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Umanistiche: SE LA NARRATIVA ITALIANA AMA... IL CAZZEGGIO

Rassegna stampa

Nella babele della lingua ipermedia

Nel giro di quindici anni, dal ’90 a oggi, la lingua della narrativa italiana prima è stata colpita da infezione, enfiandosi ipermedia "oltre" le dimensioni fisiologiche della lingua media; poi, si è pian piano sgonfiata (uno dei primi ammorbati, Niccolò Ammaniti, partito dal cazzeggio verbale degli esordi “cannibali”, è approdato al solido romanzo d’impianto, normo-eloquente); ora darebbe inquietanti segni di atrofia da prosa perbenista, benpensante e benparlante. In questo quadro Giuseppe Antonelli, docente di Linguistica italiana presso l’Università degli studi di Cassino, in Lingua ipermedia (Manni, 2006), sulla scorta di una approfondita lettura specialistica della parola di scrittore oggi in Italia (è il sottotitolo del saggio), situa, individua, analizza e interpreta tipologie linguistiche, tendenze di stile e tensioni di senso all’interno della babele di linguaggi che caratterizza la recente narrativa italiana.
Valeria Della Valle, docente di Lessicografia e Lessicologia italiana presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza, Gabriele Pedullà, critico letterario e ricercatore di Letteratura italiana all’Università di Teramo, e Francesco Piccolo, scrittore e sceneggiatore, hanno ragionato sui temi al centro del libro, presentandolo a Roma il 30 novembre scorso. Proponiamo un’ampia sintesi dei loro interventi.

a cura di Silverio Novelli

Valeria Della Valle: e i non cannibali non perbenisti?

Voglio ricordare una domanda che qualche tempo fa si faceva Alberto Asor Rosa: e la letteratura, lo spazio e la lingua della letteratura, oggi, quali sono? Il libro di Antonelli sembra pronto a dare risposte, perché va a riempire un vuoto molto sentito dagli studiosi. Ogni volta che cerchiamo di affrontare gli aspetti linguistici della lingua letteraria e, in particolare, della narrativa contemporanea, della parola di scrittore oggi in Italia, siamo costretti a ripescare articoli sparsi di giornale o riviste, a metterli insieme, a confrontarli. Senza contare che alcuni dei più importanti, come La liberazione del linguaggio di Angelo Guglielmi, contenuto nell'ormai mitico Narrative Invaders!, numero unico della rivista «La Bestia» (1997), sono quasi introvabili. A ciò si aggiunga che sulla materia, in ricostruzioni che partono da lontano, possedevamo pochi punti fermi: l'affermazione di Vittorio Coletti, secondo cui gli scrittori non fanno più testo nella grammatica dell'italiano; quella di Luca Serianni, che si domandava se esistesse ancora una prosa letteraria.

Ora, Antonelli non riprende soltanto in modo organico, raccontandoli, i punti di vista altrui, ma arriva a definizioni personali innovative, direi anche coraggiose. Già soltanto il titolo, Lingua ipermedia, nasconde una originale volontà classificatoria e terminologica. Il prefissoide iper-, così come lo intende l'autore, è, come dire, giustificato dall'analisi che Antonelli ne fa in un precedente saggio, Sui prefissoidi dell'italiano contemporaneo: iper- viene adoperato nel titolo non nel significato di 'sopra' ma di 'oltre' (con riferimento alla lingua media).

Nel paragrafo Travestimenti del primo capitolo di Lingua ipermedia, il senso di questo 'oltre' riceve una prima chiarificazione. Qui si spiega come tramonti il mito della spontaneità e della verosimiglianza, del ricalco della lingua parlata. Molti autori degli anni Novanta cominciano a usare - e talvolta a teorizzare - una lingua artificiale, se non artificiosa. Si passa così, per dirla con Antonelli, dal parlato al parlato piucchepparlato, assolutamente non verosimigliante, che esaspera la cosiddetta funzione Gadda.

