dal Corriere della Sera
Il presidente della Commissione,
Yusuf Jimale, spiega che la repressione del nuovo regime islamico si manifestò
il 24 marzo scorso con l'assalto armato alla loro sede a Mogadiscio,
distruggendo ogni cosa compreso un prezioso lavoro sulla «diversità musicale
somala» destinato all'Unesco, l'organizzazione delle Nazioni Unite per
l'educazione, la scienza e la cultura: «Da allora non ci hanno più permesso di
svolgere la nostra attività e neppure di contattare la stampa. Si tratta di una
violazione dei diritti dell'uomo. E ora siamo condannati a morte. Sono degli
ignoranti, degli oscurantisti che perseguono dei fini occulti. La musica è
sempre esistita in Somalia e ovunque nel mondo islamico».
La fatwa di condanna a morte dei musicisti viene giustificata con la citazione
del versetto V, 33 del Corano: «In verità la ricompensa di coloro che combattono
Iddio e il Suo Messaggero e si danno a corrompere la terra, è che essi saranno
massacrati, o crocifissi, o amputati delle mani e dei piedi dai lati opposti, o
banditi dalla terra: questo sarà per loro ignominia in questo mondo e nel mondo
a venire avranno immenso tormento». Ma Jimale non si capacita: «Forse che
meritiamo quanto vi si afferma? Ma veramente capiscono ciò di cui parla il
versetto? Loro stanno ingannando la gente comune. Abbiamo proprio bisogno aiuto
dalla comunità internazionale. Hanno preso una posizione estremamente crudele
contro di noi e più in generale contro la musica. Ma siamo un'unica famiglia e
questa condanna a morte non ci farà desistere dal promuovere la musica in
Somalia e nel mondo. Comunque vada saremo forti. Noi non siamo nel torto. Noi
abbiamo ragione, ragione e ragione!».
In Italia l'appello dei musicisti somali è stato raccolto e rilanciato da
Patricia Adkins Chiti, membro direttivo del Consiglio internazionale per la
musica dell'Unesco e dell'European Music Council. La fatwa delle Corti islamiche
è stata emessa dopo un raid contro la sede della Radio dell'Africa Orientale a
nord di Mogadiscio, che abitualmente trasmetteva musica per la capitale e nei
dintorni. E' stata definitivamente chiusa. L'11 settembre scorso un'altra
incursione contro Radio Jowhar, sempre a Mogadiscio, ha portato all'abolizione
totale dei programmi musicali. Da allora è autorizzata a diffondere solo il
Corano, dottrina islamica e i notiziari ufficiali.
Per la verità nel Corano non c'è un divieto esplicito della musica e del canto.
L'interdizione fa piuttosto riferimento a delle fatwa emesse da teologi
wahhabiti, come il defunto mufti dell'Arabia Saudita, Abdelaziz Bin Baz, che
disse: «La parola ma'azif si riferisce al canto e agli strumenti musicali. Il
Profeta ci ha detto che alla fine dei tempi arriverà un popolo che permetterà
queste cose così come permetterà l'alcol, l'adulterio e la seta. Questo è uno
dei segni della profezia, tutto ciò è accaduto. Il hadith (il detto) indica che
gli strumenti musicali sono haram (proibiti) e condanna coloro che dicono che
sono halal (leciti), così come condanna coloro che ritengono che l'alcol e
l'adulterio sono leciti. Chiunque ritenga che il canto e gli strumenti musicali
sono leciti mente e commette un peccato grave».
Gli estremisti islamici somali, sulla scia di quanto fecero i talebani in
Afghanistan nel 1996, hanno già chiuso tutti i cinematografi, messo fuorilegge i
film, proibito la visione della televisione nei luoghi pubblici, vietato le
celebrazioni dei matrimoni che contengano canti o danze, imposto ovunque la
segregazione sessuale. Stanno cioè distruggendo dal di dentro la persona per
trasformarla in un robot al servizio del loro potere dittatoriale ammantato di
islam. Ma a quanto pare tutto ciò non interessa a nessuno. Tranne che a Bin
Laden. Perché lì potrà probabilmente rilanciare il suo sogno del califfato
islamico. Non è forse il caso di raccogliere seriamente l'appello dei musicisti
somali: «Salvate la nostra anima »?
Magdi Allam
22 ottobre 2006
L' Islam e lo spettacolo
Sin dalla nascita dell' Islam, la liceità della musica e del canto è stata
materia di di battito. Se ne discuteva la legittimità non solo per quanto
riguarda l'artista ma anche riguardo al pubblico. Sia i fautori che i detrattori
fondavano la legittimazione della loro posizione sul Corano e sugli hadiths, i
detti del Profeta. Nell' odierno Egitto, questi dibattiti sulla legittimità
della musica non precludono il fiorire dell'arte nei palazzi e nelle case
private (Sawa 1989; Stigelbauer 1975).
Chelebi, uno studioso musulmano del diciassettesimo secolo, distingue tre
categorie di musica: quella che proviene dagli uccelli, dalla voce umana e dagli
strumenti. Egli afferma che nell' Islam è permesso ascoltare le melodie prodotte
dagli uccelli e quelle prodotte dalla voce umana ma a certe condizioni e regole.
Invece non è mai ammissibile ascoltare strumenti a fiato o a percussione (1987:
38). Alcuni strumenti sono proibiti perché si presume che istighino al bere. Il
kuba (tamburo oblungo) ad esempio è proibito perché associato al vino, alle
canzoni licenziose e alle persone dissolute. Riguardo alla voce umana, se esegue
canzoni sul vino e sulla dissolutezza, non è possibile ascoltarla (ibid.: 39).
