dal sito de "Il Giornale"
di Marcello Foa - domenica 01 aprile 2007, 08:57
È una minoranza piccola, ma sempre più attiva. E, soprattutto, inspiegabilmente ricca. I soldi non sono mai un problema se si tratta di diffondere l’Islam fondamentalista. Le sconvolgenti immagini filmate clandestinamente qualche giorno fa non costituiscono una peculiarità di Torino. Ogni venerdì prediche di analoga violenza verbale vengono pronunciate in ogni regione.
Molti di loro vengono spediti a combattere la Guerra Santa in Kosovo, in Cecenia, in Afghanistan; altri restano da noi a propagare un Verbo delirante, secondo cui «la democrazia è fonte di tutti i mali e di tutti i vizi», gli occidentali sono «popoli corrotti che diffondono la sodomia, i matrimoni tra gay e lesbiche», Israele «una realtà criminale, la nazione di porci e scimmie». Secondo questi predicatori - per lo più salafiti, che predicano il ritorno all’Islam delle origini - le ragazze senza velo «finiranno all’inferno» e guai a partecipare al rito di San Valentino, perché «non è la festa degli innamorati, ma il giorno dell’immoralità e della prostituzione».
Nel Corano non c’è una riga di queste nefandezze e nemmeno nei testi dell’Islam sunnita autorevole, come quello dell’Università Al Azhar del Cairo, ma gli estremisti non se ne curano. D’altronde qualcuno li ispira e li finanzia. Quando chiedi agli imam come possano acquistare o affittare garage che poi vengono trasformati in moschee e quale sia la loro fonte di sostentamento, rispondono: con le offerte dei fedeli. «Ma questa versione non regge - osserva Sghiaer -. Solo una minoranza degli immigrati musulmani frequenta le moschee e in ogni caso guadagnano poco, meno di mille euro al mese. È inverosimile che i loro oboli siano sufficienti a finanziare gli imam».
Provvede qualcun altro, dall’estero: Arabia Saudita, Pakistan, Emirati del Golfo, Iran. Un flusso costante. E con i soldi arrivano mullah, mujaheddin, propagandisti. Stanno nel nostro Paese poche settimane, passando da una moschea all’altra. Puntate rapide e intense. Lasciano l’Italia prima che la polizia si accorga di loro e non tornano più. Sono i giramondo dell’odio.
Il loro obiettivo è di circuire il maggior numero di persone. Tra i giovanissimi hanno pochissima presa: la seconda generazione tende a integrarsi e ad adottare i costumi occidentali. Chi ha più di 40 anni teme di perdere quel minimo di benessere ottenuto al prezzo di grandi sacrifici.
Gli integralisti, pertanto, puntano i maschi tra i 24 e i 35 anni, senza un lavoro fisso e con problemi di alloggio, che più facilmente si sentono esclusi; poveri e sfruttati in un’Italia rutilante e consumista. In Puglia sono tanti gli immigrati in queste condizioni; gente che lavora per pochi mesi, durante la stagione del raccolto, e riceve paghe miserevoli. Facile avvicinarli e convincerli a cercare il riscatto nell’Islam fondamentalista.
E quando l’ideologia non basta si ricorre all’inganno. A molti di loro gli imam fanno credere che le autorità dei propri Paesi d’origine li stanno ricercando per attività estremiste o addirittura per terrorismo. La maggior parte non corre il rischio di verificare l’informazione con le ambasciate e sentendosi persi si lasciano manipolare. Alcuni diventano a loro volta predicatori, aprendo una moschea in un centro abitato dove ancora mancava. Altri abbracciano il kalashnikov pronti a sacrificare la vita, illudendosi che sia Allah a volerlo.
Alla Digos il video di «Annozero»
di Redazione - domenica 01 aprile 2007, 07:00
Procedono per apologia di reato, ma per ora solo a titolo di semplice ipotesi preliminare di lavoro, i magistrati della procura di Torino che si occupano dei risultati del servizio della trasmissione tv Annozero sulle moschee del capoluogo piemontese. Comunque non sono state effettuate iscrizioni nel registro degli indagati. La Digos, che per conto dei pubblici ministeri sta conducendo gli accertamenti, è alla ricerca dei fogli - definiti dall’autrice del servizio Maria Grazia Mazzola «il giornale di Al Qaida» - che compaiono nel video. Per ora gli investigatori dispongono solo di quanto appare nel «fermo-immagine» della registrazione delle riprese: materiale che è già in fase di traduzione. I primi testimoni ascoltati dalla questura (dopo l’imam Mohamed Kuhaila ieri si è presentato in Questura un esponente della comunità islamica) hanno negato che nei centri di preghiera di via Cottolengo sia stata fatta della propaganda radicale o del proselitismo. Una delle spiegazioni fornite è che il termine Jihad non si riferisce solo alla lotta armata contro il mondo occidentale, ma ha soprattutto un significato spirituale: è lo sforzo che il credente deve compiere per realizzare il messaggio divino. L’analisi delle carte dovrebbe chiarire questa ambiguità. Nei prossimi giorni, comunque, alla Digos arriveranno tutte le immagini registrate durante l’inchiesta di Annozero, comprese quelle che non sono andate in onda.
