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Umanistiche: SENECA E LA RIFLESSIONE SULLA MORTE

Rassegna stampa
Seneca e la riflessione sulla morte
 di Stefano Maso*

 

Seneca si dichiara, e di fatto è, seguace della scuola stoica. Egli lo dimostra nel corso di tutta la sua vita (1 a.C.- 65 d.C.) e lo conferma nelle precise assunzioni teoriche che accompagnano i suoi scritti. Al centro della filosofia stoica sta una concezione fisica di impianto materialistico nella quale due principi, uno attivo e uno passivo, interagiscono; la materia è perciò viva e, per di più, manifesta una struttura logica. Pneuma è il nome figurato di questa vitalità che organizza; logos, cioè ragione, è il modo in cui la materia si esprime e attraverso cui è decifrabile.

La prospettiva stoica
In un simile contesto fisico:
1) è fondamentale cogliere l'esito deterministico che il divenire degli accadimenti assume, rilevare cioè come da una causa A dipenda l'effetto B e poi C (e così di seguito), e come B (e gli altri elementi della successione) esistano solo perché sono appunto l'effetto derivato da A, in una serie di passaggi incatenati tra loro che definiscono la realtà nel suo divenire. Si parla appunto di sempiterna quaedam et indeclinabilis series rerum et catena, di 'una eterna e immutabile serie di elementi incatenati': come scrive Gellio, un intellettuale del II sec. d.C., allorché tenta di interpretare il pensiero di uno dei padri dello Stoicismo, il greco Crisippo (Noctes Acticae, 7.2). Un esito che può essere letto come 'destino': e heimarméne è appunto il vocabolo che allude alla serie delle cause e che i Romani tradussero con fatum. Ma Crisippo aveva asserito che 'il destino è il logos del cosmo', avendo ben presente che per Zenone, il fondatore dello Stoicismo, esso era precisamente 'la ragione in base alla quale il cosmo si regge' (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 7.149). Proprio per questo inoltre – cioè proprio perché il destino e il cosmo sono interpretabili come razionalmente strutturati – si potrebbe avanzare la possibilità di prevedere ciò che accadrà in futuro, di cogliere la direzione verso cui il futuro risulta determinato da cause antecedenti;
2) è inevitabile scorgere il problema che si pone a qualsiasi ente razionale allorché si interroghi intorno al significato di un universo strutturato in questo modo e al ruolo che egli medesimo, in quanto appartenente a tale universo, svolge. Se, cioè, alla fisica stoica è così fortemente connessa la logica, come e perché vi può essere collegata anche l'etica?

Vivere in sintonia con la natura
 Solo per questa via comincerà a trovare fondamento l'obiettivo morale, che fin dalle origini il filosofo stoico si è proposto, espresso nella formula: 'Vivere in perfetta sintonia con la natura', cioè con l'universo diveniente razionalmente strutturato. Chi così agisce è infatti uomo virtuoso e, insieme, è uomo sapiente. Seneca, che conosce benissimo questa situazione, sottoscrive senza esitare il fatto che a ogni uomo sia concessa, in ogni momento o fase della propria vita, l'opportunità di fare filosofia e di progredire in direzione della sapienza, e quindi di vedere così confermate nel concreto la propria virtù e la propria adesione alla natura. Per Seneca, ma in realtà per uno stoico qualsiasi, la vita di ciascuno appartiene senz'altro alla vita dell'universo logico materiale, un universo in evoluzione permanente fino all'estrema conclusione costituita dalla conflagrazione universale, cioè dalla 'morte universale'. Una conclusione, questa, che può intendersi come l'estremo stadio della materia durante il quale la razionalità a essa immanente raggiunge la massima manifestazione, ma che tuttavia darà origine a un ulteriore ciclo di sviluppo in cui la vita daccapo si rigenererà. La conflagrazione, ekpúrosis, costituisce insomma la conclusione di un ciclo, è 'la morte' che consegue naturalmente e logicamente all'evoluzione materiale della vita.
 Come dire: stando agli Stoici, nello svolgimento assolutamente determinato della vita dell'universo risulta compresa anche la sua conclusione. Allo stesso modo, nello svolgimento determinatamente segnato della vita dell'uomo, è compresa anche la morte.