Secondo l' etnomusicologo Al-Faruqi, la dottrina religiosa istituisce una
gerarchia della musica e del canto distinguendoli in forme proibite,
sconsigliate, raccomandate ed encomiabili. Al culmine della gerarchia c'è la
recitazione del Corano, immediatamente seguita dalla chiamata alla preghiera e
la cantillazione religiosa. Legittimi sono anche vari generi di canzoni connessi
alle celebrazioni familiari, ai canti delle carovane, ai canti di lavoro e alla
musica delle bande militari. Al livello più basso della gerarchia troviamo
"musica sensuale che è eseguita in occasione di attività condannate, o che si
ritiene un incentivo per talune pratiche proibite, come il consumo di droga e di
alcool, atti di lussuria, la prostituzione, ecc." (1985: 12). Questi generi sono
chiaramente proibiti, haram. Tuttavia, la maggior parte delle forme di musica e
di canto si collocano in posizione intermedia tra queste precise categorie e la
loro appartenenza è controversa (Al-Faruqi 1985: 1-13).
L' approvazione o la disapprovazione data all'interprete non è connessa solo al
genere ma anche al contesto dell' esibizione. Riguardo alla liceità del
contesto, tre sono gli elementi considerati importanti dallo studioso musulmano
dell'undicesimo secolo Imam al-Ghazali, e precisamente il tempo, il luogo e i
partecipanti. Non è accettabile che troppo tempo venga dedicato alle esibizioni
tanto da interferire con i più alti obiettivi islamici e distrarre l'attenzione
dei credenti dalla devozione a Dio. I professionisti che svolgono la loro
attività a tempo pieno sono unanimamente meno approvati dei dilettanti non
professionisti. L'accettabilità del luogo e delle circostanze dell'esibizione è
pure un fattore importante nel giudizio sulla legittimità della posizione degli
artisti di spettacolo e del loro pubblico. Infine, il tipo di persone presenti
all'esibizione influisce sulla legittimazione degli artisti e del loro pubblico.
Un certo genere di musica può, perciò, essere ammissibile in un dato contesto e
rifiutatoin altre circostanze. Suonare il tamburello, per esempio, è lecito se è
fatto da donne ad un matrimonio ma è proibito se fatto da uomini in un contesto
di omosessualità o di prostituzione (Al-Faraqi 1985: 17-20; al-Ghazali 1902: 1).
Musicisti dell'alto Egitto durante una processione matrimoniale
Le discussioni religiose sulla danza sono meno particolareggiate e hanno a che
fare principalmente con la natura degli stati estatici. Secondo al-Ghazali anche
la giusta condotta durante l'estasi e la trance è definita dalle regole di
tempo, luogo e comparte- cipazione. Inoltre, si può perdonare se l'estasi
sopraffà una persona e la fa muovere senza propria volontà. Ma quando la volontà
ritorna, è preferibile la calma e il contegno. La regola generale è che: "se il
piacere che induce a danzare è lodevole e la danza lo accresce e lo rinforza,
allora danzare è degno di lode (...). E' vero comunque che la pratica del ballo
non si addice alla condizione di personalità di spicco, che costituiscono un
modello, perché la maggior parte delle volte essa scaturisce dal gioco e dallo
sport (...)" (al-Ghazali 1902: 9).
Dobbiamo tener presente però che al-Ghazali tratta della danza estatica maschile
in un contesto religioso e non della danza femminile in un contesto profano.
Sebbene l'impatto del genere sull'accettabilità dell'attività artistica non
abbia ricevuto un'attenzione sistematica, esso costituisce un fattore cruciale
nei dibattiti sopra delineati.
Un ben noto detto, spesso citato per screditare le cantanti, è "sawt al-mar'a
`awra", "la voce di una donna è una cosa vergognosa" (1).
Imam al-Ghazali lo spiega come segue: la musica è permessa a meno che non si
tema la tentazione. La voce femminile potrebbe sedurre l'ascoltatore. Guardare
le interpreti è sempre vietato. Ascoltare la voce di cantanti donne nascoste è
vietato ugualmente se evoca immagini tentatrici. Egli continua argomentando che
guardare un ragazzo imberbe è proibito solo se c'è pericolo di tentazione. E
paragona poi la liceità dell' ascoltare una cantante nascosta a quella del
guardare un giovane ragazzo imberbe. La regola che deve essere seguita, quindi,
è relativa al rischio di indurre in tentazione: se questo è temuto si è fuori
legge (1901: 235-237).
Le donne sono quindi generalmente percepite come più seducenti degli uomini e
l'eccitamento provocato dalla vista è considerato più potente dell'eccitamento
provocato dall'ascolto. Queste considerazioni influenzano la valutazione di
legittimità delle differenti forme di spettacolo maschile e femminile. Le
esibizioni femminili sono più controverse e la loro accettabilità dipende
dall'esperienza maschile della provocazione. Anche il fatto che l'eccitamento
maschile sia più fortemente stimolato dalla vista che dall'udito influenza il
giudizio sulle varie categorie di interpreti femminili. Le musiciste hanno una
audience. Le cantanti hanno una audience ed anche, almeno attualmente, degli
spettatori. Le ballerine, d'altro canto, catturano unicamente lo sguardo. La
danza femminile è unanimamente considerata la forma più vergognosa di
spettacolo.
Allo scopo di capire i giudizi dei fondamentalisti islamici sull'arte dello
spettacolo non possiamo solamente fare riferimento all'opinione degli studiosi
musulmani dell'undicesimo o del diciassettesimo secolo, ma dovremmo anche
esaminare a fondo il giudizio religioso dei leader più recenti. Secondo il tardo
Sheikh al-Azhar Shaltut, che scrisse una fatwa (un decreto o giudizio ufficiale)
sull'argomento nel 1960, la musica è ammissibile a certe condizioni. Egli
argomenta che Dio non è contro il piacere e che l'Islam ricerca la moderazione.
