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Riforma: PROVE TECNICHE DI BIENNIO

Comunicati
PROVE TECNICHE DI BIENNIO

di Gian Carlo Sacchi

Come da programma elettorale la legge finanziaria prevede che “l’istruzione impartita per almeno dieci anni  è obbligatoria”.  Non c’è dubbio che si tratti di una sfida di civiltà, ma a nessuno sfugge che il modo con il quale questa viene realizzata non sia indifferente rispetto alla qualità del percorso formativo ed al relativo successo, cercando di evitare quel fenomeno che purtroppo è ancora molto diffuso nella scuola secondaria, a cominciare da quella di primo grado, che è la dispersione e l’abbandono.

L’innalzamento “è finalizzato a conseguire un titolo di studio di scuola secondaria superiore o una qualifica professionale di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età”. Una tale affermazione mette in evidenza che il rapporto tra formazione generale e  professionale va affrontato subito, a partire dal biennio, sebbene in maniera orientativa, altrimenti risulterà difficile capire come sia possibile uscire al terzo anno con una qualifica professionale, facendo leva su un biennio unitario obbligatorio e non continuando nella logica del “doppio canale”. E’ questa della continuità e della terminalità un questione annosa sulla quale si sono già consumati precedenti tentativi di riforma.

“L’età per l’accesso al lavoro è conseguentemente elevata da quindici a sedici anni”. Giusto principio dal punto di vista del mercato lavorativo, ma per questi due anni bisogna tenerli i ragazzi in formazione altrimenti il rischio è quello di alimentare il lavoro nero. E quindi, di nuovo, il biennio diventerà lo snodo pedagogico – didattico decisivo; importante sarà dar corpo in maniera adeguata a quella successiva affermazione della legge: “l’adempimento dell’obbligo di istruzione deve consentire….l’acquisizione dei saperi e delle competenze previsti dai curricoli relativi ai primi due anni di istruzione secondaria superiore, sulla base di un apposito decreto adottato dal ministro della pubblica istruzione….”, dal che si deduce che il biennio, pur essendo l’inizio della scuola superiore, si suppone quinquennale, sarà nuovo per tutti, dal liceo agli istituti professionali (che sembra non passino più alle regioni).

Pur proseguendo nell’istruzione obbligatoria gli allievi devono aver acquisito il diploma di fine del primo ciclo (licenza media), cosa anch’ essa non scontata se si pensa a quanti allievi ancora oggi abbiano ritardi in tale grado scolastico e siano costretti a percorsi tortuosi nell’ambito dei centri territoriali per gli adulti per arrivare a concludere con quel diploma, mettendo non poco scompiglio in una realtà che dovrebbe centrarsi su una didattica specifica per un’altra età.

Ma subito nasce la consapevolezza che pur nel perseguimento dei predetti obiettivi “possono essere concordati tra il MPI e le singole Regioni percorsi e progetti che….siano in grado di prevenire e contrastare la dispersione e di favorire il successo nell’assolvimento dell’obbligo di istruzione.”

Riesce difficile pensare che si possa perpetuare il doppio canale, o addirittura far sperimentare, come è accaduto in alcune realtà regionali, un curricolo da formazione professionale negli istituti professionali di stato, è più probabile che gli istituti scolastici si trovino a cogestire curricoli con altre agenzie formative (accreditate), come accade in quelle regioni che attuano i così detti “percorsi integrati” (con forme di integrazione variabili nei modi e nei tempi), a meno che il “fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche” non voglia dire introdurre surrettiziamente livelli diversi di percorsi per arrivare ad un successo formativo ad modus recipientis e non piuttosto usare quest’ultima per arricchire il curricolo, in collaborazione con esterni, per favorire una maggiore qualità degli apprendimenti. Ma anche qui torniamo sul come affrontare il problema del curricolo, magari ripartendo e andando oltre all’ipotesi (non più di questa) dell’art. 8 del DPR n. 275/99.

Se si vuole pensare ad un curricolo che coinvolga tutti i bienni variamente distribuiti, preveda l’eventuale presenza di agenzie esterne, che non sono da confinare solo in alcuni indirizzi (i percorsi integrati con la formazione professionale oggi presenti nei licei sono molto promettenti ed anche le esperienze di alternanza studio – lavoro servono a formare e ad orientare meglio le persone, indipendentemente dall’indirizzo frequentato), tenga sotto controllo il disagio e la dispersione, anche qui problema assai diffuso in tutte le scuole, occorrerà misurarsi più con gli standard nazionali che con le discipline, con le competenze che riferiscono delle diverse modalità di apprendimento, attraverso un forte investimento sulla dimensione orientativa che si concretizza con il riconoscimento dei crediti.

Un curricolo così complesso va costruito dal basso se si vuole che aderisca veramente alle esigenze degli alunni e dei contesti; l’applicazione rigida di programmi nazionali ancora fa parti uguali tra diversi. L’unitarietà del sistema sta nei risultati e non negli adempimenti. Definiamo dunque i traguardi nazionali e sosteniamo la qualità dei sistemi locali.

