E fra i ragazzi si sono sempre formati gruppi che mirano al potere, a imporsi sulla massa degli altri. Di solito si raccolgono attorno a un capo particolarmente intraprendente o arrogante o violento. È questo il bullo. Il bullo è il capo di un gruppetto di ragazzi che si sentono come dei guerrieri in una società di imbelli... Arroganti, sprezzanti, schiavizzano i più deboli e se li trascinano dietro, mentre tutti gli altri chinano la testa come pecore. Il bullismo è la forma primordiale di potere. E va combattuto tenendo presente questa sua natura. È inutile l’ammonizione, la sanzione. Il bullo se ne fa vanto. Invece sono efficaci le misure che gli tolgono il pubblico, prima di tutto l’espulsione.
Chi è espulso non conta più nulla, non ha più nessuno su cui esercitare il suo fascino. Ma, dal punto di vista sociale, espellere dei ragazzi per poi lasciarli in strada è estremamente dannoso. Sono perciò stati molto bravi i magistrati che hanno mandato i bulli a lavorare in un centro di assistenza ai disabili, insegnando così loro che la società civile non consente al prepotente di opprimere il debole, ma deve aiutarlo. Un altro metodo efficace è quello di porre sotto sequestro i beni della famiglia, perché il bullo quasi sempre gode della complicità dei suoi. Ma la via maestra per evitare il bullismo è un’altra: favorire la competizione di squadra. Per troppo tempo nelle nostre scuole ha prevalso una mentalità—di origine marxista e cattolica — che considera la competizione un male.
Si è pensato che la violenza scompaia livellando tutti. Ma non è così. La violenza va sublimata creando squadre in competizione. I nostri ragazzi dovrebbero andare a scuola tutto il giorno e, oltre a star seduti sui banchi, fare lavori, sport, arte, musica, teatro. Ma all’interno di gruppi che si affrontano, che competono. Così in ciascuna squadra i leader emergono in base al loro valore, e tutti sono orgogliosi di partecipare perché si sentono parte di un noi, in cui trovano una identità, ed esprimono se stessi.
04 dicembre 2006