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Didattica: L'ERRORE NELL'APPROCCIO ALLE DIFFICOLTA' IN MATEMATICA

Associazioni
L'errore nell'approccio alle difficoltà in matematica
Rosetta Zan*



Premessa
Queste riflessioni sull'errore provengono da un particolare punto di vista: quello delle difficoltà in matematica, inteso non come problema 'teorico', ma come problema didattico ancorato fortemente al recupero (Zan, 2006); nascono da un'analisi dell'approccio tradizionale alle difficoltà, e suggeriscono alcune ipotesi sulle cause del fallimento dell'intervento di recupero che caratterizza tale approccio.
 Non potendo entrare nei dettagli su alcuni aspetti specifici, dati i limiti di spazio, cercherò sinteticamente di fare un discorso complessivo sul ruolo dell'errore in questo approccio (più precisamente sul ruolo dell'errore nel fallimento di questo approccio) .

L'approccio tradizionale alle difficoltà in matematica
L'intervento tradizionale di recupero prevede in genere la correzione di errori, la spiegazione del procedimento corretto e, eventualmente, la ripetizione degli argomenti ritenuti dall'insegnante necessari per rispondere correttamente.
 Dietro questa sintetica descrizione possiamo riconoscere che a monte dell'intervento ci sono due fasi preliminari, che spesso rimangono nell'ombra tanto sembrano ovvie: un processo di osservazione, che si basa sull'individuazione di errori, o più in generale di mancate risposte corrette; un processo di interpretazione, che per lo più rimane implicito, secondo il quale l'errore o, più in generale, la mancata risposta corretta sono dovuti a carenze a livello di conoscenze o abilità nel contesto in cui sono stati individuati.
 Le riflessioni sull'errore che proporrò sono altrettante critiche a questo tipo di approccio e fanno riferimento ai tre processi in cui esso si articola: l'osservazione, l'interpretazione, l'intervento. I limiti di spazio mi permettono solo di accennare schematicamente a queste critiche, che senza sufficienti argomentazioni ed esempi potranno risultare forse più provocatorie che immediatamente spendibili, ma in ogni caso possono essere utili per aprire una riflessione e un confronto su questi temi.

L'osservazione
Uno dei miti dell'insegnamento della nostra disciplina è quello dell'oggettività dell'errore, spesso contrapposta a quello che avviene in altre materie, in particolare in italiano.
 A mio parere bisogna distinguere fra l'oggettività dell'errore, cioè il fatto che l'errore rappresenta un'infrazione oggettiva di regole valide in un certo contesto, e l'oggettività che l'errore ha come indicatore di difficoltà, che rimanda più in generale all'oggettività della valutazione dell'errore: questo, a mio parere, è un mito che va sfatato. Gli errori così 'oggettivi' che l'insegnante osserva, infatti, sono stati commessi in un contesto particolare, che è frutto di una serie di scelte da parte dell'insegnante stesso. Se l'errore è stato commesso in un compito scritto, in una verifica, chi ha scelto, programmato tale verifica? Chi ha deciso di mettere quell'esercizio e non un altro? Chi ha stabilito che proprio quell'esercizio permettesse di riconoscere il raggiungimento dell'obiettivo didattico in oggetto? Chi ha stabilito che fosse significativo porsi proprio quell'obiettivo didattico? E chi ha stabilito i vincoli, le modalità della prova (il tempo a disposizione, la possibilità o il divieto di usare calcolatrici o consultare libri e appunti, ...)? Cosa c'è, in definitiva, di oggettivo in questo processo?
 A prescindere dalle considerazioni precedenti poi, il ruolo riconosciuto all'errore o alle mancate risposte corrette come indicatori di difficoltà si presta a due tipi di contestazione.
 La prima fa riferimento alla cosiddetta epistemologia dell'errore, caratterizzata dalla visione del ruolo positivo dell'errore nello sviluppo della scienza, e condivisa da molti autorevoli filosofi e scienziati, quali Popper, Bachelard ed Enriques. Scrive per esempio Popper (2002): "Evitare errori è un ideale meschino: se non osiamo affrontare problemi che siano così difficili da rendere l'errore quasi inevitabile, non vi sarà allora sviluppo della conoscenza. In effetti, è dalle nostre teorie più ardite, incluse quelle che sono erronee, che noi impariamo di più. Nessuno può evitare di fare errori; la cosa più grande è imparare da essi".
 Quindi l'errore non è necessariamente segnale di difficoltà. D'altra parte - ed è la seconda contestazione all'identificazione errori/difficoltà - la mancanza di errori non garantisce mancanza di difficoltà. A livello didattico, infatti, l'ideale meschino di evitare errori evoca il bisogno da parte dell'insegnante di ottenere dagli allievi risposte corrette: esigenza che può portare all'abbassamento di richieste (schede strutturate, domande a scelta multipla piuttosto che aperte, interrogazioni programmate, ecc.), senza che al miglioramento delle prestazioni così ottenute corrisponda un'effettiva comprensione. Gardner (1993) parla a questo proposito del "compromesso delle risposte corrette": "Insegnanti e studenti (...) non sono disposti ad assumersi i rischi del comprendere e si accontentano dei più sicuri 'compromessi delle risposte corrette'. In virtù di tali compromessi, insegnanti e studenti considerano che l'educazione abbia avuto successo quando gli studenti sono in grado di fornire le risposte accettate come corrette".

