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News: Alle radici del malessere

Rassegna stampa

"Tuo padre è un assassino" ci diceva don Ciccio Ventorino - allora non ancora monsignore - al liceo, in pieno clima di contestazione studentesca. Lo diceva sorridendo, divertito della sua stessa provocazione, per sintetizzare all’estremo che la nostra società affamava il sud del mondo. Oggi però l’assassino non è il padre ma il figlio, qui vicino, nel male banale di una bravata o di una guerriglia da calcio. E gli educatori come Ventorino devono confrontarsi con l’interpretazione di una furia apparentemente folle, inconciliabile con la ragione, ma invece fondata su basi reali, razionali. Monsignore, la violenza che abbiamo visto nell’assalto degli ultras alle forze dell’ordine a Catania è una forma della violenza fisiologica che c’è nella società e che altre volte s’è manifestata col terrorismo o in certe forme distruttive di contestazione studentesca, oppure è qualcosa di qualitativamente diverso? «Un grande educatore dei nostri tempi, don Luigi Giussani, al quale io debbo tutta la fecondità del mio ministero sacerdotale con i giovani, diceva che "la giovinezza è caratterizzata dal sentimento di uno scopo, anche non precisato, ma almeno sentito come futuro fortunato di ciò che si sta vivendo". Il giovane non può accettare, dunque, che quello che il suo cuore più profondamente desidera, quello per cui sta vivendo, non si realizzi. Nell’impatto con la realtà egli avverte dapprima una meraviglia e un entusiasmo che gli viene dalla scoperta di se stesso e dei propri desideri e nell’avvertire nelle cose quasi una promessa d’appagamento; ma presto, avvertendone la distanza rispetto ai suoi ideali, quest’esperienza si tramuta in un senso di estraneità e di ostilità che lo porta ad una chiusura in sé, e al rifiuto della realtà, persino della realtà di se stesso. È questa la radice della violenza giovanile che qualche volta è giustificata da una volontà rivoluzionaria, cioè di cambiamento delle cose, alimentata da una speranza utopica, com’è stata quella degli anni Settanta; altre volte deriva da una mentalità consumistica e quindi nichilista (la realtà non ha nessun valore e quindi va consumata e dopo sfasciata e in questo si afferma la propria libertà o addirittura la propria grandezza) come accade ai nostri giorni. È ovvio che, nell’uno o nell’altro caso, coloro che rappresentano l’ordine costituito divengono il primo bersaglio da colpire, esattamente come si canta nei cori degli ultras: "il poliziotto è il primo nemico"». Lei lavora coi giovani da 50 anni. Si dice che oggi le nuove generazioni siano senza ideali, mentre nei decenni scorsi la situazione era diversa. E’ un problema di giovani o di adulti? «I giovani nella profondità del loro cuore e quindi nella grandezza dei loro desideri sono sempre uguali. Quello che cambia, come ho detto, è il clima culturale che li orienta. È compito degli adulti offrire ai giovani un’ipotesi credibile di significato della vita, un’ipotesi che essi possano verificare con la propria esperienza e nella propria libertà. L’ipotesi proposta sarà tanto più potente, quanto più comprensiva di tutti gli aspetti della realtà, da quelli più seducenti, come l’amore e la gioia, alle sue apparenti contraddizioni, come il dolore e la morte, l’ingiustizia e l’infedeltà. E quale ipotesi più comprensiva e realistica può trovarsi al di fuori di quella che ci viene offerta dalla tradizione cristiana? Il problema di oggi sta nel fatto che da parte degli adulti questa tradizione o è stata rifiutata, oppure non viene più vissuta con una convinzione tale da divenire persuasiva: essi sono quindi incapaci di guidare altri in un percorso ragionevole di verifica personale. Non è tanto la loro incoerenza morale a fare da ostacolo, quanto la loro incapacità a dare ragioni convincenti, cioè la loro incoerenza ideale. A questo proposito voglio ricordare un episodio. Un giorno ero a pranzo con dei conoscenti, e una signora parlava della sua famiglia. Suo marito nel tempo si era allontanato dalla religione - raccontava - e un giorno la figlioletta gli aveva chiesto: "Papà, ma perché non vieni più a messa la domenica?". "Perché sono uno stronzo" aveva risposto lui. A quel punto la signora mi ha chiesto cosa ne pensassi, io ho risposto che suo marito era un grande educatore. Sì, un grande educatore: perché non riusciva a mantenere la coerenza morale, non faceva quel che avrebbe dovuto, ma conservava la coerenza ideale, infatti ammetteva di essere "uno stronzo"». L’assenza della figura paterna o anche di insegnanti maschi a scuola può essere, secondo alcuni esperti, uno dei motivi per cui i ragazzi non imparano a governare la forza con cui