Un altro 'oltre' riguarda la figura dell'autore, di più incerto statuto in quanto funziona come una specie di shaker che rimescola voci, punti di vista e materiali linguistici eterogenei. Anche la parete tra autore e lettore si assottiglia, come succede in una pagina del romanzo di Sandro Veronesi Venite venite B-52, citata da Antonelli, in cui l'autore apre una finestra per rivolgersi direttamente al lettore - enfatizzazione di una tecnica già adottata da Italo Calvino. 'Oltre' la lingua media c'è lo scrittore che monta e smonta i pezzi di testo come fossero una sorta di lego (Antonio Rezza, Tiziano Scarpa); ma c'è anche la lingua che si pone in concorrenza con i nuovi media, come accade in Carlo Lucarelli, che sceglie un linguaggio di tipo cinematografico o, recentemente, nel Nicola Lagioia di Occidente per principianti, che mostra compiacimento nell'uso dell'inquadratura in soggettiva.

Mi ha colpito poi che nel prologo del libro, datato 30 ottobre 2005, stia un'affermazione in parte inquietante, in parte suggestiva che suona grosso modo così: la stagione della lingua ipermedia si è già avviata verso la fine. Il motivo di questa fine, secondo l'autore, consisterebbe nel fatto che negli ultimi tempi si è nuovamente fatto avanti un tipo di narrativa "perbene", consolatoria, linguisticamente più tradizionale: si configura, insomma, una sorta di ritorno all'ordine dopo un decennio - gli anni Novanta - di segno diverso.

Dunque, da una parte avremmo (o avremmo avuto) una produzione letteraria all'insegna della lingua ipermedia, eccessiva e parossistica, che si è consumata rapidamente ardendo sul proprio falò; dall'altra, diradati i fumi, resterebbero o tornerebbero sulla scena scrittori, anzi, soprattutto scrittrici, di bon ton linguistico. La narrativa italiana degli ultimi quindici anni sarebbe polarizzata sui due estremi. Mi chiedo allora, spostando in avanti il quesito iniziale di Asor Rosa: possibile che non esistano una letteratura e una lingua che occupino un altro spazio? Facendo dei nomi: dove si collocano autori come Domenico Starnone, Francesco Piccolo, Pietro Grossi, Valeria Parrella?


Gabriele Pedullà: chi si salva nel mare dei linguaioli

Uno degli aspetti che mi ha colpito in questo libro è la capacità di utilizzare sondaggi di natura tecnica per discorsi di analisi critica e storiografica. Lingua ipermedia ha una vocazione comunicativa, ma, sottolineo, anche fortemente interpretativa della storia letteraria italiana degli ultimi quindici o vent'anni. Attraverso la lingua, si entra nelle poetiche, nel mondo culturale e intellettuale degli autori affrontati.

La tensione filosofica, cioè concettualizzante, del saggio si può esemplificare partendo dalle ultimissime righe, quelle che concludono il discorso sul dialetto in Andrea Camilleri. Camilleri mette in bocca ai personaggi il dialetto in modo da identificarne e caratterizzarne immediatamente l'ambito sociolinguistico di appartenenza. Dice Antonelli: “Ciò che conta è la riconoscibilità: il romanesco non dev'essere davvero romanesco, ma deve suonare come il romanesco, proprio come lo spagnolo maccheronico dei milites gloriosi nella commedia cinquecentesca. È il ritorno della commedia delle lingue, la rivincita delle macchiette d'avanspettacolo, è il dialetto per diletto”.

Letta questa frase, ho pensato subito al saggio Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism di Frederic Jameson, nel quale un discorso identico vien fatto a proposito della Storia, cioè al rapporto che la cultura postmoderna intrattiene con la storicità. Ai narratori postmoderni, dice Jameson, non interessa per esempio ricostruire fedelmente l’ambiente storico degli anni Cinquanta del Novecento; a loro interessa richiamarne l'elemento superficialmente riconoscibile. Lo stesso rapporto intrattengono con la lingua la cultura e la narrativa degli anni Novanta. Un personaggio del passato viene caratterizzato con un paio di battute stereotipate che arieggino il periodo in cui è ambientata la narrazione; o gli si fanno indossare un paio di indumenti linguistici appropriati, come nel caso di Camilleri. L'obiettivo dell'autore non è di scavare in profondità, ma di restituire la superficie.