Si sente dire di frequente che si deve passare dalla scuola con il laboratorio alla scuolalaboratorio, ma questo non può avvenire se lo si lascia alla sola iniziativa dei docenti, incoraggiati magari da un curricolo nazionale costruito sulle materie con percentuali di progettazione locale, ma se davvero si vuole cambiare bisogna spostare il baricentro del lavoro del docente, come si è detto, dall’adempimento al risultato, lasciando margine di manovra sul curricolo reale, e non su una percentuale di quello formale.

Nuclei di saperi per tutto il Paese, aree di competenza, standard di riferimento, docenti capaci di sviluppare percorsi di apprendimento organizzati per istituto con modi e tempi flessibili; rapporti efficaci con il territorio: convenzioni, “adozioni”, partecipazione allo sviluppo dello stesso; modalità di autoriflessione e di autoregolazione.

Questa del biennio sarà l’occasione per rivedere un po’ tutto il percorso della preadolescenza, dagli 11 ai 16 anni.

A scuola “perdura un taylorismo che va superato”, occorre creare spazi di ricerca, mettere cioè in pratica una delle diverse autonomie, perché si possa seguire il “cambiamento in un sistema complesso”: “l’apprendimento non avviene tutto a scuola, ma può passare per la scuola”.

Oggi non solo i confini tra le discipline non sono così nitidi e separati, ma anche i problemi che più interessano i giovani e la società restano fuori dalla scuola: un curricolo solo conoscitivo, proposto in maniera deduttiva, non può far crescere la “persona competente”, la quale ha bisogno (e voglia) di mettere le mani in pasta, di imparare facendo, partecipando al proprio apprendimento, constatando l’evolversi delle competenze, cercando il senso di ciò che apprende, assumendosi la responsabilità delle proprie scelte.

Insomma se si vuole fare ripartire l’apprendimento e conquistare tutti ulteriormente alla scuola, le discipline sono necessarie ma non sufficienti, ci vuole una essenzializzazione dei saperi su nuclei fondanti, obiettivi formativi, l’ampliamento dei curricoli a situazioni di vita, metodologie attive e coinvolgenti, ambienti formativi significativi. L’omogeneità dei percorsi non fa che reiterare le differenze e il 20% di autonomia curricolare, attribuita dal ministro, non sarà efficace se non coinvolgerà anche l’altro 80% nella qualità della formazione. Sul piano didattico poi il locale e il nazionale si influenzano reciprocamente

Si tratta, come si è detto, di partire dalla situazione reale e di promuovere le potenzialità (empowerment), documentando progressivamente le buone pratiche, costruendo una comunità professionale che sappia riflettere insieme sul lavoro che si svolge per innovare. L’innovazione nella scuola viene perlopiù dall’esterno; documentare, riflettere, progettare costituiscono le cellule germinali dell’innovazione medesima.

L’apprendimento avviene in quel determinato contesto anche se deve “collocare nel mondo”.

A partire dalle competenze del biennio, quelle di cittadinanza e orientative, si potranno così innestare quelle tecnico – professionali, in una situazione che consolidi la laboratorialità ed i rapporti con il mondo del lavoro.

I “poli formativi” saranno l’occasione per far collaborare più indirizzi tra di loro, per superare la frammentazione disciplinare e di indirizzo con percorsi diversificati, più orientati a perseguire obiettivi a carattere nazionale e quelli più vicini alla realtà territoriale: tutti però, come si è detto all’inizio, devono garantire un biennio unitario sul piano formativo e orientativo, anche se non privo di connotazioni. Nei poli potrebbero sorgere anche corsi superiori e costruirsi rapporti più stretti con il mondo del lavoro (distretti industriali), nonché con le università.

Qualora dopo il secondo anno si registrasse un’uscita verso l’apprendistato si dovrà avere cura che questo non perda il suo carattere formativo, almeno fino al diciottesimo anno od al conseguimento di un titolo o di una qualifica, a partire dal valore appunto formativo dell’ambiente di lavoro che spesso rivela caratteristiche proprie non riproducibili nelle aule scolastiche. Questo si coglie ad esempio nei periodi di tirocinio o di alternanza anche se non viene adeguatamente valorizzato nella scuola.

In conclusione in certe regioni  l’obbligo a sedici anni c’è già, ma anche lì non si è alla pari con gli obiettivi di Lisbona circa il successo scolastico ed il numero dei diplomati. L’innalzamento è senza dubbio una forma di irrobustimento del sistema, ma attenzione che avere la struttura e vederla praticata non è la stessa cosa. Nella struttura ci sono delle persone giovani con tutta l’incostanza e l’incertezza tipica dell’età a fronte di un sistema di apprendimenti che gli adulti hanno pianificato, anche sul piano degli sbocchi occupazionali, che spesso non motiva i ragazzi. Tenerli in formazione è l’obiettivo strategico della società della conoscenza e la domanda del mondo del lavoro, il come è principalmente compito della scuola e delle altre agenzie formative, ed è la sfida dei nostri tempi. Per voler essere una società dell’inclusione occorre una collaborazione dichiarata e coerente sui diversi territori, una rete degli attori sociali adulti che non si sostituiscano ai giovani e ne preconizzino il risultato, ma che li accompagnino nella loro crescita.




















Postato il Venerdì, 05 gennaio 2007 ore 00:05:00 CET di Silvana La Porta
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