Valenza formativa e morale della morte
Ogni uomo, in quanto essere razionale, ha la possibilità di interrogarsi di fronte al succedersi degli avvenimenti e, dunque, di fronte alla vita. Ma ciò significa che, se la vita implica la morte, l'uomo ha la possibilità di interrogarsi sulla morte. Anzi: proprio l'interrogazione relativa al senso della morte diventa uno dei momenti che massimamente caratterizzano l'espressione della vita e, in particolare, della vita del sapiente.
 Di fronte alla vita, e quindi di fronte alla morte, il sapiente stoico deve dimostrare la propria virtù: deve cioè confermare la propria capacità di essere in sintonia con il senso complessivo del divenire. In pratica, la virtù del sapiente consisterà nel mantenere ferma la propria forza razionale lasciando che essa si esprima di fronte a qualsiasi evenienza, compresa quella estrema: appunto la morte. Fisica e morale insieme, è questa la immota stabilitas, quella capacità tipica del sapiente di 'rimanere eretto sotto qualsiasi peso', stat rectus sub quolibet pondere (Lettere a Lucilio, 71.26); frutto di questa condizione che dipende però dal retto e stabile giudizio appartenente per definizione al sapiente, risulta la vita felice: beata ergo vita est in recto certoque iudicio stabilita et inmutabilis (Sulla vita beata, 5.3).
 Ma non è facile mantenersi saldi e avere la forza di resistere incrollabili e saggi di fronte alla morte e a quanto, come la malattia e il dolore, di essa è l'annuncio. Anzitutto occorre rendersi conto che “la distanza dalla morte è ovunque breve: non è che la morte si mostri in ogni luogo vicina: essa è realmente in ogni luogo vicina” (Lett., 49.11). La morte, in questa prospettiva, rivela la sua fortissima valenza formativa e, insieme, la sua indubbia valenza morale, dato che essa esige un comportamento coraggioso e coerente tale per cui non risulterà che 'sono io a fuggire la morte', ma nemmeno che 'sarà la vita a sfuggirmi', effice ut ego mortem non fugiam, vita me non effugiat (Lett., 49.10).

 Il 'non essere' della morte
 Con il suo stile stringato e sentenzioso Seneca farà presente all'amico Lucilio, soprattutto nelle lettere 24, 26, 30, 54, 77, 78, che proprio il modo in cui moriamo dirà chi davvero siamo: mors de te pronuntiatura est (Lett., 26.6); suggerirà quindi che il miglior rimedio per vincere la morte è semplicemente quello di disprezzarla: totius vitae remedium est: contemne mortem (Lett., 78.5). Più seriamente, occorrerà considerare la morte per quello in cui di fatto consiste: 'la morte è non essere', mors est non esse (Lett., 54.4), è la pura e semplice condizione in cui vi è l'assenza della percezione della vita, l'occasione in cui il venir meno del corpo si accompagna al venir meno della percezione e quindi della coscienza; così si ricava dalla tragedia Le Troiane, vv. 401-02: “la morte è qualcosa di indivisibile: un malanno del corpo che non risparmia lo spirito”, mors individua est, noxia corpori nec parcens animae. Essa finisce per essere (e qui la posizione di Seneca si avvicina a quella dell'altra dottrina materialistica, quella epicurea) un punto d'arrivo ineffabile: si badi, non solo dopo la morte non c'è nulla (perché non c'è alcuna possibilità di percezione), ma il morire medesimo è qualcosa di sfuggente, è il limite estremo di un rapidissimo spazio di tempo: post mortem nihil est ipsaque mors nihil, velocis spatii meta novissima (vv. 397-98).

Il coraggio di affrontare l'inevitabile
 Insomma, la morte non sta davanti a noi, anzi: il nostro errore è proprio nel non renderci conto che, più che ciò che ci sta davanti, 'alla morte appartiene la vita già trascorsa', in hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus … quidquid aetatis retro est mors tenet (Lett., 1.2). E occorre imparare che, proprio perché viviamo, 'ogni giorno stiamo morendo', cotidie morimur.
 Aufidio Basso, un anziano amico di Seneca, è ormai in fin di vita a causa dei malanni dell'età. Seneca lo paragona a una vecchia nave che da più parti imbarca acqua: il fasciame marcio cede ed è impossibile tappare le falle ed evitare la fine. Tuttavia Basso si dimostra di animo saldo e di spirito vivace: “Ebbene, proprio questo ti consente la filosofia, di essere sereno al cospetto della morte, forte e lieto al di là della condizione fisica; di non cedere anche quando il fisico sta cedendo. Un abile nocchiero sa navigare anche con la vela squarciata e, se ha perso il sartiame, tuttavia cerca di mantenere la rotta sfruttando quello che gli resta della nave. Così fa il nostro Basso: assiste alla propria fine con uno spirito e con una espressione del volto tali che tu li riterresti troppo rilassati anche in chi stesse assistendo alla morte di un'altra persona” (Lett., 30.3).
 La lezione di Basso è, a parere di Seneca, fondamentale. Lo è anche perché conferma un'altra sua teoria: nell'imminenza della morte, allorché ogni possibilità di evitarla è dileguata, nell'uomo scatta una reazione psicologica per cui anche chi per natura è ignorante e debole trova un moto di coraggio e di orgoglio. Così è per il gladiatore che, per tutto il combattimento, magari ha cercato solo di scansare i colpi; alla fine eccolo offrire la gola all'avversario: trova il coraggio di non evitare l'inevitabile (non vitandi inevitabilia). Ma se la morte, pur destinata a giungere, è solo in prospettiva davanti a noi, per predisporsi a essa occorre qualcosa di più, occorre quella tenace fermezza d'animo, lenta animi firmitas, che appartiene solo al saggio (§ 8).

