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Costume e società: Poligamia in Italia, la moglie che accusa il capo Ucoii. Il racconto: così Piccardo mi ha sposata e poi ripudiata con un sms. La donna si è vendicata

Rassegna stampa

dal Corriere della Sera

 

ROMA — Il primo dicembre vi avevamo raccontato di uno scandalo sessuale a sfondo poligamico, in cui Lia, curatrice del blog Haramlik, denunciava di essere stata ripudiata da un non meglio specificato «Mullah di noialtri». Ebbene ora siamo in grado di svelarvi il nome: Hamza Roberto Piccardo.
Ed è Lia, professoressa di Letteratura che insegna a Genova, a rivelarlo: «L’ultima cosa che vorrei fare è ritrovarmi ad avere partecipato, con la mansuetudine di un capretto, alla grottesca messa in scena di una scenografia religiosa entro cui ambientare il porno amatoriale più banale del mondo, con Hamza Piccardo e Lia di Haramlik nei titoli di testa, in un tripudio di buon esempio. Ma ti prego. Fare da utile idiota, imbarazzata e silente, ai vitelloni da moschea. Non scherziamo».
Piccardo è il segretario nazionale dell’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia), il personaggio più in vista e più controverso dell’islam in Italia. Sposato civilmente con una marocchina dopo il divorzio dalla prima moglie italiana, dalle quali ha avuto complessivamente 5 figli, lo scorso marzo Piccardo ha contratto un secondo matrimonio con Lia, nella moschea di Verona. Senonché a luglio Piccardo l’ha ripudiata, comunicandole in modo sprezzante la sua brusca e unilaterale decisione tramite un sms.
A quel punto Lia si è ribellata e ha avviato una campagna mediatica all’interno del suo blog, per ottenere il riconoscimento dei suoi diritti di moglie divorziata, nonché per protestare contro «quest’islam semplificato a misura di cretino, questo giochetto pseudo-islamico che va in onda tra i quattro dementi che hanno avuto la ventura di trovarsi nel posto giusto al momento giusto con la religione giusta e che ne hanno fatto una rendita di potere spicciolo da miserabili ».
In una email indirizzata a Piccardo, datata 7 ottobre 2006 e che pubblichiamo per la prima volta, Lia chiarisce le ragioni per cui intende rivelare tutto, proprio tutto, di una esperienza che definisce un «delirio sado-poligamico»: «L’ultimacosa che vorrei fare, nella mia vita, è ritrovarmi omertosa, a coprire col mio partecipativo silenzio una prassi pseudomatrimoniale di bassissima lega, un uso becero della poligamia, una burocrazia religiosa adoperata come mero preservativo spirituale».
 

La missiva inizia così: «Caro Hamza, come sai, ho esercitato nei tuoi confronti — per diversi mesi e con generosità— l’islamica virtù della misericordia verso le tue debolezze, incoerenze e mancanze. Purtroppo, non mi è più possibile continuare a ostinarmi nel credere nella tua buonafede».

Lia sintetizza così la decisione di sposarsi: «Tu ti sei presentato da me come rappresentante e punto di riferimento, in questo Paese, di una religione e di una causa per cui io mi spendevo da anni (...) Arrivi tu e decidi che mi devi urgentemente sposare, in nome della tua profonda fede nell’islam e in barba a qualsiasi mio ed altrui richiamo alla sensatezza (...) Hai goduto di un’apertura di credito da parte mia, invece, figlia proprio della mia attrazione e del mio rispetto per quell’islam che con tanto ardore rappresenti, ed ho accolto la tua sfida: "Fidati di me e sposami subito". "D'accordo".

Capivo bene, e la continuo a capire, la tua urgenza di metterti in condizione di "potere restare dietro una porta chiusa" con la sottoscritta. Solo che l’obbligo di contrarre matrimonio prima di poterlo fare non si esaurisce, per un musulmano, nella ripetizione burocratica di una formuletta. Il matrimonio islamico non è una magia o un miracolo che trasforma la carne femminile da haram ad halal, a mo’ di cristiana trasformazione dell’acqua in vino.

Il matrimonio islamico serve a garantire alle donne dei diritti, ed è in questi diritti che si riflette la coscienza dell’uomo. (...) Di questi miei diritti, di questi tuoi doveri, non se ne è vista manco l’ombra».
Lia lamenta l’assenza di un «normale rapporto affettivo tra persone serie, adulte e perbene», denuncia un comportamento violento («eri ormai talmente arrogante da concederti il lusso di tirarmi uno schiaffo») ma soprattutto rivela il prevalere di un comportamento morboso per il sesso: «Sei arrivato al punto di dirmi, nella stessa chat, che "no, questa settimana non vado a Milano, non posso portarti neanche una scatola" e poi, poche righe più sotto, spiegarmi nei dettagli che "se adesso venissi da te, slurp, ti farei questo e quello". Non so: cosa te la sposi a fare una donna se poi, in barba persino ai tuoi doveri di assistenza nei tre mesi successivi al divorzio, non ti chiedi sotto quale ponte stia andando a sbattere, e tutto quello che sai fare è esporle i tuoi sogni erotici quando ti gira di chiamarla?
Cosa c’entra l’islam? Cosa c’è di islamico nel non assumersi nemmeno l’ultima delle responsabilità: quella di avere le palle di stare zitto e viverti i tuoi languori in silenzio, fosse solo prendendo esempio dalla donna che, con tutto il fegato che tu non hai, in silenzio assoluto si sciroppa un incubo intero?

Che cos’è esattamente il matrimonio islamico targato Ucoii, segretario nazionale dei miei stivali? Come ti permetti, come vi permettete di chiamare "islamico" un simile sconcio?».

Lia chiede «il mio risarcimento, buonuscita o dono di consolazione», quantificandolo in 20 mila euro.
Ammonendolo che se Piccardo non accetterà la richiesta entro il 13 ottobre, «impegnerò tutte le mie energie per fare chiarezza su ciò che, a quel punto, sarebbe inequivocabilmente confermato come un uso fraudolento e blasfemo di una supposta benedizione divina sui coiti realizzati sotto l’egida dell’Ucoii, a partire dai tuoi». La condanna dell’Ucoii è netta: «L’esercizio istituzionalizzato da parte di un’organizzazione a sfondo religioso di prassi che, nel mondo arabo—sto pensando al matrimonio orfi (segreto, ndr) egiziano — vengono percepite come una forma di prostituzione legalizzata, è disdicevole. A volere essere gentili».

Nel finale Lia dà libero sfogo al proprio sarcasmo: «Non mi sfugge, per contro, la ricaduta a breve termine che la pubblicizzazione delle nostra esemplificativa vicenda potrebbe avere sui musulmani del nostro Paese che, davvero, non meritano di essere rappresentati e messi in imbarazzo da un Alberto Sordi dell'islam italiano».
Fino al 30 dicembre scorso, Lia nel suo blog ha minacciato di fare il nome di Piccardo: «Dovrei raccontare, a questo punto, dell’ultimo acquisto della galleria di mostri di cui è composto l’islam italiano che ho la ventura di conoscere. Non so se ne ho voglia. Eppure, scriverne si deve». Ebbene ora sappiamo chi è il protagonista di questa telenovela «sado-poligamica» dell’islam italiano.

Non è l’unico e non sarà probabilmente l’ultimo di cui vi racconteremo la storia intima, di per sé squallida,ma di cui dobbiamo occuparci. Perché sono questi «musulmani di professione» gli interlocutori che lo Stato predilige e che, grazie all’imperversare dell’ignoranza, del buonismo e della collusione ideologica, stanno già praticando la sharia islamica in Italia. Non ci resta che sperare nelle donne che, al pari di Lia, ci costringano ad aprire gli occhi.
Magdi Allam
16 gennaio 2007

 

