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Umanistiche: A PROPOSITO DELLA ''MORTE DELLA LETTERATURA''...

Rassegna stampa
Guido Guglielmi
 Crisi della critica, crisi della letteratura

1. Da tempo ormai si parla di crisi della critica letteraria, di crisi della cultura in generale, di crisi del romanzo, di crisi della letteratura, e questo è un fatto su cui tutti consentono. Già qualche anno fa Segre parlò di crisi: penso che senz'altro siano condivisibili le sue conclusioni provvisorie sullo stato della critica.
 Credo che la crisi della critica sia strettamente collegata alla crisi della letteratura: se c'è letteratura c'è critica; se non c'è letteratura la critica muore. Non è pensabile una letteratura che non sia nutrita di ragioni, quindi di ragioni critiche. Ciò significa che le sorti della critica restano a mio avviso strettamente legate alle sorti della letteratura negli anni a venire. E d'altra parte pronunciarsi su questo punto è arrischiato. Personalmente ritengo che la letteratura abbia una sua possibilità anche se il medium letterario non è più, da un pezzo, il medium centrale della cultura. La scrittura resta fondamentale, anche se non ha più e non può più avere quella posizione dominante, anzi esclusiva, che ha avuto a lungo. Sin da quando esistono il cinema, la fotografia e gli altri media la scrittura si è ridimensionata, ha assunto un diverso ruolo. E tanto più oggi: sia il mezzo televisivo che quello informatico offrono possibilità che la scrittura non può più soddisfare. Oggi per esempio un messaggio «d'avanguardia» (in senso stretto) non passerebbe più attraverso il medium verbale: è probabile che passi attraverso altri media. E tuttavia la scrittura continua ad avere una funzione essenziale, perché la lingua della critica è la scrittura e non riesco a immaginare qualunque nuova produzione separata da una riflessione, cioèda una critica.

2. A chi può interessare la letteratura e quindi la critica? Per chi scrive il critico? Io credo che tutti quelli che si interessano della letteratura in maniera non puramente edonistica e impressionistica necessariamente si occupano di critica. Si incontrano giovani che hanno una fortissima passione per la letteratura, che magari tentano di scrivere loro stessi, o sognano di scrivere. Non mi sembra che in certi ambienti soprattutto di tipo giovanile, che poi sono quelli importanti, l'interesse per la letteratura si debba considerare mancante. Anche se quando io penso ai giovani penso a quelli che incontro in determinate sedi: università, o librerie, quindi giovani non rappresentativi del mondo giovanile nel suo complesso, che è più sensibile ad altri media, di tipo forse musicale. Ma questo stesso mondo non rifiuta pregiudizialmente la letteratura. I testi della critica nascono discutendo, elaborando questioni affrontate con gli altri.
 Si scrive sempre per un destinatario. E potrebbe essere magari un destinatario fantasma. Si tratta di un destinatario interessato ad andare oltre l'immediatezza di ciò che legge. Un destinatario quindi che non tanto sia esperto, colto, quanto disposto a riconoscere che non si finisce mai di diventare esperti. Si scrive (e può benissimo servire una storia o un'antologia letteraria) per il destinatario da formare e per mantenersi in formazione.
 D'altra parte, anche la scrittura letteraria fa i conti con questo medesimo tipo di problemi. Uno scrittore, per chi scrive? Sappiamo che scrive per un lettore da produrre.
 Lo scrittore che ha un destinatario preciso fa un'operazione diversa, cioè capisce quali sono gli orientamenti del pubblico, quale è la storia che più gli piace e la scrive pensando che venga letta dal numero più alto di clienti e dunque non urti certe attese. Proprio la critica riporta questo scrittore alla sua misura minore; e non se ne occupa se non per studiare il gusto dei lettori: per condurre uno studio sociologico di determinate tendenze sociali. Ma questo scrittore non dirà niente che il lettore già non si aspetti; e nella lunga durata non potrà entrare nel canone: si esaurirà nel tempo del consumo. Se ne occuperanno poi gli storici, i sociologi, per studiare l'editoria, la lettura, gli indici statistici di lettura ecc.
 Il critico non si riferisce a un pubblico particolare, predefinito. Ma se mai vuole ampliarlo. Cerca di elaborare un certo pensiero e si affida al lettore. Stendhal (per fare un esempio maggiore e per giunta di produzione creativa) diceva «sarò capito nel 1900»: cioè scartava il pubblico della sua epoca e aveva fiducia nella possibilità di un pubblico. È un esempio improprio che faccio. Ma mi servo di esso per intendere che la saggistica, in quanto impegno che non persegua una finalità precisa, una commissione - poniamo una voce di enciclopedia in cui bisogna spiegare le cose secondo gli standard culturali del momento -, sfugge a determinazioni troppo strette, è un lavoro più arrischiato, più libero. Forse potrebbe trovare qualche eco, essere ripresa, oppure anche cadere nel nulla. Insomma è un impegno di riflessione personale che però viene esposto all'altro e ha bisogno dell'altro. La saggistica è un genere letterario. E tutta la letteratura moderna (creativa o critica) scommette su un pubblico, lo anticipa; si sforza di andare al di là degli orizzonti di attesa.