Però esso non dovrebbe avere luogo in circostanze immorali o con compagni
dissoluti (Al-Faruqi 1985: 25-26). Lo studioso musulmano al-Quaradawi afferma
che il canto e la musica in se stessi sono leciti e piacevoli. Tuttavia impone a
riguardo numerose restrizioni. Il contenuto della canzone non dovrebbe essere
contro la morale e gli insegnamenti islamici né essa dovrebbe essere affiancata
da altre cose proibite nell'Islam, come l'acool. Anche il modo di cantare
dovrebbe essere entro i limiti imposti dall'Islam, il che significa che non
dovrebbe essere accompagnato da movimenti provocanti. L'esagerazione non è mai
auspicabile ma sicuramente non lo è nello spettacolo e la persona che sa che lo
spettacolo facilmente la o lo eccita dovrebbe starne alla larga (Quaradawi 1985:
139;289). Durante la mia ricerca il più prestigioso predicatore televisivo,
Sheikh Mitwalli al-Sha'arawi, affermò che tutta la danza femminile è male e che
solo la musica che non "solletica i nervi" è tollerabile (The Economist,
21-5-1988).
La maggior parte delle forme e dei contesti dell'arte dello spettacolo
nell'Egitto contemporaneo è perciò o controversa o proibita, particolarmente se
vi sono donne che si esibiscono. Sebbene quindi i fondamentalisti Islamici siano
i soli a cercare attivamente di impedire l'arte dello spettacolo, la loro
posizione sull'illegittimità dell'arte dello spettacolo, specialmente se al
femminile, è condivisa anche dagli studiosi musulmani conservatori e ortodossi.
Perché, quindi, il corpo e la voce delle donne sono considerate cose proibite
nell'Islam?
Breve trattato sulla musica araba
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L’arte musicale araba è forse ciò che subito sovviene nell’immaginario
collettivo, non appena la mente si volge ad oriente. Le atmosfere riscaldate dal
sole e dalla sabbia del deserto sembrano veicolare melodie che richiamano una
cultura tanto diversa e che come tutte quelle esistenti nel globo terrestre ha
usato il medium musicale come proprio primo mezzo espressivo. Com’è noto i
popoli hanno da sempre preferito prima cantare che recitare, così come hanno
scelto di ricordare e tramandare a memoria rispetto che scrivere e divulgare.
Forse per motivi logistici (la mancanza di supporti su cui scrivere), forse per
istinto le culture arcaiche hanno affidato il proprio ricordo alla memoria
collettiva piuttosto che a segni tangibili che evitassero l’oblio. La cultura
araba preislamica o nota come “della Jahiliyya” ovverosia dell’Ignoranza dalla
parola di Dio, così chiamata dai dotti Musulmani in netta contrapposizione con
la rivelazione del profeta Muhammad, è conosciuta proprio tramite testimonianze
per così dire musicali. Le prime attestazioni letterarie del patrimonio arabo,
geograficamente da posizionarsi nella Jazirat al Arab, la penisola degli Arabi
(l’attuale penisola araba) in un tempo che inizia nel 500 circa d.c., sono testi
talvolta anche molto lunghi in poesia, dotate già allora di una metrica e di un
certo rigore stilistico. Fra questi spiccano le “appese”, le Mu’allaqat, i 7
componimenti di altrettanti poeti professionisti, selezionate per la loro
particolare e rara bellezza e “appese” incise a caratteri dorati sopra il tempio
della Ka’ba alla Mecca. Tali testi letterari, noti già al poeta Goethe che le
raccolse nel suo “West Diwan” erano canti di memoria, grossomodo simili ai miti
greci e forse inizialmente agli stessi poemi omerici (laddove si ritengano
questi come insiemi di canti inizialmente orali che Omero avrebbe “solo”
sistematizzato) ovvero fungevano da catalizzatori del ricordo comune di una
tribù e impedivano che certi avvenimenti anche di cronaca, si perdessero nel
tempo. Queste “Qasidat” cioè componimenti erano tramandati di generazione in
generazione, e mantenevano alto il nome o il ricordo di gruppi, capi guerrieri e
principi, che erano i primi protagonisti dei componimenti. Il poeta, che
evidentemente doveva essere un portavoce dato che si limitava a raccogliere
componimenti già esistenti nel patrimonio collettivo e a versificarli, si
esibiva durante le tante feste pagane accompagnati talvolta dal suono del Liuto.
I temi di questi carmi ricordano molto la poesia saffica o comunque erotica
greca. Il proemio amoroso o Nasib fa parte di un canone che si ripete in tutte
le poesie. Una struttura fissa, contenente una serie di tematiche viene dunque
musicata sfruttando una caratteristica tipica della lingua araba, ovvero una
musicalità intrinseca dovuta alla scontro di sillabe lunghe e sillabe brevi.
La musicalità è rimasta come caratteristica della cultura arabo-islamica.
Se già il popolo arabo-pagano era solito musicare il proprio patrimonio
letterario, l’avvento del profeta Muhammad amplifica tale abitudine. Il poeta
venne più volte scambiato per un cantore-poeta lungo il corso della sua vita e
predicazione dal momento che la profezia e la rivelazione che discendeva su
Muhammad veniva da questo trasmessa in forma non esattamente musicale ma
salmodiata. Tutt’oggi il Corano viene salmodiato o recitato (più che cantato) e
tutta una serie di cantanti appartenenti alla scena musicale araba moderna
(anche la famosa Oum Kalthoum) sono o sono stati recitatori del Corano prima che
cantanti in senso pieno del termine.
Ud, che significa "legno", strumento
musicale considerato modello
basilare per tutta la musica araba. (Arab.it)
Ma esattamente la musica araba che caratteristiche possiede, aldilà delle sue
radici storiche? Come facente parte del patrimonio culturale arabo, la musica ha
avuto nel tempo esiti differenti seppur origini comuni. Come è noto è possibile
parlare al contempo di un popolo arabo (inteso come l’etnos arabo) alla stessa
maniera con cui è possibile parlare di un popolo tunisino, algerino, libanese
etc. Le migrazioni e le commistioni interetniche che hanno interessato il popolo
arabo nel corso della sua storia lo hanno portato a contatto con genti
diversissime, dai berberi agli indiani e se da una parte il patrimonio culturale
fondamentale è rimasto immutato sostrato comune, dall’altra parte spinte
particolaristiche hanno impresso la loro influenza così da generare
diversificazione. La musica araba oggi è meno omogenea che in passato e forse
faremmo bene a parlare di musica marocchina, algerina irachena e così via. Ciò
che va sottolineato è quindi il fattore geografico. L’estensione nella Dar al
Islam di un patrimonio che oggi a tratti è difficilmente un fattore unificatore.