esprimono le emozioni. Lei cosa ne pensa? «Certamente la figura paterna è essenziale nella introduzione alla realtà: è come il primo gradino, il più arduo, ma il più naturale nell’affrontare ciò che è altro da noi, soprattutto quando questo accade in un rapporto carico di simpatia e di affezione. Il padre è come una guida alpina, dietro la quale è più facile scalare la montagna della vita. L’assenza di questa figura (qualche volta persino giustificata teoricamente) rende il giovane facile preda delle sue paure e perciò della violenza, che deriva da una insicurezza nel rapporto con il reale. Questa insicurezza poi si trascina per tutta la vita, a meno che non si incontri un vero padre, cosa che sempre più difficilmente può accadere nella scuola». La Chiesa ultimamente ha richiamato spesso il valore morale, religioso, della famiglia. Ma vediamo la questione laicamente: lei ritiene che, in senso funzionale, l’allentarsi dei legami familiari possa essere una delle cause del disagio giovanile? «Certo, perché il ragazzo perde una sicurezza. La sicurezza dell’unità della famiglia di appartenenza è come la sicurezza di avere una casa: qualunque cosa fai fuori, hai un posto in cui tornare. Se si distrugge nel ragazzo questa certezza, se lui avverte che questa certezza è minata, ovviamente non ha più un aiuto, un incoraggiamento nell’introduzione alla realtà, perché la prima realtà che il ragazzo vive è proprio quella della famiglia. Questa realtà non lo accompagna, non gli dà conforto, sicurezza, nell’introduzione alla realtà più grande». C’è un’altra violenza che negli ultimi tempi è diventata particolarmente allarmante: il bullismo, anche se non soprattutto a scuola. Da dove nasce? «Dalla mancanza di educazione al valore e alla stima dell’uomo, innanzitutto dell’uomo che è in noi. Nell’aggressione gratuita, infatti, si esprime una disistima dell’altro che viene ridotto ad oggetto del nostro capriccio, ma anche un rifiuto di noi stessi che ci vediamo rispecchiati nell’altro, quasi una paura di rassomigliargli». I giovani cercano emozioni forti, a volte, proprio nello scontro fisico. Può essere un rimedio offrire loro emozioni positive? «Il cuore del giovane, come quello di ogni uomo, è fatto per la verità e la felicità: la bellezza è la sconvolgente testimonianza della presenza del vero e del bene. Essa ferisce, commuove, convince e conforta. Le emozioni forti, quelle violente, sono un surrogato letale di questa esperienza positiva ». Le bande giovanili sembrano perdere contatto con la realtà. Come si può ricostruire un canale di dialogo fra i giovani e la società? «Proprio per quel sentimento di estraneità e di ostilità che si va alimentando nei confronti del reale, a causa della mancanza di una educazione che sia una introduzione al valore delle cose e del significato della vita, il giovane cerca di costruirsi una propria identità nell’appartenenza al "branco", che è una sorta di società parallela, con le sue regole e con i suoi facili traguardi. Non esiste possibilità di riconciliazione tra il giovane e la società che non passi attraverso il rapporto con un adulto nel quale il giovane veda in qualche modo realizzato ciò che lui desidera. Solo nel rapporto con un vero adulto il giovane può riconciliarsi con se stesso e fare l’esperienza dell’altro come di un amico della propria umanità, al quale è dunque ragionevole consegnarsi. Il giovane, infatti, si dona al tutto sempre attraverso un particolare, cioè un rapporto privilegiato che lo introduce con fiducia e con stima nella totalità della convivenza umana». Qual è oggi il limite più evidente della scuola nell’educazione dei giovani? «Non fa proposte convincenti, non ha uomini o donne convincenti. Difficilmente un alunno vuole divenire come i propri insegnanti e pertanto non li accetta come maestri di vita ». Oltre che l’educazione, ha valore la repressione? «La repressione si rende necessaria quando l’educazione fallisce. È una sconfitta dell’adulto e della società ». I giovani sembrano incapaci di scelte durature. Da cosa deriva questa situazione e cosa può dare la voglia di scelte grandi e definitive? «La testimonianza di adulti che, attraverso le loro scelte definitive, dimostrino come abbiano realizzato se stessi nella libertà, nella creatività e nella fecondità della vita. Per dirla ancora con don Giussani, c’è bisogno "del miracolo di una vita che, passando, avanza in giovinezza, in educabilità, in stupore e commozione di fronte alle cose, di una energia creatrice che cresce su di sé senza disperdersi e logorarsi, ma aderendo cordialissimamente a tutte le possibilità che l’esistenza produce", una vita "che si lascia invadere dalla potenza dell’eterno, e ne viene instancabilmente fecondata"».