3. Si deve davvero guardare all'orizzonte della ricezione? Non c'è dubbio. Ogni epoca legge in maniera diversa un medesimo testo, perché cambia la cultura in cui è ambientato. Quindi la posizione critica comporta una responsabilità. E i grandi critici sono altrettanto rari quanto i grandi scrittori. Il critico, posto che conti, è sempre anticipante: dice qualcosa che suscita una prima reazione negativa di perplessità e poi cambia il modo di pensare e di giudicare. Eliot propone una sua idea di letteratura inglese che scarta Milton, Wordsworth, i romantici, e la impone. La critica bisogna considerarla un'iniziativa produttiva quanto la letteratura. Per questo guardo con sospetto alla ricezione, almeno quando la si contrappone alla produzione. È vero che quando leggi un testo ti poni in una disposizione ricettiva, ma solo se cerchi di capirlo giungi a goderlo. La ricezione è importante quando diventa produttiva, cioè produce la critica. Anche il produttore, il poeta, è d'altra parte ricettivo. Eliot, non nasce dal nulla: si è letto tutti quelli che considera maestri. Il fatto è che la produzione è ricettiva e la ricezione è produttiva: non ci si può fermare all'uso impressionistico del testo. Cominci a capire in profondità quando cominci a riflettere, a mettere in gioco le tue categorie culturali. La riflessione ci dice, su Dante, qualcosa di più dell'informazione specialistica: questo di più è la critica, che esprime la relazione tra il testo e la cultura di chi legge. Si può leggere un testo, come spesso ci accade, per puro intrattenimento: ma se lo riapriamo, comincia il pensiero, comincia la critica: e tutto questo non è più ricezione.