Le menzogne del multiculturalismo nascondono una realtà fatta di predicazione d'odio e sopraffazione delle donne
Testata:Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Mariolina Iossa - Grazia Longo - Maria Teresa Martinengo
Titolo: ««L'Italia non difende le immigrate E' l'ipocrisia del multiculturalismo» - “Ero un pacifista non sono più imam - La guerra delle moschee»
Dal CORRIERE della SERA del 1 aprile 2007, un'intervista a Souad Sbai:
ROMA — Sono le donne immigrate a pagare il prezzo più alto delle «bugie del multiculturalismo». Sono loro soprattutto a subire le conseguenze di un «buonismo ipocrita che fa male, non bene». Non si preoccupa di dire cose politicamente scorrette la leader delle donne marocchine in Italia, Souad Sbai.
«La sinistra si riempie la bocca di questo multiculturalismo, del rispetto per le altre culture. Sono falsità. L'immigrazione è un problema di tutti, che va affrontato subito. O esplode».
ROMA — Sono le donne immigrate a pagare il prezzo più alto delle «bugie del multiculturalismo». Sono loro soprattutto a subire le conseguenze di un «buonismo ipocrita che fa male, non bene». Ma questo in Italia accade perché c'è «indifferenza anche da parte di molte donne italiane. Le femministe? All'inizio mi facevano arrabbiare. Ma adesso è chiaro: le femministe non ci sono più. Quelle poche rimaste hanno una certa età, altra formazione, sono abituate a parlare di cooperazione internazionale. Ci vorrebbe una nuova generazione di femministe». Non si preoccupa di dire cose politicamente scorrette la leader delle donne marocchine in Italia, Souad Sbai. Souad fa parte della Consulta islamica, con il ministero degli Interni sta facendo un lavoro certosino che porterà alla Carta dei valori. Eppure le mogli musulmane picchiate da mariti che seguono i consigli di un imam qualunque, per lei sono pane quotidiano. Che se ne parli soltanto dopo una trasmissione televisiva non la sorprende.
Dice Souad: «La sinistra si riempie la bocca di questo multiculturalismo, del rispetto per le altre culture. Sono falsità. Destra e sinistra, è tutta una guerra per tirare ciascuno acqua al proprio mulino. E invece l'immigrazione è un problema di tutti, che va affrontato subito. O esplode».
Racconta Souad: «Un marito marocchino ha rotto la mascella della moglie ma non ha fatto neppure un giorno di galera perché il giudice ha riconosciuto che ha seguito la sua cultura e le sue tradizioni. È accaduto a Verona. Questa è indifferenza, è lavarsene le mani. Preferisco avere a che fare con i razzisti, almeno ci puoi litigare. Ma con gli indifferenti la battaglia è perduta».
Ammonisce Souad: «Mi fa rabbia quando le femministe dicono: noi abbiamo fatto il nostro '68, i diritti vanno conquistati con le lotte. Ma io ribatto: anche le nostre madri hanno fatto il '68 ma poi siamo tornate indietro, ci hanno messo il velo in testa e costretto a chiuderci in casa. State attente, le conquiste si possono perdere. Si può sempre tornare indietro».
Quello che, secondo Souad, nessuno capisce o fa finta di non capire è che «le donne marocchine arrivate in Italia dieci anni fa, restano ferme. In Marocco, intanto, c'è la nuova legge sulla famiglia, in sette anni l'analfabetismo femminile è sceso dall'80 al 35 per cento. Le donne vanno a scuola la sera, gli danno un chilo di farina, un litro d'olio e loro sono contente. Poi imparano a leggere e a scrivere. Le marocchine che vivono in Italia restano indietro, ce ne sono molte che dopo dieci, quindici anni ancora non sanno una parola di italiano. Gli imam dicono agli uomini: tua moglie non porta il velo? Allora non sei un vero uomo. E loro le obbligano a portare il velo quando in Marocco l'obbligo non esiste più. C'è una pressione degli imam sulle comunità dovuta a lobby estremiste finanziate dall'estero. E l'Italia che fa, non chiede niente? Non chiede conoscenza della lingua, rispetto delle leggi? Ci vuole un'ufficio dell'immigrazione con soldi e progetti. Che invece spesso sono parcellizzati».
