dal sito IL MESSAGGERO.IT
di CORRADO GIUSTINIANI
La punizione per un
ladro è il taglio della mano destra all’altezza del polso. Il Regno Saudita ha
scuole a Washington come a Londra, a Berlino e a Mosca, a Madrid, Vienna,
Istanbul. E a Roma. Anche da noi si impartiscono ai ragazzi precetti di questo
genere? O forse da un anno all’altro i libri della scuola di Roma sono stati
cambiati, corretti, aggiornati?
Naturale scrupolo del cronista che, con quell’inquietante fardello in mano, si
avvicina a un bell’edificio in tinta ocra che domina la via di Grottarossa a un
chilometro dall’incrocio con la Cassia, circondato da prati verdi e protetto dal
piano stradale con un ventaglio di pini marittimi. Sul muretto accanto al
cancello d’ingresso c’è una targa in marmo, incorniciata da due colonnine:
“Scuola Saudita Re Abdulaziz”, e sotto è riportata la data d’inaugurazione:
Roma, 23 settembre del 2002.
E’ una mattina di ottobre. Chiediamo un’intervista al direttore, Nasser Al
Sultan. Risponde che non può parlare, che prima bisogna contattare l’ambasciata
saudita, dalla quale la scuola dipende. L’ambasciata ci informa che la scuola ha
120 allievi, che pagano una retta di 1.500 dollari l’anno. Per la stragrande
maggioranza sono stranieri che vivono a Roma e provengono da tutti i paesi
arabi. Ma c’è anche una piccola pattuglia di studenti italiani, figli di arabi
convolati a nozze con un partner italiano. Arabi anche i docenti, non tutti però
del Regno Saudita. E fra loro v’è pure un italiano, che insegna la nostra
lingua, ma fra le materie di studio c’è anche la storia d’Italia. Il ciclo
scolastico dura 12 anni: sei di elementari, tre di medie e tre di superiori. I
programmi e i testi sono rigidiamente centralizzati e vengono concepiti a Riad,
dal ministero dell’Istruzione del Regno.
Si torna alla carica con il direttore. Ma dal 12 al 30 ottobre la scuola è
chiusa per le vacanze del Ramadan. Il 6 novembre inviamo allora un fax con
cinque brevi domande, del tipo: «E’ vero che a pagina x del tale libro è
scritto..?». Ci viene garantita la risposta in due o tre giorni. Poi arriva un
fax del direttore, che si dice spiacente perché «la scuola in questi giorni è
impegnata in esami» e non è un buon momento per discutere dei programmi, che
peraltro sono rivisti assai spesso. «Se siete interessati a discutere le leggi
islamiche è la conclusione dovreste indirizzare le vostre domande ad Alazhar»,
la famosa moschea del Cairo con annessa scuola coranica. Martedì scorso, a un
mese di distanza, abbiamo riproposto le cinque domande. Ma la risposta non è
arrivata.
La “Re Abdulaziz” è stata regolarmente autorizzata dal nostro ministero
dell’Istruzione, con decreto emesso dall’Ufficio scolastico regionale del Lazio
il 18 dicembre 2002, due mesi dopo l’inaugurazione. Si tratta di “corsi liberi a
carattere privato”. Per ogni nuova scuola il nullaosta viene concesso una volta
accertato che i gestori non abbiano carichi penali, che i locali siano idonei e
agibili dal punto di vista igienico-sanitario, nonché in regola con le norme
antincendio. Chi chiede l’autorizzazione deve anche presentare una relazione
sull’attività didattica.
Nel testo “Monoteismo e teologia” per la prima elementare degli istituti sauditi
all’estero, ottava lezione, è scritto, a pagina 29, che «tutte le religioni
diverse dall’Islam sono fasulle». C’è l’inferno per chi non le abbandona. Ali
Al-Ahmed, direttore a Washington dell’Institute of Gulf Affairs, non concorda:
«L’Islam non dice che cristianesimo ed ebraismo siano religioni false. Ha
considerazione per “il Popolo del Libro”, la Bibbia, e per chi crede in Dio. Ma
io sono musulmano e devo credere nel mio Dio e nel Corano».
L’Institute of Gulf Affairs è una “onlus” che si finanzia grazie a donatori e a
lavori di ricerca e il suo direttore ha tradotto dall’arabo all’inglese i libri
di testo relativi all’anno scolastico 2005-2006 delle varie scuole saudite, che
sono gli stessi in tutto il mondo. «Che cristianesimo ed ebraismo siano false
religioni insiste Ali Al-Ahmed è una chiara forzatura saudita-wahabita» L’Arabia
Saudita, come è noto, si ritiene custode del messaggio islamico delle origini. I
wahabiti sono un movimento fondato a metà del 1700 da Mohammad Ibn Abd al-Wahab,
che si proponeva di riportare l’Islam all’antica purezza, condannando in
particolare il culto delle tombe, l’intercessione di personaggi ritenuti santi e
l’iconografia in genere.
E’ al primo semestre della quinta elementare che viene negata la possibilità di
stringere un’amicizia fra musulmani e non. Di più: chi non è musulmano va
proprio tenuto alla larga. «Non si deve frequentare chi non crede in Dio e nel
suo Profeta», si legge infatti a pagina 33 di un testo dalla copertina marrone,
intitolato “L’unicità e la parola - Teologia e arte del canto”. Il divieto non
risparmia nemmeno i parenti più stretti: «Un altro musulmano, anche se vive
lontano, è tuo fratello. Tuo fratello, se non crede in Dio, è tuo nemico». Dopo
tali premesse viene consigliato al docente di porre la seguente domanda
all’alunno: «E’ possibile amare gli ebrei e i cattolici? E perché?». La
risposta, evidentemente, è no. In fondo alla pagina, a caratteri più piccoli, si
raccomanda sull’Islam la lettura dello sceicco integralista Mohammad Bensadi El
Kathani: «Che Dio lo protegga».
Il prezzo della vita umana, calcolato in cammelli, con la sottovalutazione delle
donne e dei non musulmani, viene insegnato ai ragazzi più grandi, quelli del
decimo livello, in pratica il primo dei tre anni di superiori, nel libro di
Giurisprudenza. Il tariffario dovrebbe scattare in caso di omicidio, quando la
famiglia della vittima perdona, in cambio però di un risarcimento. Lo stesso
testo, alla pagina 47, precisa le punizioni previste per i ladri dalla Sharia,
la legge islamica. Dopo il taglio della mano destra, che va recisa all’altezza
della giuntura col polso, «occorre suturare per bene la ferita, in modo da
prevenire la morte per emorragia». E se il ladro torna a commettere il suo
crimine? «Allora spiega il libro bisognerà tagliare il suo piede sinistro dalla
caviglia in giù». Ma attenzione: «Occorre risparmiare il calcagno, per
consentirgli di camminare».
corrado.giustiniani@
ilmessaggero.it