Tutto ciò ovviamente alla luce di una antica somiglianza che esiste ancora in
teoria e in struttura. I musicologi tendono a diversificare almeno 3 scuole
musicali: la prima è quella maghribina, quella Siro-Egiziana, quella Irachena e
una quarta che si può definire Arabo-Africana.
Le caratteristiche di questo tipo di musica risiedono nell’organizzazione
melodica e nella tecnica vocale. Non esiste un sistema temprato e neppure un
concetto di armonia. Gli strumenti suonano tutti una medesima linea melodica,
differenziandosi per quantità ovverosia alcuni strumenti suonano un’ottava sopra
altre sotto rispetto alla linea melodica principale. La notazione della linea
melodica non avviene in forma scritta, infatti un musicista arabo non
concepirebbe la scrittura del pentagramma. L’organizzazione avviene tutta
tramite il manico del liuto arabo, che è infatti lo strumento più importante. Da
ciò deriva che le “note”arabe hanno tutte un nome diverso e non si definiscono
in base alle ottave. Il concetto principale di questo tipo di musica è il
“Maqam” che possiamo tradurre come il luogo entro cui avviene la composizione
musicale. Ogni Maqam possiede inoltre una sua specificità un suo contenuto
emotivo, ovvero una specifica espressività melodica. I trattati di musica araba
sono parecchi e tutti databile in un periodo di tempo che va dal nono al
tredicesimo secolo. Non esistono dei materiali cartacei però che accompagnino il
musicista durante la sua esibizione, ma è lasciato ampio spazio
all’improvvisazione. Un “concerto” può durare diverse ore, durante le quali si
avvicendano più esecutori che suonano il repertorio detto anche “Wasla” esso si
compone per:
- una serie di brani cantati di diversa velocità
- un intermezzo strumentale o apertura della seconda parte del concerto
- l’improvvisazione strumentale o vocale che può avere diversa collocazione nel
concerto.
PERSONE InviaStampaIl cantautore britannico di origine greca che nel 1977, si
convertì
alla religione musulmana, è tornato al pop dopo un lunghissimo silenzio
Cat Stevens, 30 anni per imparare
a conciliare la musica e l'Islam
"Ho scoperto solo di recente quanto grande sia stato
il contributo della cultura maomettana allo sviluppo musicale"
Yusuf Islam nel 2004
LONDRA - Le acque del Pacifico sono fredde anche d'estate. A Malibu, nelle
spiagge private dei miliardari, non ci sono bagnini di guardia. Il cantautore
nuota agile verso il largo, si allontana pericolosamente dalla riva. Cerca di
tornare indietro, ma la corrente è troppo forte. Sta per soccombere, è nel
panico, grida: "Dio, se mi salvi lavorerò per te". In quell'istante un'onda
potente lo solleva e lo scaraventa verso la riva. "Era tutta l'energia di cui
avevo bisogno, in poche bracciate raggiunsi la spiaggia, sano e salvo. Fu un
momento grandioso, sapevo che Dio esisteva, e che avevo rinnovato un contratto
con lui", mormora, con la voce melodiosa di chi è avvezzo a salmodiare, Yusuf
Islam, il cantautore che prima della conversione si chiamava Cat Stevens.
Era il 1975, il successo non gli dava tregua. "Mi sentivo vuoto, insoddisfatto,
già da anni vivevo in Brasile, lontano dalle pressioni dello show business. Dopo
l'episodio di Malibu, cominciai freneticamente a indagare tra le religioni per
mantenere la mia promessa: nozioni di buddismo, induismo, numerologia,
astrologia, fino a quando David, mio fratello maggiore, mi portò da Gerusalemme
una copia del Corano".
In quel momento iniziò il percorso verso la nuova fede, che culminò nel 1977 con
la conversione all'Islam. Due anni dopo, alla fine dell'ultimo concerto alla
Wembley Arena, salutò per sempre i fan: "Ognuno deve trovare la propria strada,
spero che anche voi troviate la vostra". Così Steven Demetre Georgiou, in arte
Cat Stevens, assunse legalmente il nome di Yusuf Islam, sposò nella moschea di
Kensington Fouzia Ali, che gli ha dato cinque figli, e cancellò il suo nome
dall'albo d'oro del pop.
Ci ha messo ventotto anni per incidere un nuovo album di canzoni, Another cup,
che è appena uscito; più di un quarto di secolo per ridefinire il suo ruolo nel
mondo dello spettacolo; cinque anni, dopo l'11 settembre, per liberarsi dal
fondamentalismo che lo imprigionava e scoprire che la musica è frutto di una
purezza creativa che non può dispiacere a Dio (nel 1996 Yusuf Islam scrisse un
lungo articolo per Musica di Repubblica in cui spiegava perché, secondo la legge
islamica, gli era proibito continuare il mestiere di cantautore).
"Fare un altro disco non è stata una decisione premeditata ma presa col cuore,
d'istinto, come molte delle cose che faccio", spiega Yusuf, 58 anni, che ora
vive con la famiglia tra Londra e Dubai, negli Emirati Arabi. "Con gli orrori e
le guerre che popolano il mondo, questo è il momento in cui, come musulmano, ho
sentito il bisogno di cantare una canzone. Perché non l'ha fatto prima?, vi
chiederete. Perché non ci sono canzoni se non c'è ispirazione, e l'ispirazione è
qualcosa di inafferrabile che non puoi pianificare".
