Non
v’è dubbio alcuno che il governo con questa legge abbia la responsabilità di
operare tagli e risparmi intervenendo per potare rami secchi, ottimizzare i
criteri di spesa o per ripristinare efficienza ed efficacia nella pubblica
amministrazione. Il fatto però è che il tutto dovrebbe essere ispirato da una
vision d’insieme che contempli anche la conoscenza della legislazione esistente,
della carta costituzionale e il rispetto per la dimensione professionale degli
attori coinvolti nell’esercizio delle attività su cui interviene.
A questi aspetti, in particolare, intendiamo riferirci nella nostra analisi.
L’Autonomia ignorata
Gli “Interventi per il rilancio della scuola pubblica”, il corposo articolo
così titolato, nella versione originaria del testo, sono affidati con una
solitaria delega (è stato incredibilmente non inserito nel testo il consueto
parere delle Commissioni come proposto da maggioranza e opposizione) al Ministro
e prevedono al primo punto indicazioni di provvedimenti che rivelano una palese
assenza di considerazione sui punti prima evidenziati.
Infatti, al comma a) leggiamo che: ”sono adottati interventi concernenti, nel
rispetto della normativa vigente, la revisione a decorrere dall’anno scolastico
2007/2008, dei criteri e dei parametri per la formazione delle classi al fine di
valorizzare la responsabilità dell’amministrazione e delle istituzioni
scolastiche, individuando obiettivi, da attribuire ai dirigenti responsabili,
articolati per i diversi ordini e gradi di scuola e le diverse realtà
territoriali, in modo da incrementare il valore medio nazionale del rapporto
alunni/classe dello 0,4”.
Ora, che si vogliano ottimizzare gli organici non scandalizza certo, essendo
l’opinione di chi scrive contraria da sempre alla scuola come ufficio di
collocamento e quindi non è tanto nel merito del provvedimento che esprimiamo
perplessità quanto nel fatto che il governo, imponendo un aumento del rapporto
dello 0,4, cui corrisponderebbe un aumento medio del numero di alunni per classe
dall’attuale valore di 20,6 a 21,0, richiami una “normativa vigente“ che
evidentemente ignora. Infatti, poiché la richiamata normativa, non può non
includere anche l’autonomia organizzativa delle scuole costituzionalmente
garantita (non ci stancheremo mai di ricordarlo), che prevede tra le opzioni
possibili (D.P.R. 275/99, art.4) il superamento del gruppo classe a favore di
un’articolazione modulare di gruppi di alunni, ci chiediamo perché attestarsi su
un istituto rigido come quello della classe, pre-riforma dell’autonomia,
ignorando quindi tutte quelle flessibilità organizzative che la legislazione
dell’autonomia prevede e non adottare invece come parametro il numero
complessivo di studenti nella scuola, in modo da lasciare all’autonomia delle
scuole la responsabilità di scegliere l’organizzazione più efficace.
La sensazione è che anche dal lessico usato in questa Finanziaria sembra essere
archiviata ogni traccia di un’innovazione che ormai è diventata patrimonio delle
scuole da quasi un decennio.
Professionisti o esecutori?
Eppure, il sottile dirigismo impositivo, relativo all’organizzazione per
classi, che permea il precedente provvedimento è un’inezia rispetto a quanto
segue e cioè a quegli interventi che saranno adottati ai fini della “prevenzione
e al contrasto degli insuccessi scolastici attraverso la flessibilità e
l’individualizzazione della didattica, anche al fine di ridurre il fenomeno
delle ripetenze”.
Un comune mortale che leggesse solo questo periodo non vi troverebbe alcunché di
strano salvo, forse, il fatto che flessibilità e individualizzazione della
didattica non sono certo praticabili senza organici funzionali (che per giunta
si vogliono ridurre all’osso).
E’ solo la lettura della relazione tecnica di accompagnamento al dispositivo di
legge che toglie il velo a questo criptico politichese e rivela, in tutta la sua
perversa intenzione, che quello che interessa al legislatore è solo la
quantificazione della riduzione della permanenza media degli alunni nel sistema,
ai fini di una mera riduzione della spesa. Infatti, leggiamo: “Al fine della
stima del risparmio, è stata considerata una riduzione del 10% del numero di
ripetenti dei primi due anni di corso della scuola secondaria di secondo grado,
ammontanti oggi complessivamente a 185.002 studenti. Si ricava così una
diminuzione di 18.500 unità per la popolazione studentesca che, considerando
l’attuale rapporto alunni/classi, corrisponde a 805 classi; supponendo quindi di
poter diminuire il numero complessivo di classi in ragione dell’80% del
possibile risparmio, si stimano 644 classi in meno, corrispondenti a 1.455
docenti e 425 ATA, per una minore spesa di euro 56 milioni a decorrere dall’anno
2008, ed euro 18,6 milioni per l’anno 2007.” (fonte: relazione tecnica alla
Finanziaria).
Dunque se qualcuno aveva ancora qualche dubbio sull’ottica statalista con cui si
sta guardando al pianeta scuola è servito: in ossequio ad un resuscitato
rispetto delle procedure, la legge impone ai suoi
sottoposti-impiegati-insegnanti di addomesticare le valutazioni nei termini di
un 10% di bocciature in meno, con buona pace di “sciocchezze” come l’autonomia
professionale, la libertà d’insegnamento, i criteri meritocratici e di
attenzione a quella verifica dei risultati che è alla base delle responsabilità
professionali che la scuola dell’autonomia impone. Altro che professionisti
dell’istruzione! Ci si sta chiedendo di “ottimizzare la produzione con parametri
quantitativi fissati” e in modo perentorio, dato che è stata confermata la
famosa clausola di salvaguardia che taglierà le dotazioni complessive di
bilancio in caso di non conseguimento degli obiettivi di risparmio.