ISLAM E DIRITTO

 Il matrimonio, un contratto che non si celebra in moschea

Se un funzionario del culto cristiano o ebreo, o un personaggio pubblico laico, si fosse reso protagonista della flagrante violazione di un codice sociale, etico e giuridico paragonabile allo scandalo del «matrimonio sado-poligamico» che ha investito HamzaRoberto Piccardo, l’Italia sarebbe stata sconvolta da un terremoto mediatico e politico. Ma nel caso del leader islamico la reazione è stata contenuta. Poche le voci critiche, prevalentemente di centro-destra, per quanto sulla difesa della parità dei diritti tra uomo e donna e della famiglia monogamica si dovrebbe assistere a una convergenza trasversale. C’è un generale imbarazzo, se non paura, a confrontarsi con la realtà della poligamia celebrata e praticata da cittadini italiani e immigrati musulmani. Allora cominciamo con il dire che il segretario nazionale dell’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia) non ha soltanto infranto dei valori su cui si fonda la società italiana, ma ha oltraggiato i valori su cui si fonda il matrimonio islamico. È arrivato il momento di smontare la grande menzogna dell’Ucoii secondo cui il matrimonio islamico sarebbe un sacramento e dovrebbe essere celebrato in moschea. Quindi sottoposto all’arbitrio dell’Ucoii che rivendica il controllo delle principali moschee italiane.
La verità è che nell’islam il matrimonio è esclusivamente un contratto privato sottoscritto dal marito e dalla moglie, registrato da un notaio matrimonialista, dipendente dal ministero della Giustizia, in un apposito registro depositato presso lo stesso ministero. Così come la cerimonia è assolutamente laica e viene celebrata in casa. È il notaio, che in Marocco si chiama adul e in Egitto ma’zun, che si reca nell’abitazione degli sposi, concorda i termini del contratto che possono, ad esempio, includere le condizioni per il divorzio, e successivamente raccoglie le firme dei coniugi consenzienti. E proprio perché si tratta di un atto notarile privato, le condizioni del matrimonio possono cambiare a seconda della volontà dei coniugi. E proprio perché la materia attiene al diritto civile, il «contratto di matrimonio» si evolve o meno a seconda del livello di emancipazione delle donne e della società. Per contro l’Ucoii, così come emerge anche dall’audizione del suo presidente Nour Dachan presso la Commissione Affari costituzionali della Camera lo scorso 10 gennaio, sta tentando di imporre una versione sacramentale del matrimonio, che ricalca quello religioso cristiano, consono alla strategia tesa a accreditare il potere dei Fratelli Musulmani in Italia.
Nel caso specifico di Piccardo si è precipitati nell’ipocrisia umana e religiosa, laddove ha ridotto il matrimonio islamico a una «storia» che «rientra nella sfera del privato di ciascuno», e ha ridotto il rito celebrato in moschea a «delle promesse fatte in buona fede, delle intenzioni davanti aDio, che poi può capitare che non si concretizzino». Ebbene se si fosse comportato allo stesso modo, stipulando un matrimonio con modalità segrete, ripudiando la moglie con un sms e negandole i diritti previsti dal divorzio, sarebbe stato legalmente sanzionato in Egitto, Marocco, Tunisia o Turchia. Ma in Italia non avrà conseguenze, dato che quel pezzo di carta consegnatoli dall’imam non ha alcuna rilevanza civile. Èproprio questo aspetto ciò che tranquillizza tutti. I musulmani poligami sanno che non sono perseguibili e i legislatori italiani sanno che non hanno violato la legge. Quindi è tutto a posto perché formalmente non c’è stata alcuna infrazione. A questo punto il problema non è più l’Ucoii o Piccardo, bensì quelli che Ivana Bartoletti, responsabile nazionale Diritti civili dei Ds, definisce «uno stuolo di detrattori» che «paventano rischi inesistenti come quello della poligamia». Ma c’è anche chi si spinge oltre, come il Consiglio comunale di Padova, che lo scorso 4 dicembre ha attribuito la certificazione di «famiglia anagrafica » alle «persone che vivono in convivenze non matrimoniali», legate tra loro anche soltanto da «vincoli affettivi». Ebbene quattro professori di Diritto privato comparato (Diego Corapi, Federica Giardini, Antonello Miranda, Maria Donata Panforti), hanno espresso la preoccupazione che ciò porti alla legalizzazione della poligamia con le conseguenze sul piano delle adozioni, pensioni, successioni, responsabilità nel settore medico, riflessi nel diritto penale e processuale civile. Il rischio è che il rapporto poligamico venga considerato nell’ambito dei diritti individuali e finisca per essere legittimato come un Pacs. Quando per l’Ucoii è parte integrante di una strategia di penetrazione e islamizzazione dell’Italia. Sarebbe veramente tragico se riuscissero a realizzare da noi ciò che è vietato loro nei Paesi musulmani. Perché ciò non accada bisogna impedire che il matrimonio venga celebrato nelle moschee e istituire un registro pubblico dei matrimoni islamici che sia del tutto conforme alle leggi dello Stato
Magdi Allam
17 gennaio 2007
 

Matrimonio e divorzio nell'Islâm 

 

Del matrimonio (nikâh), del ripudio revocabile (raja), del giuramento solenne di castità (dhihâr), del giuramento di castità a termine (ilâ'), dell'antema (li'an), del divorzio ottenuto dalla donna per mezzo della restituzione di una parte o di tutta la sua dote (khul) e dell'allattamento (radâ').

 

 Il wali (tutore matrimoniale), la dote (dono nuziale, sadaq) e due testimoni di perfetta onorabilità sono necessari perché il matrimonio sia valido. Se il marito e il tutore matrimoniale non abbiano richiesto la testimonianza dei suddetti testimoni durante la formazione del contratto, il marito non potrà consumare il matrimonio prima che questa formalità sia compiuta.

Il minimo della dote (dono nuziale) è di un quarto di dinâr d'oro.

Il padre può far sposare la propria figlia vergine senza il consenso di quest'ultima anche se sia pubere. Se vuole, la può consultare.

Ma, sempre nel caso di una ragazza vergine, un altro (wali) che non sia il padre, cioè il tutore testamentario (del padre) o un altro, non potrà farla sposare finché non diventi pubere, e finché non dia il suo consenso, che è considerato come acquisito se stia zitta.

La ragazza pubere, sana di mente e di condizione libera, deflorata diversamente che in maniera accidentale o per fornicazione (thayyib) non può essere fatta sposare, né dal padre né da un altro, se non col suo consenso esplicito.

La donna non può essere sposata che con l'autorizzazione del suo tutore matrimoniale, o di qualcuno conosciuto per la saggezza delle sue opinioni, come per esempio un uomo appartenente alla sua tribù o il sovrano stesso. Ma per ciò che riguarda la donna di bassa condizione e poco ricercata, vi è controversia per sapere se possa prendere un estraneo come tutore matrimoniale.

Il figlio della donna è più qualificato del padre della stessa per essere il suo tutore matrimoniale. Il padre della donna è però più qualificato del fratello di questa. Insomma, è l' 'asab[1] più prossimo ad essere il più qualificato. Tuttavia, se un lontano parente assuma il ruolo di wali, il matrimonio sarà valido.

Il tutore testamentario può far sposare il giovane ragazzo sotto la sua tutela, ma non la ragazza, a meno che il padre di questa non glielo abbia ordinato. I parenti uterini (dhawû'l-arhâm) non sono tutori matrimoniali, poiché questi sono scelti tra gli 'asab.

Non si dovrà chiedere la mano di una donna già chiesta da un altro Musulmano, non si dovrà aumentare la dote già offerta da un altro, quando degli accordi in vista del matrimonio siano già stati presi.

Il matrimonio shighâr, che consiste in uno scambio di donne[2], non è valido, così come il matrimonio senza dote, o il matrimonio a termine (nikâh al-mut'a), o il matrimonio concluso nel corso del periodo di ritiro legale ('idda), o quello la cui stipulazione introduca un' àlea nel contratto o nella dote[3], o quello la cui dote sia un oggetto la cui vendita è vietata.

Il matrimonio viziato da una causa di nullità inerente alla dote deve essere annullato prima della consumazione. Ma, nel caso in cui venga consumato, è considerato come valido, ed è dovuta la dote di equivalenza (sadaq al-mithl)[4]

Il matrimonio viziato da una causa di nullità inerente all'atto stesso, quando sia annullato dopo la consumazione, comporta l'obbligo di pagamento della dote convenuta e comporta le stesse interdizioni basate sulla parentela in grado proibito del matrimonio valido. Ma non ha per effetto di rendere lecito per il marito ripudiatore la donna che ha ripudiato con la tripla formula e non conferisce la qualità di ihsân ai due sposi.

Allah (subhanaHu waTa'ala) ha proibito le relazioni sessuali con sette categorie di donne, in ragione della parentela, e con sette altre categorie in ragione dell'alleanza. Ha detto infatti (Gloria a Lui, l'Altissimo):

 

 

Non sposate le donne che i vostri padri hanno sposato – a parte quello che è stato. E' davvero un'infamità, un abominio e un cattivo costume. Vi sono vietate le vostre madri, figlie, zie paterne e zie materne, le figlie di vostro fratello e le figlie di vostra sorella, le balie che vi hanno allattato, le sorelle di latte, le madri delle vostre spose, le figliastre che sono sotto la vostra tutela, nate da donne con le quali avete consumato il matrimonio – se il matrimonio non fosse stato consumato non ci sarà peccato per voi – le donne con le quali i figli nati dai vostri lombi hanno consumato il matrimonio e due sorelle contemporaneamente – salvo quello che già avvenne – ché in verità Allah è perdonatore, misericordioso... (Corano IV. An-Nisâ', 22-23)

Il Profeta (pace e benedizioni di Allah su di lui) dichiarò illecite, a causa dell'allattamento, le donne con cui è proibito il matrimonio per via della parentela, e proibì di prendere per spose, allo stesso tempo, una donna e sua zia, materna o paterna.

Così, quando si sposa una donna, questa diviene, in virtù del solo contratto e senza che sia stata toccata dallo sposo, proibita per gli ascendenti e i discendenti di questo.

Per quest'ultimo, le ascendenti della donna divengono proibite, ma non le discendenti, finché il matrimonio non sia stato consumato con la loro madre, o finché egli non abbia provato una gioia sessuale con lei, in virtù del suo dominio (se ella sia la sua schiava), anche se questo matrimonio e questo dominio sono semplicemente apparenti.

Allah (subhanaHu waTa'ala) ha proibito i rapporti sessuali con donne infedeli che non siano né Giudee né Cristiane, e ciò sia mediante matrimonio, sia in virtù del dominio. Le relazioni sessuali con le Giudee e le Cristiane in virtù del dominio sono lecite. Le donne libere appartenenti a queste religioni possono essere sposate, ma le donne schiave, Giudee o Cristiane, non possono essere sposate da un Musumano, che sia libero o schiavo.