L'interpretazione
Le riflessioni precedenti contestano la scelta dell'errore come indicatore di difficoltà, e la pretesa che si tratti comunque di un indicatore oggettivo: hanno a che fare, quindi, con il processo di osservazione. Per quanto riguarda il processo di interpretazione, la contestazione riguarda il fatto che l'errore avvenuto in un certo contesto sia necessariamente da attribuire a carenze di conoscenze o abilità in tale contesto. I riferimenti d'obbligo qui sono al modello costruttivista dell'apprendimento, che vede il discente come interprete dell'esperienza, in particolare dell'esperienza matematica: i messaggi dell'insegnante vengono quindi interpretati, si tratti di procedure, di definizioni, di proprietà. Quando questa interpretazione non coincide con quella 'ufficiale' e legittima (in genere rappresentata dalla voce dell'insegnante), si parla di misconcetti: per esempio alcuni misconcetti molto diffusi riguardano il simbolo '=' visto come operatore di comando, l'idea che la moltiplicazione faccia ingrandire, che un numero è negativo se e solo se nella sua rappresentazione compare esplicitamente il segno '-'. Ma tante altre possono essere le cause di errori: l'uso del linguaggio secondo modalità tipiche del linguaggio quotidiano più che di quello matematico (Ferrari, 2005), o ancora l'uso di razionalità o di forme di pensiero considerate legittime ed efficienti in altri contesti, ma non in quello matematico (Zan, 2006).
 Se gli errori dovuti a misconcetti sono in genere caratterizzati dall'essere sistematici, un fenomeno che non si può ignorare è quello delle risposte date a caso. L'interpretazione qui non riguarda tanto l'errore in sé (che è frutto di una risposta casuale) quanto il fatto di dare risposte a caso. La domanda da porsi allora è Perché l'allievo ha risposto a caso? e non Perché l'allievo ha risposto così? Domande che generano ipotesi diverse, su cui costruire interventi diversi. Per esempio, può accadere che dietro questo fenomeno ci sia la percezione di incontrollabilità della matematica da parte dell'allievo, che a sua volta può essere dovuta a esperienze con la matematica caratterizzate da ripetuti fallimenti o a una visione della matematica come disciplina di prodotti da ricordare piuttosto che di processi da motivare. In particolare, queste cause possono avere radici lontane nel tempo, ma anche lontane dal contesto in cui l'errore si è verificato.

L'intervento
Le considerazioni precedenti hanno naturalmente notevoli implicazioni a livello d'intervento. A tali considerazioni se ne aggiunge una decisiva: che in genere l'intervento di recupero tradizionale - basato sulla correzione dell'errore e sulla ripetizione degli argomenti ritenuti dall'insegnante necessari per rispondere correttamente - semplicemente non funziona, dato che l'errore per lo più si ripete.
 Il fatto è che tale intervento, trincerandosi dietro la pretesa oggettività dell'errore, ignora la complessità intrinseca del processo di recupero: è l'insegnante che riconosce l'errore dell'allievo e che ritiene che l'allievo debba cambiare i propri comportamenti (matematici), ma è l'allievo che deve modificare tali comportamenti. D'altra parte, le persone cambiano quando hanno un motivo per farlo: per esempio, vogliamo cambiare quando non abbiamo raggiunto un obiettivo che ci eravamo posti, cioè quando abbiamo vissuto un 'fallimento'. Se l'allievo non percepisce il fallimento riconosciuto dall'insegnante (per esempio perché nonostante l'errore commesso è arrivato comunque a una risposta corretta) non avrà motivo di cambiare, e considererà inutili pignolerie le correzioni dell'insegnante stesso. Se invece l'allievo riconosce il fallimento, sarà comunque motivato a modificare i comportamenti che a suo parere sono responsabili di tale fallimento - i suoi comportamenti fallimentari -, e non quelli che l'insegnante ha riconosciuto come fallimentari: per esempio, se ha risposto a caso probabilmente riconoscerà come comportamento fallimentare l'aver dato quella particolare risposta, e quindi la cambierà, mentre l'insegnante presumibilmente riconoscerà come comportamento fallimentare il fatto che abbia dato risposte a caso.
 Questo suggerisce nell'osservazione di spostare l'attenzione dagli errori ai comportamenti fallimentari, e nell'interpretazione di cercare di capire i motivi dei comportamenti dell'allievo più che le cause dell'errore; in questo modo si riconosce la complessità intrinseca del processo di recupero, legata alla presenza di due protagonisti distinti, l'allievo e l'insegnante: solo riconoscendo e accettando tale complessità l'insegnante potrà anche affrontarla ed, eventualmente, risolverla.

 *Docente presso il Dipartimento di Matematica dell'Università di Pisa

Pubblicato il 5/12/2006








Postato il Sabato, 09 dicembre 2006 ore 00:05:00 CET di Silvana La Porta
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