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Umanistiche: I DOCENTI E L'INCONTRO ''MANCATO'' CON GLI ALUNNI

Rassegna stampa
Franco Marchese su L'incontro e il caso
Intervento alla presentazione del libro a Palermo

Il punto di vista di cui ho scelto di parlarvi de L’incontro e il caso è quello della scuola.

Il libro di cui discutiamo oggi si colloca in un orizzonte in cui sono sempre state coniugate la ricerca teorica e l’attenzione al luogo in cui la teoresi può incarnarsi: le aule scolastiche. Di questa attenzione siamo stati testimoni (e beneficiari) noi insegnanti di Palermo forse più di altri: tutti ricordiamo le tappe di un percorso ormai quindicennale (il seminario L’anguilla, la sirena è del 1992). Il cammino che conduce dal cantiere aperto di una ricerca in progress ai banchi di una classe – agli alunni concreti con cui ogni giorni ci confrontiamo e non ai loro avatàr metadidattici – può non compiersi affatto, o essere assoggettato a mode invasive ma effimere, oppure può realizzarsi scegliendo i propri compagni di strada e dialogando con essi. Questa terza modalità, difficile perché comporta il rischio di puntare su un professore come intellettuale, su un professore che deve innanzitutto convincersi di esserlo, è quella di Luperini.

Una considerazione in limine. Quando ho letto L’incontro e il caso sapevo già che avrei dovuto discuterne con l’autore. Eppure la prima cosa a cui ho pensato dopo essere arrivato all’ultima pagina non aveva niente a che fare con il presente di oggi, ma con il passato, un passato generazionale. La parabola discendente dell’incontro, come Luperini la disegna attraversando un secolo di letteratura europea, con la sua perdita di centralità e di significanza e il progressivo aumento dell’entropia e del rumore di fondo, si applica perfettamente a quel tipo particolare di incontro in cui ogni giorno ci esercitiamo: l’incontro scolastico, con quella classe, con quell’alunno. La mia impressione è che se l’incontro di un alunno con un professore cinquanta, quaranta, forse cinque anni fa poteva assomigliare a quello dell’Innominato con Lucia, poteva insomma essere decisivo e imprimere una svolta nella trama di una vita, oggi è omologo a quello del fu Mattia Pascal con il cardellino, o di Tozzi con il ramarro. Anche noi scontiamo la condanna di incontri mancati, impossibili, vuoti, sostituiti, degradati. A questa conclusione non mi conduce l’orgoglio professionale ferito. Se si trattasse di questo, saremmo ancora nella sfera rassicurante del privato. Il problema invece è pubblico, politico, e ha a che fare con la nascita di una nuova antropologia e con il destino dell’uomo occidentale di cui Luperini parla nel suo libro. Dunque non me ne voglia l’autore se l’ho tirato per la giacchetta calando il paradigma da lui delineato nella nostra realtà esistenziale. Fino a un certo punto, però, la mia può essere considerata una divagazione extratestuale, perché immagino che si sia tutti d’accordo, almeno qui, che il destino dell’uomo occidentale dipende anche da come saranno declinati, nel presente e nel futuro prossimo, i nostri incontri scolastici. E se è vero che c’è una temperie culturale, uno spirito del tempo di fronte ai quali ciascuno di noi è impotente, è altrettanto vero che la fortuna «dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle». A me il libro di Luperini ha suggerito anche questo: che bisogna fare qualcosa, e in fretta, e tutti, almeno tutti quelli che siamo qui, prima che l’insignificanza dilaghi, e la «tremenda, spalancata casualità» di cui parla Musil nel Compimento dell’amore ci inghiotta. Se ciò dovesse accadere, la scuola – ma anche l’accademia e la critica letteraria – non saranno che un immenso marmoreo cenotafio, di cui non è escluso che qualcuno – non io – riesca anche ad apprezzare la vaghezza estetica.

Dirò adesso qualcosa a proposito dell’innesto della critica tematica nel vetusto ceppo dell’insegnamento letterario scolastico, per arrivare poi a come può aiutarci nel nostro lavoro un libro che sin dalla prima riga dell’introduzione denuncia un modo diverso di fare critica tematica, un libro che – secondo l’autore – non è un lavoro di critica tematica, ma lo è anche.

Dei vantaggi e dei rischi della tematologia siamo consapevoli. Eppure lo sfondo in cui il discorso di oggi si inserisce è quello del “ritorno alla critica tematica” a cui di recente si è assistito in Italia e nel mondo, dopo le alterne vicende di questa disciplina che, dice Luperini, «ha conosciuto più sfortuna che fortuna» (Dalla critica tematica all’insegnamento della letteratura: appunti per un bilancio, in «Allegoria», 44, p. 114). Solo tenendo conto di questo contesto complessivo si capisce perché in tutti i manuali scolastici più recenti sono presenti, variamente strutturati, quei percorsi tematici che ormai hanno trovato posto nella ideale “cassetta degli attrezzi” a cui attingiamo per insegnare letteratura.