A sentire Souad sembra di stare in un Paese lontano. Ma non è l'Afghanistan questo, è il mondo che sta dentro le nostre città. «Le donne italiane — continua — credono di essere emancipate ma la violenza sulle donne è all'ordine del giorno. Contano poco. Nel parlamento marocchino le donne sono il 13 per cento, in Italia siamo appena all'8 per cento. Le donne ministro sono senza portafoglio, che possono fare?».
Eppure quello che c'è da fare Souad Sbai ce l'ha ben chiaro nella testa. E non è un'impresa impossibile. «Scuole. La sera aprite le scuole che sono chiuse, apritele alle donne immigrate. Il permesso di soggiorno non va rinnovato se non si conosce la lingua italiana. Le leggi italiane e la Costituzione devono valere per tutti, anche per gli immigrati. La poligamia per il maschio italiano è vietata, dev'esserlo anche per i musulmani. Una bambina di 8 anni non può portare il velo, è solo una bambina. Quando ne avrà 13 deciderà come crede. Il burqa? Vietato. Gli imam che predicano la jihad vanno espulsi. Perché avete così tanta paura di assimilarci?». Assimilazione o integrazione? Forse qui sta il nodo. «Se un medico siriano dice ai pazienti musulmani che la poligamia fa bene alla prostata e nessuno fa nulla, io chiedo: che cos'è questa? Indifferenza, ecco cos'è. Assimilazione o integrazione? Io dico che non ci sono mezze misure. Chi vive in Italia deve rispettare le leggi e le regole di questa comunità. Punto e basta. Con tutti i diritti e i doveri che ne conseguono. Un ragazzo che conosco bene, da sei mesi non mi dà più la mano. "Perché sei donna", mi ha detto. È cambiato dal giorno alla notte in sei mesi. Gli hanno fatto il lavaggio del cervello. Così si mettono a rischio anche le seconde generazioni. Altro che integrazione».
Dalla STAMPA del 1 aprile 2007, un'intervista Abdellah Abou Anas, imam torinese emarginato perché moderato:
Negli stessi giorni in cui l’ex imam di Porta Palazzo Bouriqi Bouchta faceva sfilare i ragazzini di Porta Palazzo vestiti da miliziani di Hamas, con il cappuccio e la kefiah, urlando slogan contro Israele e gli Usa, lui predicava la pace. E alla messa dello scorso Natale era sull’altare accanto a Don Piero Gallo, simbolo dell’integrazione tra cattolici e musulmani.
Tutto al tempo passato. Perché il marocchino Abdellah Abou Anas era imam in via Saluzzo, e si era conquistato la fiducia «degli immigrati lontani dagli estremismi come me». Ma ha pagato cara quella moderazione ed è stato emarginato. Trentotto anni - da tempo a Torino, una laurea in studi islamici e un lavoro da domestico - frequenta la moschea, ma non può più condurre la preghiera. A questa delusione, si aggiunge oggi l’amarezza per i sospetti di simpatie filo Al Qaeda che gravano proprio sul tempio di via Saluzzo.
Che cosa pensa della scoperta di alcuni volantini pro Jihad dentro la moschea?
«È un fatto molto triste, perché rischia di compromettere i rapporti di integrazione con i torinesi. Va a finire che rischiamo di essere considerati tutti amici dei terroristi».
Lei sapeva che nella moschea circolavano quei documenti?
«Alcuni fedeli mi hanno raccontato di averli visti. C’è stata un’accesa discussione perché alcuni di loro sostenevano di essere d’accordo con l’immagine di Al-Zarqawi come un martire di cui va seguito l’esempio. Ma altri hanno preso le distanze, dicendo che quella robaccia non deve nemmeno circolare».
L’attuale imam, Mahmoud Sinousy, assicura di non averli mai notati e presume siano l’opera di estremisti infiltrati.
«Può darsi, perché entrare nella moschea è molto facile e gli esaltati non mancano. È pieno di “dormienti”, nessuno li conosce e poi se ne escono con qualche crimine».
Ha avuto difficoltà a gestire i fedeli più integralisti?
«Sì, ma per il motivo opposto a quello che si può pensare: il problema non era il radicalismo salafita di alcuni, ma la mia moderazione, la mia intenzione di diffondere la parola del Corano nel rispetto della realtà occidentale che ci ospita. Mi sono sempre battuto per la pace, per la mediazione tra le varie culture e le varie religioni. Tanto da essere nominato ambasciatore di pace dalla Federazione mondiale per il dialogo interreligioso dell’Onu. E’ stata la mia rovina».
