno il Tedesco.
Nel giro di poco più di un secolo, quindi, proprio grazie ai contributi dell’eredità greco-araba, il mondo latino è entrato finalmente a contatto con l’intera filosofia di Aristotele, anche se, inevitabilmente, la ricezione è stata parziale, avendone trasformato anche linguisticamente il contributo originario applicandolo alle esigenze culturali dei dibattiti universitari e all’elaborazione teologica e dottrinale dei nuovi Ordini mendicanti.

L’interpretazione occidentale della filosofia araba
Tutto il XIII secolo e buona parte del XIV è interamente caratterizzato proprio dai dibattiti che emergono, attraverso le diverse linee di lettura, dall’ermeneutica greco-araba. Ciò non riguarda ovviamente soltanto la riscoperta di Aristotele, fatto di per sé principale, ma le interpretazioni e i commenti che hanno accompagnato l’arrivo delle idee dello Stagirita in Occidente.
La filosofia di Aristotele non soltanto presentava una visione razionale della realtà senza alcun tipo di rapporto con la tradizione cristiana, ma consegnava al mondo latino uno strumento filosofico e una metodologia logica di eccezionale utilità.
Fin dalla prima generazione di maestri parigini, si può constatare un’importante differenza tra coloro che scelgono di adottare la filosofia di Aristotele come strumento razionale per la teologia – Alberto Magno e Tommaso d’Aquino – e coloro invece che reagiscono o con maggiore prudenza o rimanendo esclusivamente legati alla tradizione agostiniana e neoplatonica – Bonaventura da Bagnoregio ed Enrico di Gand.
L’acuirsi dello scontro, che coinvolgeva i Frati Minori, i Predicatori e i Secolari, era determinato dalla nascita di un’originale linea di lettura di Aristotele, che seguiva fedelmente l’interpretazione proposta nei Commentari di Averroé. Questa corrente denominata “averroismo latino”, cui aderirono figure di primo piano come Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, condivideva del commentatore arabo alcune tesi attribuite ad Aristotele chiaramente in contrasto con la teologia cristiana, quali, ad esempio, l’eternità del mondo, l’unità dell’intelletto possibile (monopsichismo) e la totale autonomia della ragione umana dalla fede.


In molti di questi dibattiti intervennero anche i grandi maestri universitari con opuscoli e questioni disputate specifiche, che rivelano ampiamente la vitalità del confronto e la durezza dello scontro di idee nel basso medioevo. A tali discussioni seguirono anche alcune famose condanne, tra cui si ricorda per importanza quella del 1277 eseguita dal vescovo di Parigi Etienne Tempier.
La presenza della filosofia araba non si ferma soltanto alla difficile ricezione di Averroé, ma riguarda anche Avicenna, sostenitore di una lettura neoplatonica di Aristotele più facilmente adattabile alla teologia cristiana. Il pensiero giovanile di Tommaso d’Aquino reca traccia, ad esempio, di una forte influenza avicenniana, che si è andata progressivamente attenuando con gli anni, proprio a causa della maggiore attiguità con Averroé.
Una ripresa forte dell’interpretazione avicenniana della Metafisica di Aristotele la troviamo, invece, a cavallo tra Due e Trecento, in Giovanni Duns Scoto, il quale, attraverso Avicenna, introdurrà a partire dall’Opus oxoniense, molti elementi aristotelici all’interno dell’orientamento agostiniano del proprio pensiero, influssi che rimarranno costanti anche nel successivo dibattito filosofico della modernità.

*Dottore di Ricerca in Filosofia, è Ricercatore Universitario e Docente di Storia della Filosofia Medievale presso l'Università degli Studi Roma Tre; è membro della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale. Tra le sue pubblicazioni sul tema: “Métamorphoses de la Cité de Dieu” di Gilson nella storia filosofica della politica, Firenze, 2003; La teologia estetica nel Paradiso di Dante, Roma, 2004; Note sul concetto di ente in Tommaso d’Aquino, Firenze, 2005; Analogia dell’essere, Milano, 2005.

 

 









Postato il Domenica, 21 ottobre 2007 ore 15:26:10 CEST di Salvina Torrisi
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