Ma Lingua ipermedia esprime la sua tensione concettualizzante anche (anzi, soprattutto) altrove: nel quarto capitolo, centrale e propositivo, a partire dalla dissoluzione che vi si opera di una serie di binarismi propri della critica letteraria novecentesca. Prendiamo il binarismo principe, la contrapposizione tra norma e scarto: è ancora utile? Antonelli elenca da una parte i binarismi della tradizione (nuovo vecchio, semplice complesso, scritto parlato, corretto scorretto), poi passa a proporre nuovi possibili parametri come forte debole, caldo freddo, chiuso aperto, monodico corale, compatto eterogeneo, ascendente discendente. Una coppia su cui insiste molto Antonelli è finzione/funzione, vale a dire il rapporto tra la finzione linguistica e la funzione che questa di volta in volta assume a seconda delle strategie espressive perseguite ed esibite. Per esemplificare: la medietà della lingua estrema dei narratori degli anni Novanta ha un senso affatto diverso dalla medietà della lingua neo-standard dei narratori degli anni Ottanta. Fenomeni che possono essere descritti in modo simile cambiano funzione.

La semplice analisi tecnica in base al binomio norma/scarto non è sufficiente a descriverli, perché sia la norma sia lo scarto possono essere utilizzati con funzioni assolutamente opposte. Bisogna invece individuare l'atto illocutorio che il narratore ha compiuto quando ha scritto il testo, come sostiene Antoine Compagnon, citato da Antonelli. Si parte dalla necessità di valutare qualsiasi discorso per la sua capacità di agire in un determinato contesto. Sentiamo dietro le pagine di Lingua ipermedia la presenza di John Langlaw Austin e di Quentin Skinner, il quale nel 1969, con Meaning and Understanding, in polemica con tanta critica "continentale" europea che andava dichiarando la "morte dell'autore", recuperò la lezione di Austin, ponendo l'accento sull'importanza del contesto per comprendere il senso di ogni affermazione.

Tornando alla lingua della narrativa degli anni Ottanta e degli anni Novanta, il rilevamento tecnico di fenomeni linguistici identici o simili non dà conto del contesto diverso in cui essi si collocano, esercitando una funzione diversa e assumendo un senso diverso. E il contesto diverso è il passaggio dalla lingua media degli anni Ottanta alla lingua ipermedia degli anni Novanta. Qualcosa che ci permette di capire come, per esempio, uno stesso stilema presente una volta in Leonardo Sciascia, un'altra in Aldo Nove abbia un senso completamente diverso. E ci permette di respingere contrapposizioni come quella teorizzata da Carla Benedetti, tra un Pasolini che scrive col sangue (perciò eletto a modello di vera letteratura) e un Calvino artefice di una letteratura in maschera.

Dalla stilistica strategica di Antonelli deriva un implicito principio di valutazione, che permette di individuare i migliori autori degli ultimi anni (tra i romanzieri attorno ai cinquanta, con Giuseppe condividiamo una predilezione per Michele Mari e Sandro Veronesi) e di segnalare contemporaneamente il rischio che questi corrono: affogare nel mare dei tanti linguaioli "ipermedi" che brandiscono l'arma dell'ironia postmoderna come giustificazione e validazione della loro lingua in realtà semplificata, in quanto attinge con sospetta facilità a meccanismi e lessici propri di altri media.