L’assuefazione, l’abitudine a trovare nei libri i percorsi tematici, può però oscurarne l’importanza, relegarli in un limbo in cui convivono con altri oggetti, tutt’altro che desueti, ma che – a livelli di autocoscienza alti o, più spesso, bassi – vengono considerati gadget, magari appetibili e seducenti, ma inessenziali rispetto alla vulgata dell’insegnamento storicistico della letteratura.

Il problema è che proprio il paradigma dell’insegnamento storicistico e, aggiungerei, bellettristico della letteratura è entrato in crisi, e le difficoltà sempre crescenti con cui dobbiamo misurarci in classe stanno a ricordarcelo impietosamente. Siamo, noi insegnanti di italiano, nel bel mezzo di una transizione difficile. La sponda dei vecchi modelli e delle mode più o meno recenti (da quella strutturalistica in poi) è lontana, ma è tutt’altro che in vista l’approdo a cui giungere in una scuola “colorata” e multietnica, popolata di alunni sempre più immersi nell’eterno presente delle dimensioni virtuali in cui abitano e sempre più incapaci di attraversare gli spazi della storia.

Un insegnamento tematico della letteratura, che tenga conto dei rischi contro cui Luperini ci mette in guardia[1], potrebbe contribuire a farci uscire dal cul de sac in cui ci troviamo e rivitalizzare la pratica didattica senza le derive destoricizzanti e antropologizzanti che finirebbero col fare del rimedio qualcosa che è peggiore del male. D’altra parte gli insegnanti più avveduti, prima ancora che nei manuali incominciassero a proliferare i percorsi tematici, qualcosa in questa direzione già facevano. Certo, in modo empirico e artigianale, ma una quota di sana artigianalità, che non ha niente a che fare con il pressappochismo o l’improvvisazione, è insita nel nostro mestiere. Per fare un solo esempio, a chi non è capitato, leggendo la novella di Tancredi e Ghismunda, di accennare alla rilevanza dell’eros e al ruolo della donna da Catullo a Simone de Beauvoir e all’altro ieri? E queste escursioni nelle regioni di quella che chiamerei una “tematologia involontaria”, se non sono mai state istituzionalizzate, tuttavia erano e sono frequenti, si rincorrono a distanza anche ravvicinata, assumono alla fine di un anno o di un triennio una struttura reticolare che convive felicemente con quella monodirezionale dell’insegnamento storicistico e con altre istanze altrettanto presenti, magari in modo carsico, tra le aule scolastiche, come ad esempio quella che recupera un insegnamento per generi.

Se ciò che ho appena finito di dire non è il frutto di una allucinazione autoconsolatoria, ma corrisponde a una pratica didattica forse non generalizzata, però sicuramente diffusa, la sinergia tra percorsi tematici e storia letteraria non è poi una prospettiva irraggiungibile e/o utopica.

Vengo alla questione, oggi capitale, della fruibilità: alias come utilizzare L’incontro e il caso nelle classi.

Il libro attraversa un secolo di narrativa europea, dal 1820 al 1920 circa, da I promessi sposi all’Ulisse. Leggendo i capitoli e ripensando ai seminari e alle conferenze di Luperini degli anni passati, fino all’ultima su I luoghi e gli incontri nei romanzi di Pirandello di poco più di due mesi fa, viene da pensare che, senza saperlo, siamo stati coinvolti in una ricerca in fieri. Non come attori, certo; ma nemmeno come spettatori passivi. Eravamo anche noi dentro un libro che si stava facendo e che adesso è qui. L’incontro e il caso, forse parla anche di noi, e in molti modi, non solo in quello che interseca il nostro aggiornamento professionale.

Gli autori italiani analizzati sono (nell’ordine del libro) Manzoni, Svevo, Verga, Pirandello, Tozzi (nella Conclusione anche Fenoglio e Calvino); quelli stranieri, Flaubert, Maupassant, Proust, Musil, Joyce, Kafka (Philip Roth nella Conclusione). Il rapporto tra italiani e stranieri è quasi paritario (cinque a sei; ma sette a sette considerando gli Appunti della Conclusione). Già questa distribuzione di autori e di opere è per la scuola una sollecitazione forte nella direzione di uno studio della letteratura che non si rinchiuda, in modo gretto e provinciale entro steccati nazionali (o, peggio, localistici), una spinta a studiare la letteratura italiana, come dice Luperini, «da una prospettiva continentale» (p. 30). I ritardi della scuola da questo punto di vista sono molti e colpevoli. Si spera che anche questo richiamo, insieme ad altri, conduca prima o poi al punto di svolta in cui gli insegnanti rinunceranno a un brandello di suolo patrio per fare spazio a Cervantes, a Sterne, a Kafka…