Quali suoi atteggiamenti in particolare sono stati condannati?
«Dentro la moschea ho sempre indossato la tunica e avevo il capo coperto, ma fuori vestivo all’occidentale e mi sono tagliato la barba. Un finimondo, dimenticando che Dio guarda nel cuore degli uomini e non se portano o meno la barba. Lo stesso è accaduto quando difendevo la libertà delle donne a non coprirsi il capo: il Corano non lo impone e non vedo perché debbano farlo gli uomini».
Il suo successore si professa aperto alla cultura occidentale. Perché secondo lei non lo è?
«Il problema a Torino è molto più vasto: tutti gli imam, a parte quelli della moschea in via Chivasso, sono troppo chiusi. E la chiusura non favorisce l’integrazione. Inoltre c’è troppa gente che si improvvisa imam, senza avere gli studi necessari. Sono volontari e questo certamente va apprezzato, ma una maggiore cultura contribuirebbe ad essere meno intransigenti».
Che cosa rimpiange di più?
«La possibilità di essere d’aiuto nel processo di pace. Oggi (ieri per chi legge, ndr) noi musulmani festeggiamo la nascita del Profeta Maometto. Spero che i fedeli seguano i suoi insegnamenti pacifici, invece di strumentalizzarli a favore di un integralismo esagerato o, peggio ancora, di Al Qaeda»
Sempre dalla STAMPA (pagine di cronaca di Torino), un'intervista a Don Fredo Olivero, direttore della Pastorale Migranti della Diocesi di Torino:
Don Fredo Olivero, direttore della Pastorale Migranti della Diocesi, esperto del fenomeno migratorio in Italia, lo sostiene da anni: nelle moschee torinesi i predicatori invitano alla Jihad. Per questo non si stupisce delle parole degli imam colte da «Annozero» né dei volantini e dei documenti rinvenuti nei luoghi di culto a Porta Palazzo e San Salvario.
Don Fredo, lei ha denunciato la presenza a Torino di imam radicali già molto tempo fa...
«All’indomani dell’attentato alle Twin Towers, nel settembre 2001, Bouriki Bouchta aveva invitato i fedeli ad aderire alla guerra, a fare sottoscrizioni. Io sapevo tutto nei dettagli da una persona di assoluta fiducia, uno che era presente dove Bouchta aveva parlato».
E che cosa aveva fatto?
«L’avevo denunciato al prefetto. Che mi aveva ascoltato, ma dicendomi che “non era proprio così”, che comunque tutto era sotto controllo. Diciamo che grandi cose per cambiare quello stato di cose non sono state fatte».
A Torino ci sono nove moschee. Tutte uguali?
«No, ci sono differenze, non tutti i predicatori parlano allo stesso modo. Fa eccezione la Moschea della Pace, quella dell’Istituto Islamico di corso Giulio Cesare, anche se è affiliata all’Ucoii, e forse un’altra. Ma in generale Torino è una piazza integralista».
A parlare con gli autoproclamati imam non si direbbe...
«Infatti. Quando parlano ai loro fedeli dicono certe cose normalmente e quando parlano con gli italiani ne dicono altre, diverse».
Cosa dicono?
«Predicano continuamente la Jihad e offrono un’interpretazione del Corano integrista. Salvo l’imam Abdellah Abouanas e pochi altri, l’interpretazione del Corano è la più rigida possibile. Moltissime donne in moschea non ci vanno più per questo».
All’Ufficio Migranti, dove incontrate decine di musulmani ogni giorno, sentite che la gente sia condizionata dai predicatori?
«No, con la gente comune non c’è nessun problema. Per fortuna, la reale frequentazione delle moschee è molto ridotta. Quando vengono interrogati, i musulmani dicono che è del 30%. Nella realtà, i ricercatori hannmo accertato che non è superiore al 3-5% del totale, mentre nel mese di Ramadan si avvicina al 10%».
Le nuove generazioni vanno in moschea?
«Poco. E’ difficilissimo trovarci ragazzi sotto i vent’anni. Però, con quei pochi, l’educazione va sempre e soltanto in una direzione. Anche le scuole che le moschee tentano di aprire sono di fatto coraniche».
A vederli nelle scuole di stato o in giro per la città, gli adolescenti originari dei paesi arabi non sembrano legati ai diktat religiosi più dei ragazzi cattolici...
«Ho sperimentato personalmente che i giovani che vanno nelle moschee sono integralisti, mentre gli altri, quelli che partecipano per esempio alle attività dell’Asai, a San Salvario, non lo sono assolutamente. Non lo sono, per esempio, i ragazzi afghani che in città cominciano ad essere una presenza significativa».