(trascrizione a cura di Silverio Novelli)

 

Francesco Piccolo: sto con Parise, lo scrittore semplice

Il mio esordio come narratore con Storie di primogeniti e figli unici è contemporaneo all'uscita dell'antologia Gioventù cannibale, nel ’96. È un periodo che tendo a rimuovere dalla memoria: divertente anche, sì, ma strano, perché io venivo messo automaticamente in contrapposizione al gruppo dei cannibali, che occupava gran parte della scena sulla stampa e in tv. Ero la gallina bianca per i critici che non amavano i cannibali («invece lui...», dicevano di me, soddisfatti), o, viceversa, la pecora nera per quelli che i cannibali li vedevano di buon occhio («e poi c'è pure questo qui...», interpretandomi come un anacronismo). Infatti questo qui, in maniera insensata, c’era pure lui in quel numero della «Bestia», citato da Valeria Della Valle, dove stavano allineati i cannibali e alcuni critici loro sostenitori.

Oggi possiamo dire che tutto ciò ha perso di significato. La presunta "discesa dei barbari" non si è mai trasformata in una realtà solida, in qualcosa di concreto sotto il profilo dell’elaborazione teorica comune. Come era naturale che accadesse, il tempo e le storie individuali di quegli autori hanno favorito una scrematura. Anche la critica dovrebbe oggi recuperare e analizzare i percorsi di ciascuno scrittore, per ricostruirli e mostrarne le caratteristiche al fine di esprimere giudizi di valore differenziati. Distinguendo, insomma, gli uni dagli altri. Un autore come Niccolò Ammaniti, per esempio, si è evoluto, è maturato assai, lasciandosi dietro l'ironia, il gioco - diciamolo pure: il cazzeggio - fino a dare di sé prove mature, che lo hanno rivelato e poi consacrato come un talento dotato di forza d'immaginazione, capace di raccontare in modo inconsueto l'Italia.

Ora vengo alla questione lasciata aperta da Valeria Della Valle: quale spazio occupano gli altri, cioè quelli che non sono dentro il mondo della "lingua ipermedia" ma che non sono nemmeno scrittori "perbenisti", consolatori? Il diverso, in virtù di che cosa è diverso? Non posso che partire da una testimonianza personale, come scrittore che è portatore di una certa idea della letteratura, e come lettore. La letteratura che amo è caratterizzata da due aspetti: scrittura complessa; scrittura semplice (semplice nell'attingere la profondità).

Un aneddoto. Mi ricordo che, proprio ai tempi dei cannibali, fui invitato - insieme con loro - a una trasmissione televisiva, in cui venne chiesto a ciascuno di noi di indicare un autore di riferimento. Tutti se ne vennero fuori con autori stranieri; io fui l'unico (e mi sembrò molto inquietante) a citare un autore italiano. Quell'autore - il mio modello, insieme a Natalia Ginzburg, di scrittura semplice - era Goffredo Parise.

Rammento una polemica che Parise ebbe con Franco Fortini sullo scrivere chiaro. Parise si rivolge così a Fortini: «Caro Fortini, ho letto sul "Corriere" del 12 luglio un tuo articolo intitolato Perché è difficile scrivere chiaro. L'ho riletto con sempre maggiore attenzione e via via con sempre maggiore inquietudine. Di quest'articolo che intendeva dimostrare con chiarezza programmatica la difficoltà della chiarezza nell'esprimersi con la parola scritta - nero su bianco, come si dice -, non ho capito nulla». E poi, venendo al punto della difficoltà nello scrivere chiaro: «Un fortissimo sentimento di chiarezza mi spingeva a dire: ma Fortini, guarda che ti sbagli, guarda che è facile, facilissimo, invece. Tutto dipende dalla forza del sentimento che ti spinge a comunicare con gli altri uomini e poi dalla logica, e poi dall'uso degli strumenti, cioè dall'uso della parola detta, scritta». «Il sentimento che induce, anzi, provoca naturalmente la chiarezza - prosegue Parise - è un sentimento di libertà, che potremmo chiamare universalmente democratico. Esso può diventare anche una passione, come la storia insegna, la passione per cui si ritiene che gli uomini siano tutti naturaliter uguali». Ancora rivolto a Fortini: «Uno scrittore, come te e me, che voglia teoricamente comunicare con tutti gli altri uomini capaci di intendere lo strumento che egli usa - nel nostro caso la lingua italiana - non può mancare di questo sentimento, perché chi manca di questo sentimento già comincia a parlare e a scrivere in modo antidemocratico, in modo appunto oscuro. Più quest'uomo, questo scrittore è antidemocratico, più il suo linguaggio è oscuro e infatti si sa, è notissimo, che il potere non soltanto è oscuro, ma se è assoluto la sua oscurità raggiunge il silenzio [...] Ora mi trovo costretto a chiederti perché e come mai tu usi il latinorum, tu che potente non sei e perché anche tu come Don Abbondio, anche tu come l'Azzeccagarbugli non permetti al povero Renzo di sposarsi».