Cat Stevens 30 anni fa
Le prove generali del ritorno c'erano state a Città del Capo, il primo dicembre
2003, quando Yusuf si era presentato sul palco accompagnato da Peter Gabriel per
cantare Wild world, cavallo di battaglia di Cat Stevens, davanti a Nelson
Mandela. "L'accoglienza che ho avuto in Sudafrica ha certamente accelerato il
processo, anche se ho partecipato a quel concerto per una buona causa, la lotta
contro l'aids. Gabriel è un esempio perfetto di come si può essere un artista
pop con un preciso ordine del giorno e idee brillanti. Lo sa che Peter suonava
il flauto in un paio di canzoni dell'album Mona Bone Jakon, nel 1970?".
Cantare a un evento benefico gli era sembrata l'unica soluzione per uscire dal
silenzio anche nel 1985, quando decise di partecipare al Live Aid. Era dietro le
quinte con la chitarra, pronto a salire sul palco, ma l'esibizione di Elton John
durò più del previsto e gli organizzatori tagliarono il suo numero senza neanche
avvertirlo. "L'estate scorsa Veltroni mi ha invitato a cantare al Colosseo, non
ero pronto, non ce l'avrei fatta. L'anno prossimo magari...", dice, abbozzando
un sorriso dolcissimo.
Non ha voglia, oggi, di rivangare le umiliazioni subite in questi anni: le
accuse (fondate) di appoggiare la destra islamica di Erbakan in Turchia quando,
finanziato da un gruppo di industriali tessili di Merter, Istanbul, tenne una
serie di conferenze in Germania che avevano tutto il sapore di una campagna
elettorale per "orientare" i voti degli immigrati; nel 1990 e nel 2000 Israele
gli ha negato il visto d'ingresso; nel 2004 gli Usa lo hanno rimpatriato come un
terrorista dopo un volo Londra-Washington, da dove avrebbe dovuto proseguire per
Nashville per una seduta di registrazione con Dolly Parton.
Pur avendo ripetutamente negato di aver appoggiato la fatwa pronunciata
dall'ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie in seguito alla pubblicazione dei
Versetti satanici, Yusuf Islam è stato per anni considerato un fondamentalista
per il rigore con cui ha abbracciato la nuova religione e ne ha seguito alla
lettera i comandamenti.
"Per molti anni ho agito secondo il punto di vista sulla musica dell'Islam più
conservatore, espresso da teologi che non riescono a ipotizzare nessun legame
tra il nostro mondo e la cultura islamica", ammette Yusuf. "Ma ho continuato a
studiare, ho riflettuto: il blues arriva dall'Africa, dalle navi negriere che
trasportavano indifferentemente cristiani e musulmani. Ho scoperto solo di
recente quanto grande sia stato il contributo della cultura islamica allo
sviluppo della musica in Europa e alla diffusione della chitarra. Ci sono
ricerche che dimostrano che lo strumento è un'evoluzione del liuto in terra di
Spagna. Anche le prime forme di intrattenimento derivano da una parola araba,
taraba, che ha poi dato origine a trovatore, un tipo di cantastorie che è nato
nella società islamica. Poi... l'amore per le arti, la medicina, la ricerca
scientifica: invece se guardi nei libri di storia c'è un gap enorme in queste
discipline tra il Settecento dopo Cristo e il Sedicesimo secolo, come se niente
fosse accaduto tra il periodo greco-romano e il Rinascimento. Da questa
consapevolezza, immaginazione e creatività hanno cominciato a prendere il
sopravvento. Senza ovviamente varcare i limiti della moralità, perché rimango
dell'idea che c'è buona e cattiva musica, e non parlo solo di qualità, ma di
influenze negative, di canzoni studiate appositamente per stimolare i più bassi
istinti".
Il rigido dogmatismo di un tempo ha lasciato spazio a una più equilibrata
consapevolezza. Qualche settimana fa, per la prima volta dopo molti anni, Islam
ha ripercorso insieme a un giornalista della Bbc tutti i luoghi di Soho, nel
cuore di Londra, dove è nato e cresciuto. A partire dal ristorante di suo padre,
che aveva un nome peccaminoso, Moulin Rouge (oggi è un bar della new economy, si
chiama Nama, è al numero 245 di Shaftesbury Avenue). Inoltre, sulla copertina
del disco ha voluto solo il suo nome, Yusuf, come se "Islam" fosse una
connotazione troppo impegnativa, quasi blasfema, da abbinare a un album di
musica pop.
Un ulteriore segno di distensione? "Ho preferito accorciare il nome affinché il
pubblico non avesse pregiudizi di fronte a quello che ascolta, anche se l'Islam
rimane parte integrante della mia essenza, del mio comportamento, del mio
carattere", precisa. Ripensando all'adolescenza trascorsa a Soho, Yusuf ha anche
inciso un classico degli anni Sessanta, Don't let me be misunderstood. "Quella
canzone mi fa pensare a Nina Simone: se c'è qualcuno che ha influenzato il mio
modo di cantare è stata lei. Interpretò, I've got life, una canzone del musical
Hair, che a Londra andava in scena in un teatro davanti a casa mia. Sono
cresciuto con Hair. Gli anni Sessanta? Anni di cambiamento, come quelli che
stiamo vivendo: anche oggi dobbiamo cambiare e adattarci. E gettare dei ponti:
questo è lo scopo del mio lavoro".
Chissà come avranno reagito i suoi figli, quando hanno visto quello speciale
sulla Bbc, e Fouzia, che non esce mai senza coprirsi il capo. "La mia famiglia,
a esser sincero, non ha mai perso il contatto con Cat Stevens. I ragazzi hanno
ascoltato tutti i miei dischi e sanno più cose di me di quante io ne ricordi.
Credo che mio figlio Muhammad sia stato fortemente influenzato dall'artista che
ero prima di diventare musulmano. Non l'ha mai detto apertamente: ma il suo più
grande desiderio era che io tornassi a fare musica. È stata sua madre - si sa,
le mamme sono più accondiscendenti - a comprargli la prima chitarra, una Gibson
nera che assomiglia moltissimo a quella che usavo io un tempo. Tutto quello che
c'era da imparare in musica dopo trent'anni di silenzio, l'ho appreso da lui".