La donna Musulmana non può sposare il suo schiavo, né lo schiavo di suo figlio.

L'uomo Musulmano non può sposare la sua schiava, né quella di suo figlio, ma può sposare la schiava di suo padre o quella di sua madre, o la figlia che la moglie di suo padre ha avuto dal primo letto. Allo stesso modo, la donna Musulmana può sposare il figlio di primo letto della moglie di suo padre.

E' lecito per il Musulmano, libero o schiavo, sposare quattro donne libere, Musulmane, Ebree o Cristiane. Lo schiavo potrà sposare quattro schiave Musulmane, e l'uomo libero potrà fare altrettanto, se tema di incorrere nella fornicazione e non abbia i mezzi per sposare delle donne libere.

Il marito dovrà trattare tutte le mogli allo stesso modo. Deve loro gli alimenti e l'alloggio nella misura dei suoi mezzi.

Le sue schiave e le sue concubine-madri (umm walad) non sono comprese nella ripartizione delle notti.

La sposa non ha diritto agli alimenti prima che la consumazione del matrimonio abbia avuto luogo, o prima che ella abbia invitato formalmente lo sposo a consumare il matrimonio, quando è pubere.

Il matrimonio detto nikâh at-tafwîd è lecito. E' caratterizzato dal fatto che i contraenti lo concludono senza fissare l'ammontare della dote. Ma in questo caso il marito non può consumare il matrimonio prima di aver assegnato alla donna la dote che conviene ad una persona del suo rango.

Se egli le assegna la dote di equivalenza, la sposa sarà tenuta agli obblighi matrimoniali. Se invece la sposa stima che questa dote non sia degna di lei, sarà pronunciato il divorzio, a meno che lo sposo non riesca a convincerla, assegnandole, in definitiva, la dote d'equivalenza.

In caso di apostasia di uno dei due sposi, il matrimonio è sciolto mediante divorzio, o, secondo un'altra opinione, è sciolto di diritto.

Quando due sposi infedeli si convertano all'Islâm, il loro matrimonio rimane valido. Se uno solo si converta, ne consegue l'annullamento del matrimonio, senza bisogno di divorzio.

Se è la donna a convertirsi per prima, il marito avrà un diritto di prelazione per riprenderla, se si converte durante il periodo di ritiro legale ('idda). Se il marito di una donna Ebrea o Cristiana si converte all'Islâm, il matrimonio rimane valido.

Se la donna mâjûsiya (che professa cioè la religione dei Magi) si converta all'Islâm subito dopo il marito, gli sposi restano uniti; se la conversione della donna non interviene che più tardi, il legame matrimoniale è definitivamente sciolto.

Quando un politeista si converta, se ha più di quattro mogli, dovrà sceglierne quattro e separarsi dalle altre.

Quando un marito pronuncia l'anatema (li'ân) contro sua moglie, quest'ultima diviene immediatamente illecita per lui.

Lo stesso avviene se un uomo contragga matrimonio con una donna in periodo di ritiro legale ('idda) ed abbia rapporti con lei in detto periodo.

Lo schiavo, uomo o donna, non può sposarsi se non col consenso del padrone.

La donna, lo schiavo e il non-Musulmano non possono essere tutori matrimoniali di una donna.

L'uomo non può sposare una donna con l'intenzione di renderla lecita per colui che l'abbia ripudiata con la tripla formula, e un matrimonio intermedio di questo genere non ha la conseguenza di rendere la donna lecita per il suo priomo marito ripudiatore.

Colui che sia in stato di ihrâm, non può né sposarsi, né concludere il matrimonio altrui.

Il matrimonio con una persona gravemente ammalata è illecito e deve essere annullato.

Se lo sposo malato ha consumato il matrimonio, la donna avrà il diritto prioritario di prelevare l'ammontare della dote sul terzo dei beni disponibili; ma non erediterà. Nel caso, invece, in cui lo sposo malato ripudi sua moglie, la donna diverrà erede, se egli muore in seguito alla malattia.

Quando un marito abbia ripudiato sua moglie con la tripla formula, questa donna non ridiviene lecita per lui, né in virtù del dominio, né per matrimonio, se non dopo che sia stata la sposa di un altro uomo.

Il triplice ripudio pronunciato in una sola formula è una innovazione biasimevole (bid'a), ma il ripudio stesso è comunque valido.

Il ripudio conforme alla Sunnah ha il carattere di liceità (mubâh). Consiste nel ripudio della moglie con un'unica formula, nel corso di un periodo intermestruale durante il quale egli non abbia avuto rapporti sessauli con lei, e nessuna nuova formula di ripudio deve essere pronunciata prima della fine del ritiro legale. In questo caso, il marito può riprendere sua moglie, se è mestruata, se si tratta di una donna libera; o durante il suo secondo periodo mestruale, se si tratti di una schiava.

Se la donna da ripudiare non abbia ancora le mestruazioni o non le abbia più, il marito la potrà ripudiare quando vuole. Lo stesso vale se la donna sia incinta. Quest'ultima può essere ripresa dal marito prima del parto, mentre quella che non abbia le mestruazioni conterà una 'idda di 3 mesi, durante i quali potrà avvenire la riconciliazione.

La parola aqrâ' (plurale di qur') designa i periodi intermestruali di purezza legale.

E' proibito al marito ripudiare la moglie durante un periodo mestruale di questa. Ma, se lo faccia, è costretto a riprendere la moglie finché il periodo di ritiro legale non sia terminato.

Quando il marito non abbia ancora consumato il matrimonio, può ripudiare la moglie quando vuole, e in questo caso il ripudio pronunciato una volta sola determina la rottura definitiva del legame matrimoniale.

Il ripudio mediante tripla formula rende la donna proibita per il marito, finché non abbia sposato e poi divorziato un altro uomo.

Quando il marito dice alla moglie: "Sei ripudiata!", ciò vale come ripudio semplice, a meno che non vi sia la prova che il marito intendeva prounciare un ripudio doppio o triplo.

Il khul è un ripudio irrevocabile, anche se non è designato con la parola talâq. Vi è khul quando la donna dia a suo marito un corrispettivo monetario o materiale perché egli si separi, si spossessi (khala'a) di lei.

Quando un marito dica alla moglie: "Tu sei ripudiata in modo definitivo" ciò si considera come un ripudio triplice, che vi sia stata o no consumazione. Se le dice "Sei libera" o "esonerata" o "proibita", o anche "Hai la briglia sul collo", è ancora un triplice ripudio, per la donna con cui il marito abbia consumato il matrimonio. Quando il matrimonio non sia stato consumato, formule simili non valgono come ripudio triplice, a meno che il marito non le intenda così.

 

 

 

La donna ripudiata prima della consumazione del matrimonio ha diritto a metà della dote, a meno che non vi rinunci spontaneamente, se è deflorata; o suo padre non vi rinunci per lei, se è vergine; o il suo padrone, se è schiava.

Il marito ripudiatore deve fare un regalo alla donna, ma ciò è facoltativo. Quando non abbia consumato il matrimonio, ma abbia assegnato una dote alla donna, quest'ultima non ha alcun diritto al dono. Lo stesso vale per la donna che abbia riscattato la propria libertà col khul.

Se il marito muoia prima di aver consegnato la dote alla moglie, né abbia consumato il matrimonio, la donna erediterà, ma non avrà diritto alla dote. Se il matrimonio sia stato consumato, avrà diritto alla dote di equivalenza, a meno che ella non avesse accettato un valore determinato inferiore alla dote di equivalenza.

La donna può essere rifiutata in ragione dei seguenti vizi redibitori: follia, elefantiasi, lebbra, malattie degli organi genitali. Se il marito abbia consumato il matrimonio senza aver conoscenza di questi vizi, dovrà pagare la dote, ma potrà rivalersi, per il rimborso, contro il padre della donna o contro suo fratello, se è stato lui il suo wali. Ma se la donna abbia avuto per tutore matrimoniale qualcuno che non sia suo parente stretto, il tutore non sarà tenuto ad alcun rimborso e la donna non avrà diritto che ad un quarto di dinâr.

All'impotente, si concede una dilazione di un anno. Se, durante questa dilazione, raggiunge il coito, bene. Altrimenti, interviene la separazione, se la donna lo desidera.

Allo scomparso, è concessa una dilazione di quattro anni, a partire dal giorno in cui la moglie abbia segnalato ufficialmente la scomparsa del marito. Dopodiché si interrompono le ricerche, e la donna osserva un ritiro legale come in caso di morte del coniuge. Poi, se vuole, si può risposare. La successione del marito non si apre finché non sia trascorso un periodo di tempo oltre il quale un uomo come lui non dovrebbe essere, mediamente, più in vita.

Non si può chiedere in sposa una donna durante la sua 'idda. Ma non vi sono inconvenienti nel fare, a questo riguardo, allusioni discrete.

Colui che sposi una vergine ha il diritto di rimanere esclusivamente con lei per 7 giorni consecutivi. Se la nuova moglie è deflorata, il marito rimarrà con lei per 3 giorni.

I rapporti sessuali con due donne schiave che siano sorelle sono proibiti al padrone. Se il padrone, avendo avuto rapporti con una delle due, desideri averne con l'altra, dovrà proibirsi la prima, vendendola o affrancandola contrattualmente o semplicemente, o alienandola in un'altra maniera, in modo che ne derivi la proibizione dei rapporti sessuali.