CARLO ANASTASIO GIUSEPPE DI FAZIO (da www.lasicilia.it)

Le foto di questa pagina sono di Antonio Parrinello e Rosario Condorelli

 

La rabbia trabocca tra gli studenti dell’istituto catanese Gemmellaro chiamati a discutere di legalità

CATANIA. Una cosa è certa in tanta inquietudine: il più «gettonato» dai ragazzi è lui, il poliziotto. E la passione si accende e la rabbia trabocca quando si parla dei rapporti fra i giovani e le forze dell’ordine. A dispetto del tema volutamente «generalista» proposto ieri mattina dal dirigente dell’istituto Gemmellaro ai suoi ragazzi, «L’essere cittadino e il rispetto della legalità», stringi stringi il dibattito si incentra sulla violenza. Su quella, cieca, subìta dal povero ispettore Raciti sulla cui condanna tutti concordano e su quella utilizzata a volte dai tutori dell’ordine nel rapporto con i giovani. E’ Cristina, nell’aula magna, a rompere il «giro » di interventi programmati e il silenzio imbarazzato dei suoi compagni. «Negli stadi la violenza fra tifosi e polizia è reciproca – si chiede – perché accade questo? E perché non prendere più precauzioni per quello che succede negli stadi?». E’ l’inizio di un fuoco di fila di domande, alcune senza risposta, che hanno riempito prima l’assemblea programmata e poi un insolito fuori programma voluto dagli studenti. Domande poste al commissario capo Giovanni Nicotra, segretario nazionale dello Uilps, allo psicologo Salvatore Scardilli, al tifoso Mario Conti, a un ex giocatore del Catania, Nino Leonardi, a un ex alunno dell’istituto Maurizio Zarbo, poi divenuto poliziotto. Domande rabbiose: «Perché a Palermo, perché a Roma la polizia non è intervenuta per difenderci mentre i loro ultras ci sputavano e ci urinavano addosso?». «Perché se ci fermano finiamo comunque in Questura e rimediamo anche due schiaffoni? ». «Perché – propone qualcuno – non fare leggi più restrittive, come succede in altri Paesi europei?». «Come fare per recuperare una immagine finalmente più positiva della Sicilia?». A ogni perché scrosciano gli applausi, per sfogare una tensione che non trova pace e non trova risposte. Anche se Mario il tifoso, che è un volto e una voce nota nei circuiti radiotelevisivi ripete che quel giorno al Massimino ha visto «poliziotti giovani come voi, tifosi in divisa, che contrastavano degli invasati che considerano i poliziotti dei nemici». E se lo psicologo ha spiegato che la legalità nasce dall’appartenenza, dal sentire come propri e degni di rispetto la scuola come l’ambiente urbano, lo stadio come le forze dell’ordine. Se il commissario- sindacalista ammette che «il poliziotto può usare la violenza per assicurare l’ordine, ma la violenza non può essere gratuita». E se l’ex calciatore ricorda che «il calcio deve essere solo passione e gioia». Ma l’impressione è che quel traguardo sia ancora lontano. Sono ancora in pochi, troppo pochi, in questa sorta di Polivalente di corso Indipendenza che ospita 1200 alunni e che l’anno prossimo diventerà anche liceo scientifico, a indignarsi in modo «operativo», a prendere le distanze in senso civile da quello che è accaduto quel maledetto venerdì. «Come insegnante di Educazione fisica – racconta il prof. Antonello Sassano – mi sono sentito particolarmente in dovere di discutere con i miei ragazzi di quello che era successo. E quando abbiamo cominciato a parlare di tifo, ho capito che non avevano le idee chiare. Per questo abbiamo consultato insieme il vocabolario e sono rimasti sbalorditi dal significato della parola. Per loro il tifo era contrastare e insultare l’altra squadra, non sostenere la propria». Ecco, i confronti, le riflessioni servono anche a questo. A capire, a cambiare. E anche a fare le prime timide proposte. «Perché – chiede una ragazza – non organizziamo gemellaggi fra le scuole di Palermo, Messina e Catania? Perché non cominciamo da noi?». E questa volta l’applauso diventa finalmente liberatorio.