La coerente posizione sul suicidio
Se occorre apprezzare la vita resistendo a tutti i dolori e a tutte le angosce, come può il sapiente contemplare l'eventualità del suicidio?
 Suicidarsi significa 'darsi la morte', e quindi intervenire nello svolgimento della vita in modo autoritario, quasi contravvenendo alla tesi centrale dell'etica stoica che raccomandava l'adeguamento allo svolgersi della realtà naturale. La situazione appare così paradossale che già ai primi albori dell'umanesimo è possibile rintracciare una folgorante interpretazione etimologica del nome stesso di Seneca: per Jacopo da Varazze (sec. XIII) esso è letteralmente un presagio del suo destino, dato che se necans significa appunto 'uccisore di sé'.
 In realtà Seneca parte da un presupposto particolare: al centro non sta tanto la vita quanto la vita 'razionale'; l'uomo, e per forza maggiore l'uomo saggio, esiste solo nel momento in cui esibisce la propria ragione. Ecco allora che il suicidio può essere immaginato solo se razionalmente inteso. Che vuol dire e che comporta ciò?
 L'uomo saggio è tale finché riesce a resistere alle contrarietà dell'esistenza senza perdere la propria ragione; se invece dovesse essere minacciato dal rischio di perdere il controllo e di impazzire (e quindi si trovasse nella condizione imminente di smarrire la propria specifica virtus), ha la possibilità di sottrarsi a questa perdita salvando la propria razionalità. Ecco il suicidio: non rappresenta tanto uno scacco subìto (cioè l'inevitabile conseguenza del cedimento di fronte agli altri), quanto una mossa che svincola dallo scacco che gli altri presumevano di imporre. Si badi: è decisivo cogliere che solo il saggio è in grado di sapere se è giunto il momento estremo oltrepassato il quale la sua virtus sarebbe perduta ed egli non sarebbe più saggio; soltanto il saggio sa cioè quando è giunto il momento di adottare il suicidio, convinto che 'morire bene significhi sfuggire al pericolo di vivere male', bene autem mori est effugere male vivendi periculum (Lett., 70.6). E, si badi, anche l'ultimo degli schiavi, se ha rispetto di sé ed è quindi sapiente, può trovare il modo di suicidarsi. Nessun ostacolo può infatti trattenere chi ha veramente deciso di evadere dalla vita. Ed ecco il gladiatore che si reca alla latrina e, evitata così la sorveglianza, si soffoca infilandosi nella gola il bastone con attaccata la lurida spugna per le pulizie (§ 20); oppure quello che, condotto sul carro al combattimento del circo, fingendo che il capo gli ciondoli per il sonno, lo infila tra i raggi della ruota che gli spezza il collo (§ 23). Ratio monet ut si licet moriaris: è la ragione che ci invita a morire, se possibile, come ci piace, altrimenti sfruttando qualsiasi mezzo ci si offra (§ 28).
 Il lungo monologo del re Edipo nella tragedia Le Fenicie precisa con chiarezza come solo il saggio che consapevolmente ed eroicamente sa accettare fino in fondo il proprio destino abbia a disposizione il suicidio; giunto il momento, sarebbe colpa gravissima quella di chi tentasse di ostacolare tale decisione: sarebbe ancor più grave del dare la morte a qualcun altro: “Chi costringe qualcuno a morire si pone allo stesso livello di chi impedisce a qualcuno di avviarsi alla morte. Impedir di morire a qualcuno che lo desidera è come ucciderlo; anzi, colui che tenta di farlo non è allo stesso livello, ma è più colpevole ancora. Preferisco che mi sia ordinato di morire piuttosto che mi sia impedito di morire”, malo imperari quam eripi mortem mihi (vv. 98-102).
 La possibilità di suicidarsi fa insomma tutt'uno con l'autentica disponibilità a essere se stessi, a essere eroicamente se stessi.

 *Ricercatore di Filosofia antica presso l'Università Ca' Foscari di Venezia, insegna Storia della filosofia romana e tardoantica. Membro del comitato di redazione della rivista internazionale «Lexis», ha pubblicato con Carlo Natali lavori sull'Antiaristotelismo, sul Timeo di Platone e sul Determinismo/Antideterminismo nel pensiero antico. Recentemente sono apparse presso l'editore L'Harmattan di Parigi le opere: Le regard de la vérité: cinq études sur Sénèque e Fondements philosophiques du risque.

Pubblicato il 3/4/2007








Postato il Lunedì, 09 aprile 2007 ore 00:05:00 CEST di Silvana La Porta
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