Il padrone che, in virtù del suo dominio, abbia avuto rapporti con la sua schiava, non può averne né con la madre, né con la figlia di questa, e lei diviene proibita per gli ascendernti e i discendenti del padrone, per analogia con le proibizioni risultanti dal matrimonio.

Lo schiavo sposato ha personalmente, e ad esclusione del suo padrone, il diritto di ripudiare la propria moglie.

L'impubere non ha il diritto di ripudiare la sua sposa.

La donna il cui marito le dica: "Ti lascio disporre di te stessa", o quella alla quale il marito abbia lasciato la scelta (tra il mantenimento del legame matrimoniale e il ripudio) può decidere, a condizione che la decisione sia immediata. Nel primo dei due casi, il marito può negare alla moglie il diritto al ripudio doppio o triplo. Nel secondo, se la donna decide per il ripudio, questo non può essere che un ripudio triplice, che il marito non può negare.

Chiunque giuri di cessare le relazioni sessuali per più di 4 mesi è detto mîln. Il divorzio non sarà allora pronunciato contro di lui se non al termine della ilâ', che è di 4 mesi per l'uomo libero e di 2 mesi per lo schiavo, e dopo una citazione a comparire a lui rivolta dalle autorità. Se il marito riprenda le relazioni sessuali con la moglie, l'ilâ' sarà per lui senza conseguenze.

Colui che proibisca a se stesso le relazioni con sua moglie pronunciando il dhihâr[5], non può riprenderla prima di aver compiuto un'espiazione consistente nell'affrancare uno schiavo credente, esente da vizi corporei, che detenga totalmente e la cui servitù sia totale. Se non possa affrancare tale schiavo, digiunerà per due mesi consecutivi. Se ciò sia impossibile, nutrirà 60 poveri, nella misura di 2 mudd per povero. Non potrà avere relazioni sessuali con la suddetta moglie, né di giorno né di notte, fino a che l'espiazione sia compiuta. Ma, se infrange questa proibizione, dovrà soltanto pentirsi presso Allah (subhanaHu waTa'ala).

Nel caso in cui riprenda le relazioni sessuali dopo aver compiuto solo una parte dell'espiazione, consistente nel nutrire i poveri o nel digiunare, sarà tenuto a ricominciare la sua espiazione.

In caso di dhihâr, non vi sono inconvenienti nell'affrancare uno schiavo cieco, o un figlio adulterino o incestuoso.

L'affrancamento di un impubere è valido e sufficiente. Ma per noi Maliliti, è meglio che l'affrancato sia in grado di eseguire la preghiera e di digiunare.

Il li'ân (anatema reciproco) è autorizzato dalla Legge tra gli sposi; consiste, per lo sposo, nel disconoscere un bambino che si trova nel ventre di sua moglie, dichiarando che il ritiro legale è stato da lui osservato, o che egli ha visto coi suoi occhi l'adulterio della propria moglie, così come si vede il bastoncino nel contenitore del kohl. Vi è divergenza d'opinione riguardo all'anatema in caso di accusa senza prove (qadhf). La separazione tra gli sposi, in seguito al li'ân, rende per sempre il matrimonio impossibile tra loro.

Il marito comincia proferendo quattro giuramenti in Nome di Allah che sua moglie ha compiuto adulterio e che il bambino che aspetta non è figlio del marito.

Dopodiché, pronuncia un quinto giuramento invocando l'anatema su di sé (se mente).

La moglie pronuncia poi quattro volte il giuramento in Nome di Allah sulla propria innocenza, e un quinto giuramento invocando la collera divina su di sé (se il marito dice il vero). Ciò conformemente alla Parola di Allah (subhanaHu waTa'ala)[6]

Se la moglie rifiuti di prestare giuramento, sarà lapidata, se è di condizione libera e possiede la qualità di ihsân, in virtù di relazioni sessuali avute col marito o con un marito precedente.

Se non è muhsâna, la pena che subirà sarà di 100 colpi di frusta.

Se è il marito che rifiuta di giurare, incorrerà nella pena legale relativa alla falsa accusa di fornicazione, cioè 80 colpi di frusta, e sarà dichiarato padre del nascituro.

La donna può riscattare la propria libertà versando al marito l'ammontare della dote, o meno, o più, quando i  suoi diritti non siano stati lesi dal marito. Ma se lo sposo abbia leso i suoi diritti, la donna potrà farsi restituire i valori che gli avrà consegnato per riacquistare la libertà, e il marito sarà comunque obbligato al divorzio.

Il khul è un divorzio senza diritto di ripensamento per il marito, tranne che nel caso di un nuovo matrimonio contratto con il consenso della donna.

Quando una schiava, sposata ad uno schiavo, viene affrancata, può rimanere sposata con lui o far pronunciare il divorzio.

Quando un uomo sposato con una donna, che era la schiava di un altro, acquista questa donna, il matrimonio è annullato.

Il ripudio pronunciato dallo schiavo è un ripudio doppio e la durata del ritiro legale della schiava è di 2 periodi mestruali.

Le espiazioni (kaffâra) dovute dallo schiavo sono le stesse dovute dall'uomo libero; vi è differenza per le pene legali e il ripudio.

Qualunque quantità di latte succhiato da un bambino nel corso dei primi 2 anni di vita comporta le proibizioni sessuali risultanti dalla parentela di latte, anche se avesse succhiato una volta sola.

Ma per chi sia stato allattato dopo il compimento dei 2 anni, non vi è tale probizione, a meno che l'allattamento non sia avvenuto poco dopo i 2 anni, cioè circa un mese o, secondo un'altra opinione, due mesi.

Ma se il bambino sia stato svezzato prima dei due anni, e abbia bevuto e mangiato in modo tale da non avere la necessità di essere allattato, nessuna proibizione risulterà dalla poppata che avrà potuto fare in seguito.

Il latte che si fa assumere al neonato, introducendolo nella bocca o nelle narici, comporta anch'esso delle proibizioni sessuali.

Nel caso in cui una donna allatti un neonato non suo, le figlie di questa donna e le figlie di suo marito, nate prima o dopo, diventano le sorelle del neonato. Ma è permesso al fratello di sangue del neonato in questione di sposare le figlie di questa nutrice.

tratto da:

"Ar-Risâla.

Epistola sugli elementi del dogma

e della Legge dell'Islâm secondo la scuola Malikita"

di Abu Muhammad 'Abdullah Ibn Abi Zayd Al-Qayrawânî

[1]  La 'asaba è la parentela per via maschile, che conferisce la qualità di erede a titolo universale.

[2]  Esempio: A sposa la figlia di B e in cambio dà la propria figlia in sposa a B, senza che vi sia dote né da una parte né dall'altra.

[3]  Se ad esempio si stipula che la dote sarà costituita da un bene di cui non si dispone attualmente, o di cui non si è sicuri di poter disporre.

 


 

Consulta il blog Haramlik

Consulta il blog di Dacia Valent

 