ROSSELLA JANNELLO (da www.lasicilia.it)

 

LO PSICOTERAPEUTA:«Ma la violenza è ovunque»

CATANIA. Il dott. Salvatore Scardilli, psicologo e psicoterapeuta, esperto in problematiche di devianza sociale, ha parlato poco al dibattito al quale era stato invitato, nell’istituto Gemmellaro, perché ha preferito ascoltare molto. All’uscita dall’aula magna scuote la testa. «C’è bisogno di una riflessione collettiva, una riflessione che non escluda nessuno». A cominciare dal grande calcio e dal gran circo mediatico che gli gira attorno. «Occorre una riflessione – dice – sul risvolto commerciale della faccenda, sulla scelta, da parte del mercato di un target di tifosi giovani, maschi e machi. Un mercato alimentato anche dai mezzi di informazione che parlano di scontro, lotta, combattimento. Lo stadio come un’arena, i calciatori come gladiatori, insomma. Perché non pensare a un calcio anche per famiglie, per i bambini? ». E anche i calciatori sono chiamati in causa dall’esperto. «Alla luce della gran voglia di dialogo e di confronto che dimostrano i giovani, mi chiedo perché dopo quello che è successo, poco si sono spesi i calciatori per parlare con i ragazzi, per spiegare, per prendere le distanze dall’evento e dalla violenza». Perché di violenza pura si tratta. Anche se per lo psicoterapeuta quello che è successo in piazza Spedini è solo un «epifenomeno», la punta impazzita di una violenza che permea la nostra società. «La violenza che vediamo a volte anche negli stessi campi di calcio dove lo scontro fisico fra giocatori, o fra giocatori e altri soggetti viene assorbita dagli spettatori senza essere adeguatamente e sostanzialmente sanzionata. Come non viene sanzionato quello che accade ogni giorno nelle nostre città dove siamo adusi a vivere senza battere ciglio irregolarità di ogni genere: dalla scivola per handicappati occupata, alla guida aggressiva, ai marciapiedi invasi, agli ambulanti abusivi fermi a ogni angolo». Al Massimino, ne è convinto il dott. Scardilli, si è dunque «scaricata una aggressività accumulata altrove, in una città che non a caso la classifica de "Il Sole 24 ore" relega agli ultimi posti in fatto di vivibilità. Dove la classe media vive male e così i loro figli e non ha più senso neanche la distinzione, tentata per mettersi in pace la coscienza, fra i ragazzi che vengono dai quartieri periferici e quelli che vengono dalle zone "alte" della città». Una analisi della situazione che non lascia scampo? Non è detto. A patto di comprendere che ci muoviamo in un contesto «dove l’aggressività ha un ruolo importante» e di avere voglia innanzitutto di «una presa di posizione personale per dire no, per prendere le distanze, per incidere sulla propria realtà, intanto». Ma il ruolo della famiglia, della scuola, della Chiesa, delle agenzie educative? «Non ci sono formule magiche, ma solo la volontà di scommettersi in prima persona e l’umiltà di mettersi in rete per interventi corali e generali. Una cosa è certa – aggiunge – i giovani hanno bisogno di sentirsi protagonisti e per questo richiedono maggiore attenzione da parte della scuola, che deve rispondere come ha risposto oggi questo istituto, così come dalla famiglia che oggi deve mettersi in discussione: non serve concedere tutto, meglio trovare il tempo per un ascolto interessato dei propri figli». E l’invocazione sentita fra gli studenti per «leggi più dure»? «Le leggi non bastano – dice il dott. Scardilli – e spesso servono solo a etichettare. E invece dobbiamo rifuggire dalle etichette. No a "tutti delinquenti" no a "quelli della curva nord", no a "tanto non c’entrano niente con noi". Sì, invece a interventi differenziati per isolare e sanzionare i veri delinquenti. Sì a interventi precoci nei contesti educativi, per promuovere una cultura condivisa di prevenzione del bullismo e della violenza ».

R. J. (da www.lasicilia.it)









Postato il Lunedì, 19 febbraio 2007 ore 01:25:06 CET di Renato Bonaccorso
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