La maggior parte dei testi oggetto di analisi sono scolasticamente fruibili. Alcuni, poi, sono – da sempre – nel canone scolastico. Certo è assai improbabile che si legga in classe Il compimento dell’amore (su cui ritornerò) o Un pezzo di lettera, ma quante volte è capitato di ragionare con i ragazzi su In galleria, sul quarto capitolo della prima parte del Mastro, su Serafino Gubbio? C’è dunque una possibilità di “travaso” dal libro all’aula che lo rende immediatamente “pronto per l’uso”.

Il tema dell’incontro, con la sua implosione nell’Ottocento e la sua ricodificazione minimalista e degradata nel Novecento, ha poi, nella scuola di oggi (nella scuola che riflette la società di oggi), un particolare valore, che si ricollega al suo «sapor di forte agrume». Scrive Luperini a p. 35: «[…] gli autori interrogati in questo libro ci parlano di un mondo in cui ogni individuo è isolato, il destino è diventato cosa privata, la dimensione della collettività, della storia e della vita pubblica si sta dissolvendo, l’uomo non è più in grado di controllare la traiettoria sociale della propria esistenza e la casualità sembra dominarla». A lettura ultimata, queste parole dell’Introduzione assumono un valore più perentorio. E se – cito ancora Luperini – «conoscere nello splendore l’orrore che esso contiene» è «la ragione per cui forse vale ancora la pena di interpretare i testi, di enuclearne un significato» (p. 36), a scuola la dialettica tra le rose e l’abisso, per dirla con le parole di Saba, si pone in termini ancora più urgenti. Si tratta di fare riconoscere l’orrore a chi non ne sospetta nemmeno l’esistenza, di mettere a contatto il mondo anestetizzato e immemore, in cui tanti nostri alunni vivono, con il vuoto e l’insensatezza, e fare confliggere quella appagante ma finta pienezza con questo desolato deserto di significato. Il contatto tra i due deittici, questo e quella, e tra gli universi a cui rimandano è perturbante, lo so. Come so pure che per i nostri alunni vale quello che Luperini dice a proposito di Frédéric e dell’Éducation sentimental: «La “storia di un giovane” cessa di essere un Bildungsroman, per divenire cronistoria di un andirivieni tra poli contrapposti che non si elidono mai e anzi sono sempre compresenti. La giovinezza cessa di essere proiezione, costruzione, progetto di futuro e diventa coazione a ripetere la stessa situazione, segnata sempre dalla stessa contraddizione» (p. 79). E allora? Che cosa tutto questo ha a che fare con il nostro “mestiere”? Il guaio è che noi professori siamo, volenti o nolenti, chiamati a giudicare. E, giudicando, forse sottovalutiamo il fatto che il nostro Bildungsroman, parziale e balbettante quanto si voglia, abbiamo potuto imbastirlo; altri sono stati meno fortunati. Lo scacco dell’Erlebnis, l’inabissamento sia della grande storia collettiva che della piccola storia individuale che caratterizza il moderno e il postmoderno, ci ha non solo lambiti, ma segnati nel profondo. Le generazioni più giovani, però, sono state travolte, «e senza alcun sospetto». Anche di questo dobbiamo essere grati a Luperini: averci ricordato, implicitamente, che nella nostra condizione di naufraghi, esuli o apolidi siamo ancora dei privilegiati. E il privilegio conoscitivo, se non vira – come è facile, ma non ineluttabile che accada – in orfismo, se non si isterilisce in specialismi autoreferenziali, comporta un debito etico che va saldato. Questa è per me la priorità. Se mancano ancoraggio etico e tensione utopica, competenze, conoscenze, capacità di ascolto, affabulazione, mestiere, ecc. non faranno mai di un laureato un insegnante. Nella migliore delle ipotesi produrranno un professore dimidiato.