Ora, mi permetterete un'altra citazione, da La materia di Reading e altri reperti di Luigi Meneghello. Meneghello andò giovanissimo a insegnare a Reading, in Inghilterra, ed è lì, praticamente, che cominciò a scrivere: «Ci sarebbero alcune altre osservazioni da fare a proposito della lingua, quella della prosa descrittiva o critica. È stato in Inghilterra, attraverso la pratica dell'inglese, che ho imparato alcune cose essenziali intorno alla prosa. In primo luogo, che lo scopo della prosa non è principalmente l'ornamento, ma è quello di comunicare dei significati. Questa per me era una novità [...] Ma c'è dell'altro. C'era la nozione che l'oscurità non ha un pregio particolare e posso assicurarvi che non era e non è facile convincere un italiano della mia generazione che non è così. C'era poi l'idea che nelle cose che scriviamo la complessità non necessaria è sospetta e non è affatto invece il prodotto naturale di una mente poderosa, anzi a un certo punto credo di essere arrivato molto vicino a credere che la complessità superficiale di un brano di prosa è probabilmente indizio di una mente debole, di un modo di pensare inefficace e confuso. E, per concludere, c'era infine l'idea che, a parità di altre condizioni, la solennità è un difetto. E così siamo arrivati a quanto pare al paradosso che è stato qui a Reading, ascoltando gli inglesi, che ho imparato a scrivere in prosa italiana».

Naturalmente, la complessità di uno scrittore come Luigi Meneghello (penso al suo lavoro sofisticato sull'oralità) non è sinonimo di oscurità. La scrittura complessa che mi piace, passando a tempi più vicini a noi, è quella del Michele Mari di Tu, sanguinosa infanzia e di Rondini sul filo. Oppure quella di Aldo Busi. Il Busi degli inizi e il Busi più recente: Seminario della gioventù e E io, che ho le rose fiorite anche d'inverno? Il primo, un gran libro, ricco e complesso anche nel linguaggio, sul dolore della giovinezza; il secondo, un libro dolente e maturo, sull'arrivo della vecchiaia. In mezzo c'è tanto Busi che corre a perdifiato dentro un luna park di intrecci, personaggi, linguaggi, un Busi muscolare che ama guardarsi allo specchio, talentuoso e virtuosistico ma, a mio avviso, con pecche di sostanza. E qui mi avvicino al punto: che sia semplice o complessa, la scrittura che mi piace, che mi è chiara, è quella che ha sostanza, cioè autenticità e dolore. In Parise e nel miglior Busi c'è questa sostanza. Non a caso, Parise e Busi sono due scrittori "non perbene", scrittori che quando dicono «io» non si nascondono, sono capaci di tirare fuori il peggio di quanto hanno dentro e non ci suonano rassicuranti. Ecco, io penso che uno un po' deve assomigliare ai libri che scrive.

(trascrizione a cura di Silverio Novelli)


(trascrizione a cura di Silverio Novelli)

 









Postato il Sabato, 16 dicembre 2006 ore 00:05:00 CET di Silvana La Porta
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