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Riforma: INDICAZIONI NAZIONALI: ASSE DEI LINGUAGGI, CHE COSA CAMBIERA'

Comunicati
Asse dei linguaggi
Luisa Sbardella*

Le indicazioni nazionali sulle competenze che gli alunni della nuova scuola dell’obbligo dovrebbero e dovranno avere, in particolare quelle che riguardano l’insegnamento della lingua madre nel biennio della scuola superiore, impongono alcune riflessioni a margine.
 Prima di tutto non si può non sottoscrivere in toto il documento sull’elevamento dell’obbligo presentato dal ministro dell’Istruzione lo scorso 6 settembre, anche perché fanno già parte, di fatto, del curricolo del biennio delle superiori. Molti insegnanti, se non la totalità degli insegnanti di lettere al biennio delle superiori, recependo le esperienze delle varie sperimentazioni, adeguandosi alle impostazioni della stragrande maggioranza dei libri di testo in uso nelle scuole, da almeno una quindicina di anni impostano la loro programmazione finalizzandola al saper parlare, saper scrivere, saper ascoltare, saper leggere. Basta sfogliare un’antologia di italiano o una grammatica in uso nel biennio, per rendersi conto che le indicazioni per la programmazione degli insegnanti che raccomandavano lo studio di “Prose e poesie di autori dal secolo XIV al XX”, sono state ormai rimpiazzate da competenze come “leggere, comprendere e interpretare testi scritti di vario tipo”; “produrre testi di vario tipo in relazione ai differenti scopi comunicativi”; “padroneggiare gli strumenti espressivi e argomentativi indispensabili per gestire la comunicazione in vari contesti” e che quindi facciano parte – o dovrebbero far parte - degli obiettivi dichiarati dell’insegnamento dell’italiano nelle classi del biennio delle superiori.
 La novità positiva è il fatto che una pratica didattica, nata forse spesso dall’urgenza di adeguarsi alle necessità formative di una società in evoluzione, da aggiustamenti progressivi e da una navigazione a vista, sia ora corroborata e rafforzata da una codificazione istituzionale.
 Ma allora, ci si chiede, come mai l’Italia continua ad essere negli ultimi posti nelle classifiche europee in competenze basilari come la comprensione di un testo di media difficoltà? Se la maggior parte degli insegnanti applica già da anni un insegnamento più al passo coi tempi, se le ore di italiano sono state portate a cinque perfino nel biennio degli Istituti professionali, come mai continuiamo ad essere ultimi perfino nella conoscenza e nell’uso della nostra lingua madre?

La frammentazione della trasmissione dei saperi
Vale la pena allora soffermarsi su quello che si legge nelle Indicazioni per il curricolo elaborate dal Ministero dell’Istruzione.
“La valorizzazione delle discipline avviene pienamente quando si evitano due rischi: sul piano culturale, quello della frammentazione dei saperi; sul piano didattico, quello della impostazione trasmissiva. Rispetto al primo, le discipline non vanno presentate come territori da proteggere definendo confini rigidi, ma come chiavi interpretative”.
 L’enunciato individua, a mio parere, non tanto un rischio, quanto un problema che si potrebbe definire strutturale della scuola italiana, quello della  frammentazione dei saperi, o meglio della frammentazione nella trasmissione dei saperi, che infatti a scuola diventano ‘materie’, incasellate nello spazio e nel tempo della lezione-orario, ‘nell’ora di’. È come se le singole discipline, nella percezione scolastica, non siano segmenti di un sapere più ampio, ma rappresentino un unicum, un mondo a sé, separato dalle altre ‘materie’ da un tempo specifico – quello dell’ora scolastica -  e appannaggio di un docente specifico. Esemplificando: la competenza, che si presume acquisita dall’insegnante di italiano, relativa  all’uso di linguaggi specifici di ciascun ambito non risulta tale al momento di esporre una relazione scientifica. Ciò che si apprende durante l’ora di italiano,insomma, riguarda solo ed unicamente il docente di italiano, così come l’informatica è appannaggio del docente di matematica. E la lezione stessa è ancora concepita come una comunicazione unidirezionale di dati e concetti nei due momenti principali ma nettamente separati della pratica scolastica, quello della lezione prima e quello della verifica poi.
 Va detto, per inciso, che gli spazi e i tempi della scuola italiana non aiutano a realizzare – ma nemmeno a immaginare - un modo diverso di fare scuola: schiacciato tra le due coordinate spazio-temporali dell’ora-materia e dell’aula scolastica - attrezzata unicamente con banchi, cattedra e lavagna – dove l’unica modalità possibile è quella della lezione frontale, l’insegnante, anche volenteroso e creativo, non ha molto margine per l’inventiva e l’innovazione. Se si pensa poi che, di fatto, il libro, anzi il libro di testo, rimane per insegnanti e studenti quasi l’unico strumento di lavoro, l’unico reale ‘laboratorio’, si comprende perché nella nostra scuola stenta a decollare una cultura del saper fare, del laboratorio e dell’apprendimento collaborativo. Sarebbe interessante avviare una riflessione e una progettualità anche in questo senso, allo scopo di ridisegnare, insieme ai saperi irrinunciabili e alle basi culturali, anche le ‘basi materiali’. 

Il pudore della grammatica
C’è un altro aspetto però  su cui mi sembra valga la pena soffermarsi. Con molta enfasi si insiste, sia nel Regolamento che nel Documento tecnico, sulle competenze linguistiche di base: “conoscere le principali strutture grammaticali della lingua italiana […]”; “ riconoscere i principali tipi di proposizioni subordinate”, “conoscere il lessico fondamentale per la gestione di semplici comunicazioni”, ecc. Si vuole, insomma tornare alla grammatica, a quelle conoscenze di base, allo ‘zoccolo duro’ delle conoscenza linguistica senza il quale è difficile pensare a un uso consapevole della lingua. Anche qui non si può non convenire che forse a lungo nella scuola italiana si è dato per scontato che tali conoscenze venissero da sé, apprese in un punto non meglio precisato del percorso scolastico; apprendimenti secondari rispetto ad altri, apprendimenti mnemonici e normativi evocatori di una scuola d’altri tempi. Si è generato a un certo punto l’equivoco per cui una didattica innovativa debba per forza di cose fare a meno di modalità di apprendimento di base, come se comprendere il messaggio principale di un testo e coglierne gli scopi comunicativi o sapersi esprimere nei diversi registri linguistici rende inutile o superi l’apprendimento anche mnemonico degli elementi di base della grammatica.
 Concludo augurandomi che il processo di elevamento dell’obbligo, i provvedimenti legislativi in atto per la riorganizzazione della scuola e dei saperi vengano accompagnati anche da interventi per individuare modalità e strumenti di certificazione di saperi, trasparenti e costanti, che accompagnino in itinere gli insegnanti e gli studenti, non calati dall’alto per decreti o direttive, ma nemmeno affidati all’arbitrio delle singole scuole.

 *Docente di Italiano e Latino nel Licei. Ha insegnato nella scuola italiana di Buenos Aires









Postato il Sabato, 22 settembre 2007 ore 00:05:00 CEST di Silvana La Porta
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