Accennavo prima al Compimento dell’amore, un testo di cui Luperini non ha parlato mai a Palermo. La storia è quella di un adulterio casuale e insensato e che pure, misteriosamente, costituisce – come il titolo denuncia – “il compimento dell’amore”. Leggere il racconto è stata per me una vera sofferenza. Esso concede pochissimo alla trama ed è quasi tutto giocato sul flusso apparentemente magmatico dell’interiorità della protagonista, Claudine. La tela di ragno dei sentimenti e dei pensieri di Claudine si sovrappone alla geometria delle deduzioni logiche e dei nessi causali, soffocandola. Il lettore si trova trasportato in una terra incognita, in cui nulla è definito e tutto trascolora in una nebbia vorticante. La sensazione che ho provato è quella di stare sull’orlo di un abisso, oltre il quale si aprono altri abissi, in una spirale senza fine. Una vertigine interpretativa che ossessivamente chiama in causa il lettore. Quasi non c’è stato periodo che non abbia riletto, interrogandomi su un significato sempre sfuggente. Una esperienza frustrante e, proprio per questo, paradossalmente salutare. Non credo ci sia bisogno di sofisticati strumenti informatici per affermare che, nel racconto, la parola che ha il più alto indice di frequenza, dopo ‘e’, è ‘come’, ‘wie’. Tutto è come qualcos’altro, e questo altro rimanda, in un inesauribile gioco di specchi, a un altro ancora più misterioso. La mise en abîme delle analogie nella inchiesta di Claudine ha come effetto di rendere la realtà – la gretta, soffocante datità a cui tutti ci aggrappiamo – fluttuante, porosa, enigmatica. Confesso che anche dopo aver letto il capitolo che Luperini dedica al racconto di Musil, sono molte le questioni che restano irrisolte. Ne dirò poi qualcuna, se ci sarà tempo. Se non sarà possibile, il mio auspicio è che l’anno prossimo Luperini dedichi una conferenza, o un seminario, al racconto. Per una serie di ragioni che intuisco confusamente, quello con Musil non può essere un incontro mancato.

Nella chiusa del capitolo dedicato a In loggione si accenna all’apologo kafkiano Il silenzio delle sirene e al potere temibile del silenzio che – dice Luperini – è «un’arma peggiore della seduzione» perché «Il mondo non ci parla più. Nessuna epifania è più possibile. Quando uno ha percepito questo silenzio, non può continuare a vivere». Tutto questo è drammaticamente vero oggi, e quasi dobbiamo rallegrarci se alcune sirene da trivio continuano a cantare, a sedurre i nostri alunni. Finché le sirene canteranno dovremo confrontarci con esse. Libri come questo ci aiutano a conoscerle meglio, e a dar loro la giusta collocazione nella nostra cartografia dell’immaginario. Ma, e a questo ma appendo le mie residuali speranze, l’apologo immediatamente precedente Il silenzio delle sirene, e cioè La verità intorno a Sancio Panza [2](1917), così suona:

Nel corso degli anni, durante le ore della sera e della notte, Sancio Panza, che però non se ne è mai vantato, procurò al suo diavolo, cui diede in seguito il nome di Don Chisciotte, una quantità di romanzi di cavalleria e di brigantaggio e riuscì ad allontanarlo da sé in maniera che questi, privo di controllo, compì le più matte gesta, le quali però, in mancanza d’ogni oggetto prestabilito – che avrebbe dovuto essere appunto Sancio Panza –, non fecero del male a nessuno. Da uomo libero Sancio, imperturbabile e forse animato da un certo senso di responsabilità, seguì Don Chisciotte nelle sue scorribande e ne ricavò, sino alla sua fine, un grande e utile divertimento.

Mi piace concludere il mio intervento con l’improbabile ma irrinunciabile Sancio Panza kafkiano, forse l’ultimo incontro di questo pomeriggio. Dubito che come lui potremo seguire «nelle sue scorribande» il nostro diavolo privato, il nostro Don Chisciotte, ricavandone «un grande e utile divertimento». Però mi è di conforto pensare che nella letteratura, e forse nella vita, questa ipotesi rientri nel novero dei possibili.

Palermo, Steri, 28 maggio 2007

(1) «I rischi della critica tematica sono essenzialmente quattro: 1. puntando non sul singolo testo, ma sulla serie dei testi in cui compare lo stesso tema, essa tende a sottrarsi all’analisi del momento creativo della singola opera e alla ricostruzione della sua genesi artistica e dunque psicologica, ideologica e specificamente letteraria; 2. tende a ignorare o sottovalutare la questione del giudizio estetico e del valore storico-letterario, finendo per considerare i testi più come documenti di un tema che come monumenti o esempi di valore artistico; 3. di conseguenza tende anche a trascurare gli aspetti formali o specificamente letterari delle opere considerate; 4. finisce spesso per assegnare poca importanza al momento storico-ideologico per privilegiare il piano astorico dell’inconscio collettivo e degli archetipi» (Dalla critica tematica all’insegnamento della letteratura: appunti per un bilancio, in «Allegoria», 44, p. 118).

(2) È il primo di una serie di tre apologhi (il terzo si intitola Prometeo) complessivamente intitolati nell’edizione Brod Eine alltägliche Verwirrung, Un quotidiano disordine; ma il manoscritto kafkiano ha Eine alltägliche Vorfall, Un caso quotidiano, comune.








Postato il Sabato, 02 giugno 2007 ore 15:47:27 CEST di Silvana La Porta
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