Ma i ragazzi sono persone e non manufatti, diceva una mia preside.
Vorrei sapere che ne pensa oggi chi paventava una deriva aziendalista della
scuola. Altro che azienda, qui si tratta di fabbrica!
Dove sono gli insegnanti?
Quello di cui ci rammarichiamo è il fatto che qualsiasi categoria
professionale, orgogliosa di questo aggettivo, sarebbe insorta di fronte ad un
tanto palese disinteresse verso le sue prerogative ma, purtroppo, non è questo
il caso italiano dove non esiste un Ordine professionale e l’associazionismo
professionale non è ancora stato scelto dalla maggioranza degli insegnanti come
rappresentativo della loro valorizzazione in termini di dignità e di merito. Da
qualsiasi parte si guardi siamo quindi una categoria trasparente: i politici
evidentemente non ci vedono, ma nemmeno gli insegnanti hanno piena coscienza del
baratro di appiattimento nel quale vengono sempre più sprofondati, mortificando
le loro più elementari prerogative di autonomia professionale che si sostanzia
nella responsabilità delle decisioni, di cui la valutazione è una delle più
specifiche e delicate e che non può certo essere costretta ed orientata da
rigidità economicistiche.
Il disinteresse con il quale si guarda alla categoria docente di cui, in modo
miope, il decisore politico non riesce ( o non vuole) decifrare la banale
equazione Buona scuola= Buoni insegnanti, si evince anche dal comma successivo
in cui si parla di reclutamento dei docenti, dove emerge la preoccupazione “di
attivare azioni tese ad abbassare l’età media del personale docente e di
definire contestualmente procedure concorsuali più snelle con cadenze
programmate e ricorrenti”.
Nessun riferimento al merito né tantomeno alla valorizzazione di quelle risorse
professionali di cui già disponiamo e per la cui formazione lo Stato ha già
investito, che sono gli insegnanti specializzati delle SSIS. Com’è noto, un
pervicace ostracismo da parte sindacale ha di fatto consentito che fosse assunta
solo una percentuale inferiore al 3% del totale dei docenti assunti in ruolo
nell’ultimo anno.
Un buon insegnante si forma dalle origini
Inoltre, l’essenziale riferimento a procedure concorsuali più snelle, fa
temere un improvvido ritorno al passato rispetto a quanto era stato finora
faticosamente costruito in merito alla formazione iniziale specifica degli
insegnanti in ambito universitario, sia dal precedente governo dell’Ulivo con
l’istituzione delle SSIS, sia nella scorsa legislatura con il decreto 227/05.
Questo decreto prevede, come è noto, un reclutamento degli insegnanti basato su
procedure concorsuali legate ad un’idonea e specifica formazione universitaria
con selezione in ingresso, vincolate alla disponibilità effettiva di posti al
fine di evitare il riprodursi del fenomeno del precariato e per realizzare una
selezione professionale che finalmente sostituisca il criterio del merito a
quello della sola anzianità di servizio.
Poiché non sembrerebbe verosimile, oltre che autolesionista, un simile colpo di
spugna su tutta la partita che riguarda la costruzione di una formazione
iniziale qualificata legata al reclutamento, ci conforta almeno il fatto che,
tra i molti ordini del giorno presentati, dal governo ne sia stato accettato uno
presentato dalla minoranza che, richiamando le modalità di reclutamento degli
insegnanti nella UE, nonché le indicazioni dei Consigli europei dell’istruzione
e di Organismi internazionali, come l’Unesco, impegna il governo a non
svincolare il reclutamento dalla formazione iniziale e continua universitaria di
tipo professionalizzante e a garantire così una selezione di insegnanti giovani
e qualificati.
Non possiamo che associarci con forza a questa richiesta e sperare che questo
impegno sia onorato senza.
Una questione di metodo
Da ultimo, constatiamo come in meno di dieci anni il concetto di democrazia
abbia subito una inquietante involuzione in materia di quelle riforme che, come
l’istruzione, dovrebbero essere discusse e condivise da tutti. In molti
ricorderanno come, durante il precedente ministero Berlinguer, fosse tenuto in
grande considerazione il metodo della democrazia diretta. “La parola alle
scuole”, la consultazione avviata nel 1998 su quella che oggi rappresenta
l’unica riforma sostanzialmente condivisa, il regolamento in materia di
autonomia didattica, aveva toccato la quasi totalità delle scuole e degli
insegnanti.
Dopo appena otto anni si inserisce laconicamente in un comma della Finanziaria
un “correttivo” ad una riforma di ordinamento, la Legge ’53, sui cui principi
ispiratori, condivisibili o meno, la società civile e il Parlamento ha dibattuto
quasi per un intero quinquennio. Il biennio unitario obbligatorio tutto
nell’istruzione va ad inserirsi quindi a scardinare un impianto ordinamentale
tuttora esistente, affidando la sua ratio ispiratrice nemmeno ad un dibattito
parlamentare ma solo ad un voto di fiducia. L’aggravante è costituita dal fatto
che, contrariamente alle precedenti leggi delega, non sono previsti nemmeno i
pareri delle Commissioni parlamentari , con tutto quello che ne consegue in
termini di democrazia reale: audizioni delle associazioni etc….
Concludendo, ancora una volta le ragioni della politica prevalgono lasciando su
un terreno divenuto sempre più inerte quelle della Scuola e dell’Istruzione che
in tutti i Paesi della UE, tranne il nostro, sono degne di ben altra
considerazione.
Paola Tonna