Dallo stesso blog di Lia

3 Gennaio, 2007
Il buzzurr-islam

Questa cosa qua, chiariamolo, non è che sia granché "islam", inteso nel senso di civiltà.
Non ricordo simili situazioni tra i miei colleghi, amici o conoscenti egiziani e nemmeno tra i protagonisti di quel mondo arabo rurale che mi pare essere il modello ispiratore dell'islam teorizzato da questa dirigenza. Il mio portinaio Bastawi non le faceva, 'ste cose, né le vedevo accadere nell'Alto Egitto profondo, roccaforte e luogo di nascita dei Fratelli Musulmani, dove ho vissuto e dove ho insegnato per un rilevante pezzetto della mia vita.
Questa cosa qui, se proprio devo trovare un'analogia nella mia esperienza mediorientale, mi ricorda al massimo il turismo sessuale dei sauditi in Egitto: i fissati con le ragazzine erano loro, normalmente, e lo squilibrio economico che c'è tra Egitto e Arabia Saudita faceva sì che ci fossero famiglie locali disposte a consegnargliele, le loro figlie, normalmente con l'escamotage di farle passare per "donne delle pulizie". Fuori dalle sacche di miseria a cui appartenevano queste famiglie, comunque, diciamo che la cosa non era ben vista.
Qui si parla di ragazzine venute in Italia a fare le seconde mogli, non le colf. Non sta a me dire cosa sia meglio: dal punto di vista della dignità del tutto e dell'impegno affettivo contratto, sarà senz'altro meglio così. Dal punto di vista della tutela legale ed economica, invece, forse un contratto da colf sarebbe preferibile. Non lo so.
So che queste cose qui non rientrano in un quadro di multiculturalità - tantomeno di interculturalità, visto lo scoglio etico contro cui ci si infrange - perché, appunto, non si rifanno a un modello culturale importato dai paesi d'origine di chi le pratica. Anzi: quei paesi, normalmente, hanno sviluppato già da tempo solidissimi anticorpi - legali e/o sociali - contro questi modi di fare famiglia.
Queste cose sono il prodotto - e ci dispiace essere ripetitive ma la faccenda è importante - di un islam semplificato da esportazione che, nella sua versione italiana, risente dei limiti e dei vizi datigli dal fatto di essere prodotto e proposto da una classe dirigente che dicono che si rifaccia ai Fratelli Musulmani ma che a me, te lo dico col cuore in mano, ricorda più che altro i Mubarak e compagnia, quando non direttamente Alberto Sordi.
Il mio giovanissimo nuovo amico musulmano me lo ulula, di fronte al mio ennesimo stupore da ingenuona: "Ma lo vuoi capire o no, che questi si fanno l'islam come gli fa comodo?"
"Hanno l'islam soggettivo", dice ridendo, e mi sa che ride per non piangere.
Quest'ibrido islamico, questa specie di islam-Frankenstein che si va forgiando sotto il benintenzionato naso di un bel po' di utili idioti come la sottoscritta (ahimè, e poi dice che una è presa dal mal di pancia: ma per forza...) sarebbe anche teorizzato, bada bene:
[...] la differenza culturale, etica, religiosa, politica dell'islam plurale è percepita come fattore di "devianza dalla fede autentica". La distruzione di queste comunità reali, e la delegittimazione delle culture concrete che esse esprimono, in nome dell'"autentico Islam" diventa, così, il loro principale obiettivo. Le culture originarie vengono in tal modo negate in nome di un'identità fondata su un'ideologia politica e religiosa unificante [...] L'islamismo agisce, dunque, nell'esperienza migratoria, come fattore di deculturazione; come marcatore di una neoetnicità che presuppone che tutti i musulmani condividano la stessa cultura, indipendentemente dalla loro cultura concreta. Una concezione dell'islam, questa, possibile solo nell'esperienza dell'immigrazione [...]
Non è detto che sia un male in sé, questo fenomeno che pure è di quelli delicati.
Diciamo che è fondamentale capire chi diamine sono, coloro che propongono il loro "vero islam" deculturizzante e sostitutivo di quelli vissuti nei paesi d'origine.
E diciamoci pure che sarebbe fondamentale chiarirselo, a sinistra, 'sto fenomeno, ché sennò il balletto dei malintesi non finisce più: qua ci ritroviamo, per dire, con benintenzionate giunte di sinistra che avallano geometrie familiari che sono esibizioni di puro e semplice potere da parte di parvenu islamo-europei,e lo fanno convinte di stare esercitando multiculturale tolleranza verso esotiche consuetudini d'oltremare.
Pensa te.
Il problema è che il discorso che sorge attorno alla teorizzazione di questo italo-islam finisce puntualmente - e clamorosamente - fuori strada.
Perché qui si è schiacciati tra una destra che urla: "Sono terroristi! C'è Al Qaeda!" e l'obbligo di sensatezza di gridare, di rimando: "Non è vero! E' una sciocchezza!"
Ne risulta un gioco delle parti in cui ognuno si ritaglia un proprio ruolo che è, tutto sommato, comodo per tutti e che fa sì che non sorga mai la necessità di chiedersi chi cavolo siano, in realtà, 'sti tizi.
Perché si legittimano a vicenda, loro da una parte e i Magdi Allam e le Santanchè dall'altra.
Mi pare logico: non diventi vicedirettore del Corriere della Sera se scrivi che 'sta gente è una desolazione di incoerenza o un manipolo di improvvisatori, di mestieranti dell'islam e di piccoli intrallazzatori.
Diventi vicedirettore e miliardario se scrivi che sono dei pericolosissimi sovversivi dai quali TU difendi l'Italia. Se straparli di fatwe e simili e, intanto, ti guardi bene dal tirargli fuori i panni sporchi veri che, proprio perché veri, li spoglierebbero della loro aura di eroi del Male che permette a te di passare per eroe del Bene.
Viceversa, 'sti due trucidoni a cui l'islam garantisce gonnelle e mantenimento economico si ritrovano letteralmente miracolati da cotanto accanimento mediatico della destra: te li ritrovi trasfigurati in mitici Che Guevara con la kefia e acclamati dalla sinistra antimperialista tutta.
Me compresa, sì.
Poi, quando hanno finito di giocare a Che Guevara in pubblico, si tolgono la kefia ed eccoli là: chi importa ragazzette, chi mena le mogli, chi abbandona economicamente i figli, chi fa il giocoliere fiscale, chi teorizza l'inferiorità strutturale degli stessi kuffar da cui si fa sostenere in pubblico e chi, tanto per sintetizzare, fa tutte queste cose contemporaneamente acclamato dalla sinistra antimperialista tutta.
Me compresa, già.
Non è una situazione facile da risolvere e non la si risolve, credo, confidando nella capacità di comprensione della cosiddetta opinione pubblica che legge i giornali.
Questa, nei cinque minuti al mese di riflessione che dedica alla questione, si aspetta già tutto il peggio se è orientata in un certo modo ed è già acriticamente disposta a sostenere qualunque bizzarria se ha un orientamento diverso.
Le è stata proposta da qualche anno una certa dicotomia, e quella si segue.
Temo che vada risolta su tempi più lunghi, 'sta tragedia: facendo gradualmente capire ai famosi kuffar benintenzionati che l'islam italiano merita qualcosa di meglio di questi baratri di ipocrisia, e che i musulmani da sostenere a sinistra sono quelli che lavorano, e lavoreranno, in questo senso.
Facendolo capire ai media capofila dei suddetti kuffar, che al momento sono pigramente sdraiati sulla loro tranquillizzante visione delle cose, e cercando di dare voce a quella parte del mondo musulmano che ci sta male, nella situazione attuale.
In questo senso, sì: credo che sia la umma, a doversi fare carico di questa situazione.
Non sarà un lavoro facile, non sarà un lavoro breve e dubito fortemente che partirà dai media: appiattiti come sono, qua si rischia di finire su Libero o da Magdi perché gli altri ti censurano, più per pigrizia mentale che per altro.
Come è comprensibile, noi eviteremmo.
Eviteremo, anzi.
Se così deve essere, meglio persino che parta dai blog, quest'operazione.
In questo, personalmente, ci credo, nel senso che sono convinta che non esista strumento di controinformazione migliore dei blog, di questi tempi.
Purché non ci si aspettino gratificazioni immediate, risultati eclatanti, meraviglie e fuochi di artificio.
Certe volte bisogna essere formiche, temo. O api.
E, per dirlo io, deve essere proprio così...
Io credo che le battaglie che vale la pena di combattere siano quelle che ti consentono di vincere rimanendo te stessa.
Se devi cambiare, vuol dire che c'è qualcosa che non va.
Ci tengo, a questa cosa.
Non mi tiro indietro: voglio solo farla bene e senza perdermi per strada.
Ci sono, sto qua.
Ci sono talmente tanto che non ho nemmeno urgentissime e incontenibili frette.
Tanto ci arriviamo, a mettergli uno specchio come si deve davanti al muso, a questi.
Io non ho proprio dubbi.
 

30 Dicembre, 2006
Dopo averti cercato tanto
C'è qualcosa di poco comprensibile, nei miei ultimi mesi di post, ed è ciò che io intendo per islam.

Non lo capiscono quei musulmani o filomusulmani che mi dicono: "Shhht! Occhio che arriva Magdi Allam! Facciamo finta di essere perfettamente puliti e pettinati e rendiamoci inappuntabili: metti subito quella polvere sotto al tappeto!!"
E non lo capiscono quelle alfiere del laicismo (i maschi, curiosamente, tendono a capire meglio, forse perché sono - appunto - più laici) che tagliano con l'accetta gli ambiti e ti devono cacciare ad ogni costo da una parte o dall'altra, e se non rientri perfettamente in uno dei loro cassetti vuol dire che menti e che ti vuoi candidare alle elezioni nel prossimo partito islamico con un programma favorevole alla poligamia (giuro, è un'accusa che mi è stata mossa).

Il target che mi capisce senza ombra di dubbio e senza che io debba sgolarmi più di tanto è, fondamentalmente, composto da musulmani o filo-musulmani che sono lì per passione e/o fede ma senza ricavare benefici materiali dalla loro appartenenza. Ed è che, tutto sommato, io sto facendo un discorso molto "interno", su questo blog.
Mi urge di ringraziare, anzi, i (pochi?) lettori non musulmani che mi sono rimasti.
L'Oscar della pazienza, gli vorrei dare.

L'islam è, per me, l'unica alternativa strutturata, complessa e quindi credibile a quella società "fatta di forme e non di valori" che è quella in cui ci è dato di vivere.
E' l'altro mondo possibile, tanto più possibile in quanto non è stato inventato ieri. E' antico e parla alle mie radici, all'essenza di ciò che io sono.
Mi ci riconosco, e riconosco i miei nonni e tutti i miei antenati nel senso delle sue regole, nei suoi usi e nei suoi vezzi, nelle cose piccole e in quelle alte che - lo sento fino al midollo spinale - mi renderebbero la vita più lunga, più bella e più completa se solo le stessi a sentire fino in fondo.

L'islam è, per me, fare pace con se stessi.
Smetterla di strizzare la propria vita inseguendo esperimenti che durano il tempo di una generazione. Ascoltarsi e distinguere le priorità. Accompagnarsi lungo ciò che si è. Una donna. Un uomo. Un essere umano. Un musulmano o un cristiano, una persona sola di fronte all'assoluto. Una che si arrende e dice: "Fai tu. Io sono piccola. Faccio del mio meglio ma, tutto sommato, sono piccola. E anche gli altri lo sono, cosa credevo?" Ed è in quei momenti lì che, davvero, si fa pace con se stessi e col mondo. E ci si perdona.