4. È chiaro che la cosa più facile è delegittimare la critica, come la cosa più facile da dire è «la letteratura è morta»: non si vede più - sembra - una funzione della letteratura; e se la letteratura è morta, la critica è sicuramente morta. Se la letteratura creativa si spegne, nessuno capisce più la letteratura e dunque non si capisce cosa possa fare la critica. Leopardi diceva che il male del suo tempo era la perdita del sensorio necessario per capire la poesia, un sensorio «acquisito», nato, nel caso di Leopardi, dalla lettura di Virgilio, Orazio, Dante, Petrarca ecc. Se non hai questa sensibilità per un testo, il testo ti sfugge. Per conservarlo Leopardi immaginava due tipi di nuova letteratura: uno per i raffinati (che comprendono ancora Virgilio) e uno grossolano, oggi diremmo di consumo. Leopardi faceva questo discorso due secoli fa. Più di un secolo fa Mallarmé lo ripeteva, quando parlava di «sciopero dei poeti».
 Il tema della morte della letteratura ha accompagnato tutta la modernità; e non si finisce di dibatterlo. Possiamo quindi essere ottimisti. Credo che noi dobbiamo operare come se la letteratura e la critica dovessero «nonostante» tutto continuare. L'espressione non è mia: il giovane Lukacs parlava del romanzo come di «un'arte del nonostante». Lavorare «nonostante»: malgrado tanti segni sembrino chiudere la via a una nuova creatività che abbia lo stesso peso che ha avuto nel Novecento, quando - ricordiamo - anche Gallimard rifiutò il testo di Proust in un primo tempo.
 C'è il fatto, in primo luogo, che la letteratura almeno fino a ieri ha resistito; e, in secondo luogo, che evidentemente aveva delle ragioni oscure e difficili da analizzare per esistere: c'era una necessità di letteratura. La letteratura d'altra parte non è esistita solo perché c'erano grandi scrittori, che potrebbero non esserci oggi. Oggi invero, e in maniera più determinante di ieri, il vero sapere è la scienza; tutto il resto sembra paccottiglia. Ma anche in questa condizione del mondo che non è più umanistica esiste, evidentemente, il bisogno di una verità - e la letteratura funziona se produce verità - che non è di tipo scientifico. Esistono molte culture, molti saperi che sono necessari pur non essendo di tipo scientifico. L'etica per esempio. Non esiste nessuna possibilità di un'universale etico per tutti noi, al quale tuttavia si deve tendere, mentre c'è un' unanimità delle verità scientifiche, che sono controllabili e verificabili da una comunità scientifica. Giustamente Luperini parla di una comunità ermeneutica: essa non è una comunità scientifica, è un gruppo che elabora una verità del testo che non può pretendere a una universalità di tipo scientifico e che tuttavia è probabile che sia di importanza essenziale per gli uomini. Occorre insomma distinguere il sapere della letteratura dai saperi esatti che hanno per fondamento le matematiche, i linguaggi artificiali ecc. La poesia è rigorosa senza essere esatta; e la critica è un genere letterario che si muove tra la letterarura e la filosofia. Anche la filosofia del resto non è una scienza. Se invece di parlare di crisi della critica si parlasse (come del resto si fa) di crisi della filosofia, ritroveremmo gli stessi problemi che abbiamo incontrato per la critica e per la letteratura. Mentre non si direbbe mai che esiste una crisi della scienza, se non provvisoria, salutare, e di crescita. La crisi della scienza significa un'altra cosa: la scienza entra in crisi nei paesi in cui non viene alimentata adeguatamente e finanziariamente; e meglio sarebbe parlare allora di crisi delle istituzioni scientifiche (come in Italia per esempio).

5. Direi riassumendo che proprio quei saperi che sono più necessari - antropologicamente parlando - perché riguardano il senso della vita, i suoi progetti e fini, oggi sono sottoposti all'usura della ricezione distratta, di consumo. Al contrario, il fenomeno non tocca il sapere scientifico, di cui sono competenti pochissimi, ognuno secondo il proprio specialismo, e che ha d'altra parte sviluppi tecnologici d'enorme importanza, che cambiano la vita del mondo. Questo è il sapere non mercificato che oggi viene difeso e coltivato con piena serietà, con pieno impegno; la letteratura invece non interessa la nostra autoconservazione, non ha conseguenze pratiche e calcolabili. E allora la sua destinazione diventa quella dell'intrattenimento (di cui non si può fare a meno).
 Ma se si rifiuta l'adeguazione di arte di consumo e arte non di consumo - qui il discorso è molto complesso, ora non possiamo farlo - occorrerà ribadire che la letteratura, come la riflessione etica e la riflessione filosofica, informa in profondità la cultura in senso antropologico. Bisogna dunque lavorare come se la critica fosse possibile. E scegliere magari una soluzione un pò pascaliana. Alla crisi della critica rispondiamo con un di più di critica.












Postato il Martedì, 26 dicembre 2006 ore 00:05:00 CET di Silvana La Porta
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