Muhammad Islam ha covato a lungo l'idea di diventare cantautore, ma non aveva il
coraggio di dirlo a suo padre. Affinché i suoi ragazzi ricevessero un'educazione
rigorosamente islamica, Yusuf fondò nel 1983 la Islamia School, nel quartiere di
Kilburn, a due passi dalla sua residenza e dallo studio di amici architetti dove
lo abbiamo incontrato per il suo ritorno discografico. Non è stato dunque facile
per il ragazzo comunicare al padre la sua scelta. Nel 1996, quando incontrammo
Yusuf a Istanbul, gli chiedemmo cosa avrebbe fatto se uno dei suoi figli avesse
deciso di seguire le orme di Cat Stevens: "Non è un'eventualità che considero
reale. I ragazzi sanno come vivono gli occidentali e non ne sono attratti",
rispose. Ora di fronte alla stessa domanda, con Muhammad che domani pubblica il
suo primo disco con lo pseudonimo di Yoriyos, dice: "So che mio figlio ha
taciuto per anni la sua passione. Ma la vita va avanti e noi apprendiamo. In
questi anni ho anche imparato a fare il padre e ho messo in piedi organizzazioni
benefiche che sono di grande aiuto ai problemi del mondo. Le canzoni non sono
sufficienti a far del bene".
C'è un verso di Don't let me be misunderstood che recita: "Non sai che nessun
essere umano può essere un angelo?". Sembra scritto per l'ex Cat Stevens, che
agli occhi del pubblico ha vissuto trent'anni come un monaco, un semiangelo al
servizio di Allah. "Sono cresciuto con una rigida educazione cattolica, anche se
mio padre era greco ortodosso (sua madre era svedese, ndr)", conclude Yusuf, che
il 3 dicembre sarà ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa e l'11 si esibirà al
Nobel Peace Prize Concert a Oslo. "È naturale che lo scopo finale della mia vita
fosse la redenzione dai peccati. Ma non sapevo come farlo. Tutto sommato è
facile vivere da monaco, o da angelo, fino a quando qualcuno non viene a
strapparti le piume. Più difficile è vivere in questo mondo e mantenere un
equilibrio morale; l'Islam mi ha offerto una soluzione per riuscirci. Quando
avevo sette anni, chiesi a una suora: "Quando cominciano gli angeli a scrivere i
nostri peccati"? Rispose: "Quando avrai otto anni!". Ecco, io nella mia vita ho
fatto di tutto per rimanere un angelo".
(26 novembre 2006)
La notizia che il regime sunnita dei
talibani aveva bandito ogni tipo di musica e tolto di mezzo senza tanti
complimenti quei musicisti maldisposti a piegarsi ai loro diktat, ha fatto il
giro del mondo. Anni addietro, in Iran, fu Khomeini a fare da apripista in
questa condanna della musica, che egli definiva “oppio della gioventù”. Ma
questo attivismo forsennato vanta militanti non meno solerti, dai terroristi
algerini (la lista dei musicisti caduti sotto i loro colpi è lunga: Cheb Hasni,
Cheb Aziz, Lila Amara, Rachid Baba, Ali Ahmed, Lounés Matoub...), ai gruppi
integralisti egiziani che alla fine degli anni '80, giunsero a minacciare di
morte persino un grande autore come Mohammed Abdel-Wahab, universalmente amato e
ammirato in tutto il mondo arabo.
Censura, sport antico
In realtà la censura della musica è uno sport antichissimo. Con esso si sono
fatti i muscoli papi, inquisitori, mullah, dittatori e codini varia caratura. In
parecchi ricorderanno la minicrociata imbastita qualche anno fa nel nostro paese
contro il rock in quanto musica satanica. Pochi invece ricorderanno la Roma dei
Sei e Settecento, quando i papi erano soliti imporre la chiusura dei teatri
d'opera come luoghi di perdizione. Al pari dell'Islam, tutta la storia musicale
dell'Occidente cristiano è costellata di ricorrenti rigurgiti censori,
all'insegna della moralizzazione dei costumi o della restaurazione di una musica
liturgica più castigata: dall'America dei quaccheri (o di Tipper Gore), ai
“bruciamenti della vanità” di Girolamo Savonarola, alla famigerata crociata
contro catari e albigesi il cui obiettivo fu la distruzione della cultura laica
fiorita nel sud della Francia e che, grazie all'accanimento dell'Inquisizione
nel perseguitare musicisti e poeti, riuscì a disperdere l'ambiente trovadorico
(si arrivò al punto di proibire – pena l'accusa di eresia – anche solo di
canticchiare per strada le canzoni dei trovatori).
Così come le altre religioni fedeli alla Bibbia, da sempre l'Islam ha dei conti
in sospeso con la musica.
Musica-canto-danza-corpo-ubriachezza-lussuria-peccato-vizio-Satana: cristiani,
ebrei e musulmani sono accomunati nel millenario chiosare questo crescendo
ossessivo e sessuofobico; mai presente apertamente nei testi sacri, ma sempre
aleggiante nella tradizione dei padri dove dilagano ammonimenti e divieti a non
finire. Storicamente la diffidenza nei confronti della musica da parte delle tre
religioni monoteiste sembra derivare in parte dalla comune reazione alla
sopravvivenza dell'antica tradizione pagana mesopotamica, dove la musica era
largamente affidata a interpreti femminili particolarmente abili nel canto,
nella danza e in ogni arte di dare piacere all'uomo. Ne sono un esempio le
celebrate qaynat, schiave particolarmente avvenenti che in epoca pre-islamica,
nelle corti e nelle città della penisola arabica, allietavano le notti dei
signori o dei clienti facoltosi. Di questa realtà Maometto fece esperienza
diretta, e ciononostante il Corano non si abbassa a fare giustizia sommaria
della musica, anche perché essa vantava avvocati autorevoli fra i quali – uno
per tutti – Re Davide con la sua arpa e i suoi salmi. In effetti nel Corano non
c'è nessun giudizio esplicito sulla musica, né pro, né contro, ma gli hadith
pullulano di sentenze che definiscono la musica haram (proibita) e interpretano
alcuni versetti del Corano – là dove si menzionano la voce seducente di satana,
il crogiolarsi nelle vanità o in discorsi oziosi che sviano dalla fede – come
una condanna della musica in quanto tale.