L'islam è, banalmente, un uomo solo che prega nel deserto.
Senza che nessuno lo guardi e senza che nessuno lo controlli. Perché lo vuole.
Un uomo solo che prega nel deserto è uno che ha trovato il ritmo del proprio organismo, del proprio essere, e lo tiene sintonizzato sul ritmo di ciò che lo circonda: il tempo, i bisogni che ti fanno restare vivo, il rispetto di sé e della propria integrità, il patto sociale con i propri simili. La propria libertà, ché tra te e Dio non c'è nessuno, e quanto questa libertà sia impensabile senza dignità. Proprio perché tra te e Dio non c'è nessuno, e non c'è nulla che ti possa fare chinare la testa se sei tutt'uno con il tuo senso etico, con la tua percezione del Bene, con l'adesione al ritmo della vita che ti circonda.
Non hai padroni, rispondi di te in prima persona.
Allo stesso tempo, non sei padrone ma atomo in un mondo che ti prescinde. Sei una parte piccola, minuscola del tutto, e l'unico compito che davvero ti tocca è fare al meglio il tuo dovere. Rispettare il ritmo dell'esistenza, sapere che prima di te c'era qualcosa e dopo di te ci sarà ancora qualcosa. Sei di passaggio, e vedi di lasciare tutto in ordine prima di partire.

L'islam è sapere che non c'è nulla di nostro, nel senso che non c'è nulla che possiamo rompere impunemente. A partire dal corpo che poi, una volta morti, va restituito con generosità alla Terra. Senza barriere tra noi e lei.
L'islam è quando un beduino ti guarda e ti informa che non bisogna mangiare sdraiati, bisogna mangiare dritti davanti a Dio!
L'islam è uno che mangia dritto, da solo, nel deserto.

Ascoltarsi è islam.
Entrare a fare parte del grande gioco che ci tiene tutti vivi e ci dà un senso.
Darsi una disciplina che ti ricorda ad ogni spostamento di sole che hai un corpo e che esiste il tempo.
Sapere che non si è soli e che ci sono miliardi di altri atomi che condividono con noi lo spazio e il tempo, e avere fame e sete con loro e condividere con loro il nostro dattero, la carne dell'Eid o il panino a un semaforo.
Ricordare che si viene da una storia e che si appartiene a un tutto.
E arrendersi, non so se l'ho già detto.
Arrendersi, ma senza per questo smettere di lavorare e di fare fatica, ché islam è abbandono ma non rassegnazione.

L'islam è un approccio etico alla realtà. Di più: una chiave di lettura etica. In questo senso, non può non essere politico. Deve esserlo, anzi. Dovrebbe. Se solo si potesse. In un mondo diverso, suppongo. L'islam è scivoloso, nel suo versante ideologico, ma questo sarà un altro post.

L'islam è, soprattutto, testimonianza.
Come nessuna altra religione, credo.
Perché lo stacco tra i credenti in carne e ossa e l'assoluto è netto, senza ponti e senza sconti. Niente santi, niente statue, niente volti idealizzati a cui immaginare di somigliare, nessun intermediario in effige da usare a mo' di scala per salire più in alto. Un cavolo di niente. Quello che c'è è a forma di parole.
I testimoni da guardare siete tu, il tuo vicino, il passante, cose così.
In realtà, non c'è altro modo per sentire l'islam che non sia l'osservazione dei musulmani stessi. E l'ascolto di sé dopo averli guardati, ovviamente.

Vengo da molto Egitto, chi mi legge lo sa.
Chissà quante volte ce lo siamo detti, io e i colleghi, che non si può tornare atei dal Medio Oriente. Magari torni cristiano, chennesò. Ma tornare atei è difficile, giuro. Arrivarci da atei è praticamente la normalità. Come ne torni, è tutto un altro paio di maniche. Con la nostalgia per il credente che non riesci ad essere, come minimo. Insomma: vorrei evitare di scivolare nel post mistico, ché su questo blog ce ne siamo sempre pudicamente guardate, ma so per certo che l'islam è testimonianza dei musulmani e che, in quanto tale, ti si attacca in un modo che non ti spieghi e che, soprattutto, non ti scolli più di dosso.
In Medio Oriente.

E grazie a Dio (già) che mi è successo in Medio Oriente.
Ché, se fossi rimasta in Italia, altro che testimonianza.
Dubito che sarei andata oltre un vago desiderio di chiamare il Cottolengo.

Dovrei raccontare, a questo punto, dell'ultimo acquisto della galleria di mostri di cui è composto l'islam italiano che ho la ventura di conoscere.
Non so se ne ho voglia.
Ne avevo scritto prima ma mi si è cancellato il post.
Non credo di avere voglia di riscriverlo.
Eppure, scriverne si deve.

Maledizione, non ne ho voglia.
Domani, dai.
Ché non è divertente nemmeno un po', raccontare quest'islam cialtrone.
Quest'islam semplificato a misura di cretino, questo giochetto pseudo-islamico che va in onda tra i quattro dementi che hanno avuto la ventura di trovarsi nel posto giusto al momento giusto con la religione giusta e che ne hanno fatto una rendita di potere spicciolo da miserabili.

Lo racconterò, perché raccontarlo si deve.
Però non me lo meritavo, dai, di ritrovarmi a dovere raccontare 'ste cose:

22 Dicembre, 2006
Donne e islam: parla Zainah Anwar


Ricevo questa email: "Cara Lia,
la scorsa settimana, a Barcellona, ho intervistato Zainah Anwar, direttrice di Sisters in Islam, una delle più importanti organizzazioni di donne musulmane. L'argomento Donna/Islam è, al momento attuale, di particolare interesse. In Italia lo rivela sia il clamore suscitato dal tuo caso e sia la creazione recente dell'Osservatorio su Islam e Genere. Attratto dall'importanza del tema e influenzato dagli ultimi accadimenti e da ciò che si è detto, scritto e commentato nel tuo blog e intorno al tuo caso, ho formulato questa intervista. [...]

L'intervista è stata pubblicata da Rinascita e sarà ripresa da altri canali di informazione.
E siccome questo è il giornalismo che ci piace, ringraziamo di cuore Herman Bashiron e la proponiamo pure qui.
Le sottolineature di un paio di passaggi, che riprendono in modo particolare ciò che ho cercato di dire su questo blog nelle ultime settimane, sono mie.

Parlaci dell’organizzazione “Sisters in Islam”. Di cosa si occupa?

E’ basicamente un gruppo formato da donne che lavora per i diritti delle donne in seno alla struttura dell’Islam.
Tali diritti si basano su principi di uguaglianza, giustizia, libertà e dignità e non c’è nulla che contraddica la coesistenza della religione con la richiesta dei diritti delle donne. Per avere un panorama più ampio delle attività dell’organizzazione vi invito a visitare il sito internet www.sistersinislam.org.my

Credi che i problemi di cui soffrono le donne dipendono dall’Islam? Ossia l’Islam, in quanto religione, e’ il problema?

Penso che il problema sia innanzitutto il patriarcato, non la religione, ma come l’uomo ha preparato convenientemente l’uso della religione nascondendosi dietro l’infallibilità della parola di Dio. E’ quindi realmente il patriarcato il problema e non l’Islam in sé stesso. Non è la religione, ma l’uso della religione, attraverso una cattiva interpretazione, che giustifica la discriminazione.

Credi che la rappresentazione della donna musulmana in Occidente sia un ritratto reale?

L’Occidente spesso presenta la donna islamica solo come oppressa, controllata, discriminata, ma non tutte le donne sono oppresse, controllate o discriminate nel mondo musulmano, specialmente nel corso degli ultimi dieci anni. Sono le donne musulmane che hanno cominciato a porre nuove sfide all’interno della società, sfidando le tradizionali politiche religiose e l’uso della religione per fini discriminatori. Sono le donne, più degli uomini, ad avere il coraggio di spingere per le riforme nell’Islam e nelle società islamiche.

Credi che la condizione di alcune donne musulmane possa essere utilizzata come un cavallo di Troia, come strumento, per criticare l’Islam e i Paesi islamici?

Certo, e questo non è niente di nuovo. Nel periodo coloniale succedeva la stessa cosa. I colonialisti dicono sempre che stanno venendo a liberare le donne, a portare la civiltà, a portare la giustizia, quando nei loro propri Paesi la donna è discriminata. Guarda cosa sta succedendo in Afghanistan, le donne hanno ancora problemi enormi per conseguire i propri diritti e il governo afgano è supportato dagli USA! E poi gli USA sono andati in Afghanistan raccontandoci che una delle loro motivazioni e ragioni era liberare la donna dal burqa!!!

L’Islam in Occidente, in Europa ad esempio, sta crescendo molto. Ho sentito dire che spesso le donne musulmane, all’interno del proprio contesto islamico, soffrono maggiori problemi qui piuttosto che nei loro paesi. Ciò è dovuto alla mancanza di un contesto sociale omogeneo e familiare?

Si, certo. Stiamo parlando della funzione della Comunità, che è molto consistente. Se vivi in un paese straniero innanzitutto non hai la tua famiglia stabile, il cambio è molto consistente, sei a contatto con un ambiente diverso, una cultura straniera, ed è chiaro che puoi avere dei problemi. Certo che in mancanza di ciò e vivendo in una terra straniera, diventi tutto più difficile. enza la famiglia vicino diventa tutto più complicato. Non avere accanto i diversi membri della tua famiglia, gli amici di sempre, le persone dalle quali dipendi, significa non poter accedere ad una importante rete di ausilio ed è quindi certo che in mancanza di tale rete e vivendo in una terra straniera, diventi tutto più difficile.

In tali situazioni alle volte si riscontra un’interpretazione ancor peggiore dell’Islam e dei suoi precetti.

Si, e in questo caso penso che se fai parte di una Comunità minoritaria, di una identità minoritaria, dovresti fare in modo di preservare l’unità della Comunità, mostrare il piacere di esserne parte e non gettare vergogna su di essa davanti alle altre comunità maggioritarie.

Nell’ultimo periodo si stanno creando molte organizzazioni di donne musulmane, uno degli ultimi esempi lo possiamo trovare in Italia, dove due settimane fa è nato “l’Osservatorio su Islam e Genere”. Donne che chiedono di parlare con la propria voce e che non vogliono essere più l’oggetto di discussioni fin troppo spesso sbagliate.

Vedo come una cosa positiva il fatto che le donne islamiche si stiano organizzando e penso sia anche una particolare sfida in Occidente. Chi parla per i musulmani in Occidente? Molto spesso è l’uomo, l’uomo patriarca, il vecchio uomo che parla per conto della Comunità, ma la Comunità è composta da elementi di una grande diversità. Certamente essi parlano per conto della Comunità, ma come se essa fosse un monolite e spesso non rappresentano gli interessi delle donne musulmane. Ho interagito diverse volte con le Comunità islamiche, in particolare in Gran Bretagna, e anche lì le donne si stanno organizzando per ottenere i loro diritti, i loro interessi. Sono loro stesse che vogliono rappresentare i propri interessi e non delegarli a qualche patriarca all’interno della Comunità.
Ci sono comunque anche donne molto conservatrici nelle comunità musulmane occidentali.
In ogni caso queste organizzazioni sono molto utili e possono inoltre fornire una base e un supporto a donne in difficoltà e che devono affrontare dei problemi.

Quindi, da un lato ci sono le società patriarcali e conservatrici dei paesi islamici, dall’altro lato invece, nei paesi occidentali, abbiamo una sbagliata e superficiale interpretazione dell’Islam e della donna nell’Islam. Di conseguenza si può dire che la donna musulmana è sola?

Beh no, non direi che la donna musulmana è sola. E’ in atto un processo nel quale le donne si stanno sollevando e stanno guadagnando terreno. Guarda ad esempio cosa succede nelle università nei paesi islamici, le donne sono molto di più degli uomini, la situazione sta rapidamente cambiando, la realtà sta rapidamente cambiando ed è per questo che ora vogliono parlare con la propria voce. E c’è una sferzata da parte dei tradizionali gruppi islamici conservatori contro la loro organizzazione perché sanno che è in corso un cambiamento reale della base. E lo temono! Davvero non penso che la donna musulmana sia sola, anzi le donne musulmane si stanno sollevando, organizzando, stanno lottando per i propri interessi e sono in prima fila, più degli uomini, nella battaglia per i cambiamenti e le riforme nella società. E’ una grande sfida.

Secondo l’ultimo documento dell’ONU sullo sviluppo umano nel mondo arabo, i problemi della donna e la propria condizione, non dipendono esclusivamente dall’esistenza di società conservatrici o da una errata interpretazione dell’Islam, ma spesso dipendono dall’esistenza di conflitti, guerre, occupazioni straniere, terrorismo, crisi economiche. Cosa ne pensi?

Certo, è vero, però non è solo la donna, ma è l’intera Comunità musulmana che soffre a causa di queste situazioni. Sono problemi enormi e questioni reali che l’intera popolazione musulmana sta provando a fronteggiare, cercando di portare al suo interno sviluppo, pace e uguaglianza. Non c’è dubbio che in presenza di tali condizioni le donne soffrano le maggiori conseguenze.

Quale consiglio puoi dare, quale soluzione puoi proporre affinché non si abbia una visione errata dell’Islam e una visione errata della relazione tra l’Islam e la donna?

Credo che i media giochino un ruolo fondamentale in questo senso e dovrebbero soprattutto mostrare la diversità da cui è composta la comunità musulmana. Ci sono molti musulmani, come me, che non rientrano assolutamente nei topici, negli stereotipi tradizionali ritratti dai media occidentali. Bisogna inoltre essere coscienti che le Comunità musulmane e le donne di queste comunità si stanno organizzando, stanno sfidando, si stanno sollevando contro il patriarcato e contro l’uso della religione. Bisogna sapere che c’è un crescente movimento formato da donne che sta sfidando i radicalismi, ed è molto importante quindi che i media mostrino le diversità di voci esistenti nel mondo musulmano.

 

 

Dallo stesso blog di Dacia Valent riportiamo

 

Allora, ci sarebbe l’Islam Italiano, che, però, in realtà non esisterebbe ancora, ma che a quanto pare sta nascendo proprio in questi giorni, ed è femmina.
Perché è questa la notizia.
In effetti, mentre le femministe d’accatto – per capirci, quelle che procacciavano ragazzine minorenni per le feste di un qualche gerarca del MSI - discutono del Prêt-à-Porter della prossima stagione per le musulmane (velo si o velo no…), ci sono delle donne incredibili che invece parlano di diritti veri, che si rivendicano con battaglie vere.
Insomma, tra donne vere come Lia di Haramlik e Khadi di An-nisa e altre tipo la Santanché dei neofascisti esiste lo stessa differenza che corre tra leonesse e lenonesse.
Vale la pena ricordare come tutto è cominciato: Lia si è presa una scuffia. Nulla che noi ragazze non si riesca a gestire.
Ti piace? Ci esci, ci parli, lo annusi e decidi di farlo tuo.
Fino a qui tutto normale, ritengo.
Invece, quando l’altro è un musulmano che si presenta come credente e "decente", che magari è pure sposato, seppure in fase di separazione (con una moglie che ha già schiodato e si è fatta pagare affitti, mobili e suppellettili), la scuffia non è così semplice.
Perché il signorino ti presenta un conto “spirituale” da pagare, anche se non sei una socia del club: “per stare dietro una porta chiusa con te felafelino mio, devi sposarmi, che sennò vado all’inferno”.
E tu cosa fai, oltre a proporre un’infinità di potenziali scappatoie mistico-giuridiche, se lui proprio significa qualcosa per te? Beh, gli dici di si.
Glielo dici perché ti piace, glielo dici perché lo ami, e soprattutto glielo dici perché hai capito perfettamente quale sia la sua esigenza: compiere con i precetti che la sua religione gli impone per fare questo passo che entrambi desiderate.
Ma se il Corano funziona per salvargli l’anima dalla lussuria, il Corano garantisce anche e soprattutto “l’oggetto della lussuria”, caro il mio musulragazzone, qualora questa finisca. Perché il matrimonio non si esaurisce tra le lenzuola.
Il Corano stabilisce che se ti prendi, con un matrimonio islamico, un’altra moglie, allora dovrai darle le stesse cose che hai dato alla tua prima sposa.
Facciamo un esempio: se alla prima sposa hai messo un tetto sulla testa, anche alla seconda dovrai metterlo, oppure darle l’equivalente in denaro.
"Chiunque abbia due mogli e inclini ingiustamente verso una di loro, si presenterà nel Giorno del Giudizio con metà del suo corpo pendente da un lato" (“Sunan”, riferito da Abu Hurayra (r) e riportato da Abu Dawud).
“…ma se temete di essere ingiusti, allora sia una sola… (Corano IV. An-Nisa [Le Donne]),
Il Corano impone l'equità nel trattamento di tutte le donne con le quali il nostro vitellone desidererebbe stare, facendo "le pie cosacce", dietro ad una porta chiusa. E, andrebbe ricordato, che il Corano non nasce certo per sponsorizzare la Hatu.
Vedete, il Corano garantisce la donna in mille maniere, purtroppo però soffre del morbo insidioso dell’interpretazione maschile, protrattasi nei secoli, che di fatto ci ha escluse, trasformandoci in percettori di doveri e spossessandoci di ogni diritto.
E mentre, ad esempio, i mariti pretendono di avere mogli modeste – magari imponendo loro un dress code – dimenticano le regole quando l’impegno li riguarda direttamente per cosucce come il sostegno della donna durante e, eventualmente, dopo il matrimonio.
Sebbene la poliginia non sia consentita dal diritto di famiglia italiano (la bigamia è sanzionata nel e dal codice penale), ciò non esclude che possa essere prevista dagli ordinamenti/consuetudini/precetti di talune tradizioni culturali e prassi religiose.
Quindi, per noi musulmani, se un uomo divorzia da sua moglie, è tenuto ad assumersi la responsabilità concreta dello scioglimento di un contratto, soprattutto perché stipulato davanti ad un notaio che non scherza: Dio.
E se è il Corano a sancire che il matrimonio conceda "legittimità" allo "stare insieme dietro una porta chiusa", è ancora una volta lo stesso Corano - nell'eventualità che quella porta la si voglia varcare per uscire - a garantire i diritti delle mogli e regolare i doveri del marito.
Come ogni contratto che si rispetti, il matrimonio musulmano, prevede delle penali per inadempienza contrattuale, un TFR e risarcimenti vari, perfettamente codificati, che farebbero la gioia delle femministe “occidentali”.
E quando si è in presenza di un contratto che ha valenza spirituale per i coniugi, o almeno l'abbia per uno di essi con l'esplicita accettazione dell'altro, è indispensabile l'esistenza di un’istanza alla quale appellarsi, qualora le regole etiche dell’accordo venissero palesemente violate.
Si avvera però che, essendo impossibile - grazie all’azione di ferventi attivisti antislamici che fanno di tutto per impedire la costruzione di Moschee, scuole, consulte e tribunali religiosi (sul modello della Consulta Rabbinica, ad esempio) - avere un ordinamento che preveda regole certe e formalizzate dalle leggi civili, ci sia chiaro che siamo in una specie di terra di nessuno, dove tutto è delegato alla volontà di noi donne di garantire i nostri diritti e quelli delle nostre sorelle, ed alla decenza dell'uomo che ci ha - frettolosamente o malamente - sposato.
Non solo, ma fino a quando le Moschee resteranno prive di riconoscimento legale, e lo saranno fino a quando non venga posta in essere l’Intesa o una seria e serena Legge sulle Libertà Religiose, il matrimonio islamico rimarrà una trappola nella quale donne innamorate - o peggio - costrette dalle famiglie, rischiano di cadere e farsi male.
È necessario che esista un’anagrafe dei matrimoni islamici che si celebrano in Italia, dove rilevare se qualche ragazzina non sia “mandata” in moglie ad un vecchio amico di famiglia, o che qualche donna non subisca un divorzio islamico umiliante.
È indispensabile la Commissione.
Ormai non si tratta di discutere sui diritti di Lia ad avere appassionate visite post-matrimoniali o cartoline infuocate per San Valentino, e nemmeno di discutere dei doveri che il Libro prescrive al Mullah de’ Noantri, il quale – pur di godere di certi pruriginosi vantaggi - ha maschiamente, da vero Vir si potrebbe dire, girato il costo alle sue donne. Entrambe.
No, non si tratta di cavillare sulla vita privata di Lia, anche se ‘sta benedetta ragazza ha deciso, come il suo solito, di prendere la sua vita e farne un piccolo esempio pieno di sole.
Si tratta di pensare a tutte le donne – italiane ed immigrate, di ogni e di nessuna religione - che quest'ipocrisia la subiscono senza avere voce per denunciarlo, posti dove denunciarla e persone intelligenti con cui condividerla.
Ecco perché amo Lia.
E vi assicuro che per farla “mia”, non perderei tempo a passare in Moschea: un secondo di paradiso vale un’eternità all’inferno.
Lei ha chiamato. In molte, stiamo rispondendo.
Dacia Valent