La dignità della musica
Poniamo che oggi in Germania un'autorità religiosa si scagli contro la musica in
quanto moralmente corruttrice. La notizia troverebbe un'eco divertita nelle
pagine di cronaca o di costume. Se questo accadesse in Italia la cosa finirebbe
come minimo sulle prime e le terze pagine (in fin dei conti, siamo pur sempre il
paese nel quale il governo affida a un prelato il compito di stendere il codice
deontologico degli insegnanti di scuola). Ma se qualche autorità religiosa
islamica condanna la musica dopo aver consultato il Corano, sunna e hadith, la
faccenda produce precise conseguenze giuridiche e penali sanzionate dalla shari'ah.
Verrà ordinata la chiusura dei locali e dei cinema, e la polizia religiosa
interverrà per punire i trasgressori, non molto diversamente da quanto accadeva
all'epoca dell'inquisizione, oppure nello Stato pontificio fino a due secoli fa.
Eppure proprio l'Islam è la culla di un movimento spirituale che ha elevato la
musica a una dignità senza uguali, facendone il mezzo privilegiato per
raggiungere la completa comunione con Dio. Dalla Persia alla Turchia, dal
Pakistan al Maghreb, la diffusione del tasawwuf, movimento mistico e esoterico
meglio noto col nome di sufismo, si avviò fin dal VII secolo, radicandosi nella
coscienza popolare grazie a una dottrina i cui richiami all'interiorità e alla
fratellanza facevano più presa della proliferante e sempre più involuta
precettistica dei mullah. Vestiti di una tunica di lana (suf), i dervisci si
raccoglievano, allora come oggi, in confraternite di asceti iniziati alla tariqa
(via) e alla pratica del sama (ascolto), ossia la meditazione musicale che
risveglia nell'anima il ricordo della sua origine e la porta intonare l'armonia
del cosmo in unione con Dio. Nel dhikr (evocazione di Dio), la grande preghiera
del sufismo, il canto, la musica, la danza (quella roteante delle confraternite
Mevlevi è divenuta celebre in Occidente), le invocazioni ad Allah, proseguono
per ore sotto la guida di uno shaykh, fino al raggiungimento dell'estasi mistica
in una trance collettiva.
Non toccate Nusrat
Televisione italiana, qualche giorno dopo l'11 settembre. Sulle immagini di
talibani che brandiscono i loro kalashnikov scivola una musica meravigliosa e
familiare: è musica religiosa, un canto estatico, dal fervore veemente, intonato
dalla voce ineguagliabile di Nusrat Fateh Ali khan, pachistano e musulmano
profondamente credente. Perfetto dunque, in apparenza, come gadget sonoro, ma
devastante come esempio di mistificazione, poiché quella musica è associabile a
tutto tranne che all'odio o alla guerra. Nusrat, morto prematuramente nel 1997,
straordinario interprete di qawwali, la musica devozionale del sufismo
pachistano, non ha mai aperto bocca se non per cantare parole d'amore e di
fratellanza, in linea con il credo più autentico della sua fede di musulmano e
di sufi, un credo ridotto oggi al silenzio dai totalitarismi fondamentalisti. Se
la trasmissione avesse parlato delle lacerazioni in seno all'Islam più
illuminato, spirituale e tollerante, quella musica sarebbe stata un commento
adeguato. Ma certe finezze non appartengono alle consuetudini della nostra tv.
Elite spirituale, artistica e intellettuale che annovera alcuni fra i massimi
pensatori e poeti dell'Islam (come al-Ghazali, Imn al-'Arabi, Jalal ad-Din Rumi),
non di rado il sufismo è entrato in conflitto con l'ortodossia di stato in virtù
della sua visuale metafisica, del suo ascetismo intriso di pietas
sovraconfessionale, e per quel suo costante richiamo alle parole della seconda
sura sistematicamente rimossa dagli jihadisti – si chiamino Mullah Omar e Baget
Bozzo: “Quelli che credono, quelli che praticano il Giudaismo, quelli che sono
Cristiani e Sabei, quelli che credono in Dio e nel Giorno Ultimo, quelli che
fanno il bene: ecco coloro che troveranno la propria ricompensa presso il loro
Signore”.
Considerato questo retroterra di pensiero mistico e universalista, non è affatto
casuale che la musica del sufismo, dai dervisci rotanti al qawwali, abbia
conquistato tanta popolarità in Occidente, adattata spesso in formati da
esportazione o proposta sui banconi della new age. La storia recente di questa
“scoperta” ci riporta agli anni '50, quando William Burroughs, Brion Gysine, via
via, Paul Bowles, Brian Jones, Ornette Coleman e altri ancora si imbatterono
nella musica sufi del Marocco. Da allora l'Occidente non ha cessato di
inebriarsi alla fragranza di un neo-esotismo musicale sentito come l'avvio di
una nuova epoca multiculturale. Vent'anni fa, in My life in the Bush of Ghost,
Brian Eno e David Byrne campionarono brani di musica religiosa islamica
sposandoli al sound dell'ambient-rock. Qualche anno dopo, Passion (colonna
sonora del film di Scorsese The Last Temptation of Christ), Peter Gabriel
chiamava a raccolta artisti armeni, turchi, pakistani, senegalesi, ecc., fra i
quali musicisti sufi del calibro di Kudsi Erguner e Nusrat Fateh Ali Khan. La
fortunata avventura discografica di real World aveva inizio.
Agli occhi dell'Islam più puritano questo successo internazionale presso un
uditorio di infedeli, la crescente popolarità delle star del pop arabo,
l'imitazione della way of life americana, la persistente alluvione di cassette e
video di danza del ventre che nei bazaar del mondo arabo stuzzicano la goloseria
dei turisti, hanno assunto le fattezze di un dilagante costume sacrilego. Così,
più l'Occidente l'applaude, più i giovani arabi se ne invaghiscono, più questa
musica viene identificata nell'emblema stesso della “miscredenza”, il germe più
subdolo e diabolico con cui l'Occidente ossia Satana penetrano e aggrediscono
l'Islam.