Link utili:
Naturalmente da Lia e da Khadi (qui e qui). Ma anche da Mauro Biani, Aladin, Girodivite, MMAX, GraziaBlog, Macchianera (qui e qui), ed altri ancora.
 

Rassegna stampa

In Italia Irshad Manji, la ribelle dell’Islam
La donna che si chiede quando “abbiamo smesso di pensare” da l'Opinione
La Redazione Wednesday 29 November 2006

di Dimitri Buffa

Per chi non la conoscesse Irshad Manji è la “refusenik” islamica, cioè la “rinnegata”, che è diventata famosa in tutto il mondo confutando le tesi dei barbuti fondamentalisti della sua stessa religione prendendosi la briga di misurarsi con loro sul loro stesso argomento: il Corano e le possibili esegesi dello scritto dettato da Allah all’allora povero e analfabeta Muhammad. Perché in realtà a essere eretici sono proprio i vari Fratelli musulmani o i loro concorrenti wahabiti che usano la religione come “instrumentum regni” e per assoggettare l’universo femminile. Circostanza quest’ultima che la scrittrice nata in Uganda da genitori pakistani e poi emigrata in Canada non ha mai voluto accettare. Infatti della propria diversità sessuale e dell’orgoglio femminista ha fatto un vanto. Fin da quando a tredici anni si premetteva di rispondere a tono all’imam della moschea islamica in quel di Richmond. E si confrontava con l’incosciente buonismo della politica canadese che permette alle comunità di immigrati di farsi la propria legge coranica nel proprio ghetto. Un po’ come avviene in Italia con l’Ucoii che addirittura rivendica la poligamia.

Irshad Manji per confutare i profeti della jihad ha usato un altro istituto giuridico sapienziale dell’Islam: la cosiddetta “ijtihad”. Che grosso modo vuol dire interpretazione. Delle fonti. Perché se l’Islam oggi appare persino più arretrato che ai tempi del dopo Mohammad si deve a chi negli ultimi cento anni ha fatto una testa così a tutti i religiosi fanatizzandoli sulla lettura letterale del testo. Cosa che invece non sta né in cielo né in terra. Irshad Manji fu finalmente conosciuta dagli addetti ai lavori dopo la pubblicazione del libro “Quando abbiamo smesso di pensare?”, che ieri è stato presentato a Roma nell’ambito delle lodevoli iniziative dell’onorevole Daniela Santanchè a favore delle donne islamiche in Italia. Intervistata da "El Pais" la Manji già due anni or sono aveva spiegato cosa voglia dire per una donna islamica l'emancipazione femminile e quale poteva essere il prezzo da pagare. Il suo primo libro era già stato pubblicato in 25 paesi nel 2003. In Italia è arrivato con l’editore Guanda l’anno seguente. Con poco battage pubblicitario così come si conviene con il non politically e islamically correct qui da noi.

La donna aveva raccontato al "Pais" i propri turbamenti adolescenziali, gli studi islamici intrapresi in una "madrasa" coranica di Richmond dai 9 ai 14 anni in Canada, una città con oltre 168 mila abitanti alla frontiera con gli Usa e con una forte comunità islamica e le prime domande imbarazzanti rivolte all'imam di quella madrasa. E anche l'epilogo delle sue domande indiscrete: fu espulsa quando chiese perché non potessero anche le donne diventare imam e condurre la preghiera e perché l'omosessualità, insita nella natura umana, fosse considerata un peccato quando il Corano dice che tutto ciò che Allah ha messo nell'uomo è di per sé innocente. Le risposte che le venivano date sempre più in maniera irritata erano sempre le stesse: "Allah non lo permette" e "leggi il Corano". Così la giovane Manji è dovuta diventare suo malgrado e per legittima difesa ("dovrei avere paura di una fatwa con condanna a morte ma la verità è che non ho timore di nulla") un'esperta del Corano, almeno per controbattere gli anatemi bigotti "degli uomini barbuti". E se qualcuno la uccidesse? "Prima di morire gli direi: non capisci che così fai il gioco di chi vuole discriminarti per il tuo credo religioso e per le tue idee politiche? Che così danneggi tutto l'Islam?"

Proprio Manji nel colloquio con "El Pais", aveva tirato fuori il concetto di "ijtihad", che, a leggere nel fondamentale "Oxford dictionary of Islam" redatto da John L. Esposito, viene così riassunto: "termine legale islamico che significa ragionamento indipendente, in opposizione al concetto di taqlid, che vuol dire imitazione. E' una delle quattro fonti della legge della Sunna, utilizzabile proprio quando né il Corano né la Sunna vengono in soccorso". In pratica si tratta dell'ermeneutica del Corano e della legge, shar'ia, così come tramandata da 14 secoli con sempre possibili nuove interpretazioni. La vera speranza di modernizzazione viene quindi dall'uso e dallo studio di questo istituto che chissà perché i tanti predicatori integralisti che soffocano il mondo islamico dimenticano sempre di citare. E il colmo dei paradossi, ma non tanto per chi conosce l'arabo, è che sia il lemma "ijtihad" che quello molto tristemente più noto "jihad" vengano dalla stessa radice araba trilettera cioè "giahada". Termine che significa lavorare o sforzarsi.

Questo verbo che nella terza forma verbale (l'arabo antico ne contava sino a venti, quello moderno si limita a dieci) significa anche "fare la guerra santa", nella sua ottava forma assume invece il significato di "formulare un giudizio indipendente in una questione legale o teologica". Per la cronaca tanto il sinistro termine "jihad" quanto l'altro molto più rassicurante di "ijtihad" sono degli infiniti, in arabo “masdar”, nomi verbali, delle loro rispettive forme. Così, in quello che in Occidente verrebbe senz'altro definito un bisticcio, o gioco, di parole, si può risolvere la contraddizione odierna tra l'integralismo islamico e la voglia di modernizzazione. E' chiaro, diceva infatti la scrittrice della comunità canadese al “Pais”, che se si valorizza il giudizio indipendente del singolo teologo o di una scuola di nuovi interpreti della legge coranica, tutto questo equilibrio tra dispotismi interni a ogni regime arabo-islamico e spinte rivoluzionarie fondamentaliste, potrebbe finire. Adesso che Irshad è venuta anche in Italia vedremo come sarà accolta dai vari Nour Dachan, Hamza Piccardo e compagnia cantante dell’Ucoii che sognano di ripetere in Italia l’esperienza delle banlieu parigine e del Londonistan. E vedremo anche come ne scriveranno i quotidiani comunisti i cui referenti politici sono ormai diventati di fatto le quinte colonne della jihad in Italia. Da Diliberto in giù.
da http://www.opinione.it/pages.php?dir=naz&act=art&edi=258&id_art=4949&aa=2006

 









Postato il Mercoledì, 17 gennaio 2007 ore 17:27:48 CET di Salvatore Indelicato
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