Quel rocker di Satana
Che il fondamentalismo consideri la musica, la televisione, il rossetto, e ogni
specie di divertimento o di frivolezza come mezzi coi quali il satana
occidentale si infiltra nel mondo islamico è comprensibile: sono proprio questi
gli aspetti più diffusi e capillari dell'occidentalizzazione. Il che nulla
toglie all'efferata crudeltà mentale con la quale si vuole estirpare questo
“cancro”, negando alla povera gente anche l'ultimo spiraglio di umana
consolazione. Tuttavia, in un paese con l'Afghanistan, dove il capo dei servizi
segreti è un mullah, la motivazione ufficiale del divieto non sarà politica,
bensì religiosa e dunque molto più tremenda e inappellabile. La musica è
peccaminosa perché allontana da Allah, distoglie dalla preghiera, dal dovere
della jihad, dall'obbligo del lutto. Così, quando nelle moschee si tuona contro
il satana occidentale, con micidiale automatismo ideologico scatta l'equazione:
satana=occidente=musica. Se ascolti musica di nascosto, non solo sei un
peccatore, ma anche un complice del nemico.
Come spiega Naim Majroh, direttore dell'Afghan Information Center di Peshawar
che fornisce assistenza ai musicisti afgani in esilio, in Afghanistan il recente
furore fondamentalista ha avuto il suo catalizzatore negli effetti della brutale
intromissione sovietica nella vita musicale e culturale del paese. Assunto il
controllo della televisione, i russi avviarono una programmazione a base di
spettacoli di varietà, aprirono una quantità di locali, e impiantarono un
fiorente show business per il quale venivano reclutati a forza giovani
musicisti, ma soprattutto cantanti e ballerine. Ma lo show business sconfinava
spesso nel malaffare, con teenagers che a quanto pare dal palcoscenico venivano
dirottate alle feste private degli alti ufficiali delle truppe di occupazione.
Mujaheddin, vizi e virtù
John Baily, docente al Goldsmith College di Londra, ha dedicato alla censura
musicale in Afghanistan uno studio approfondito consultabile online al sito
http://www.freemuse.org/03libra/pdf/Afghanistan.pdf dal titolo Can you stop the
birds singing?. Fu nel 1992, subito dopo che i mujaheddin ebbero riconquistato
Kabul, che cominciarono le prime misure repressive, via via più severe, cui
venne preposto l'Amr Bil Marof Wa Nahi Anil Munkar (Ufficio per la propagazione
della virtù e la prevenzione del vizio) istituito dal governo del presidente
Rabbani. Ma non tutti i leader mujaheddin erano d'accordo (pare ad esempio che
Massud non ne volesse sapere di provvedimenti del genere). Ciononostante nel
1995, il primo ministro di Rabbani, Hektyamar, estese i divieti, fece chiudere i
cinema e bandì completamente la musica e le donne da radio e televisione. Pochi
mesi dopo, quando i talibani conquistarono il potere, il terreno era già
ampiamente concimato.
Come si è letto e sentito, uno dei primi provvedimenti dei mujaheddin vittoriosi
è stato proprio la liberalizzazione della musica e della televisione. Tanta
premura la dice lunga su quanto detestato e insopportabile fosse quel
proibizionismo e, insieme, svela il clamoroso e demagogico trasformismo dei
mujaheddin che, da censori della prima ora, si convertono oggi il libertari; a
riprova di come questi divieti, nonostante il sedicente richiamo alla tradizione
religiosa (una tradizione ampiamente manipolata, come sostengono molti
studiosi), siano strumenti di puro controllo politico. Colpisce, infine, l'eco
che questa repentina liberalizzazione ha suscitato in Occidente, al punto da
essere salutata non senza enfasi come ritorno alla vita, uscita dal Medioevo
ecc. In questo vistoso compiacimento per la vittoria di un modello di vita che
in effetti l'Occidente sente come proprio, si coglie un'euforia globalizzatrice
che viene propagandata senza guardare troppo per il sottile e che è speculare a
quel fondamentalismo che vi indentifica invece il proprio nemico.
Se è lecito parlare di destino, quello della musica arabo-islamica sembra
particolarmente crudele. Fin dall'inizio essa fu veicolo privilegiato del
dialogo e dell'integrazione fra culture e religioni diverse, a partire da
quell'inesauribile laboratorio multietnico che fu nel Medioevo la Spagna degli
Omayyadi, passando attraverso l'altissima spiritualità del sufismo, fino ai
giorni nostri quando la world music risuona come ambigua ma emozionante smentita
a Huntington, alla sua teoria del clash of civilizations e all'avvilente codazzo
mediatico dei suoi seguaci dell'ultim'ora cui non par vero di fare la
telecronaca della fine del mondo. Per questa tradizione culturale millenaria,
soggetta fino ad allora a mutamenti limitati, l'impatto con l'Occidente del XX
secolo è stato un terremoto che ha esasperato la natura inquisitoria del sistema
teocratico, facendo esplodere il conflitto fra rinnovamento e conservazione.
Vuoi per la sua insopprimibile vocazione interculturale, il suo umanesimo
libertario, vuoi per quel richiamarsi alla pura interiorità spirituale è proprio
la musica a subirne le conseguenze più pesanti. Ma già lo sapevamo: laddove (e
non solo in seno all'Islam) una società civile è presa nella morsa inesorabile
di un potere fondato sui dogmi della fede o dell'ideologia, la musica o è
strumento di potere e di manipolazione delle coscienze, oppure diviene
intrinsecamente eversiva, sacrilega, eretica, degenerata, detonatore e bersaglio
di tutte le xenofobie e gli oscurantismi possibili.
Giordano Montecchi – L'UNITA' – 24/11/2001