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Voce alla Scuola: SE I RAGAZZI NON HANNO I SOLDI PER ANDARE IN GITA SCOLASTICA

Opinioni

da Unità
Giovedì, 12 Ottobre 2006

Gita scolastica quanto mi costi
Nando Dalla Chiesa

Cronache italiane di gita scolastica. Ovvero miseria e nobiltà. Il benessere vero e il benessere simulato. L’orgoglio della povertà e il pudore dell’esclusione. Tutto insieme. Sembra incredibile quante coppie di opposti, quanti princìpi e quanti sentimenti possano essere messi nel frullatore dalla scelta, apparentemente innocente, di organizzare una gita scolastica. Eppure... Eppure vale la pena rifletterci. Il fatto, prima di tutto. In una scuola media inferiore del cosiddetto quartiere africano di Roma, della quale non dirò il nome per non trasformarla in bersaglio di critiche ingenerose, succede quanto segue...
Viene organizzata una gita di cinque giorni per gli alunni di una o due classi. Ragazzi, si va a Matera. Tutti a vedere i celebri Sassi. Con tanto di deviazione prevista verso il mar Jonio, possibilmente Policoro, che nei primi giorni di autunno promette ancora -una delle poche zone del nostro sud- il miraggio dell' ultimo bagno.
Prima precisazione necessaria: stiamo parlando di una scuola pubblica. Seconda precisazione necessaria: il costo della gita è di duecentocinquanta euro ad alunno. Viene naturalmente da chiedersi che cosa porti uno o due o tre insegnanti a immaginare la realizzazione di una gita appena rientrati dalle vacanze estive. Non sarebbe bene garantire agli allievi il più rapido e confortevole reinserimento possibile negli studi? C'è una sapienza professionale anche nella gestione del «rientro» a scuola. Ma non è questo il punto. Che è invece la destinazione, con relativa durata del viaggio. Matera è certo una meta suggestiva, affascinante. L'ideale per legare storia e architettura, letteratura e geografia nelle conoscenze e anche nella fantasia dei giovanissimi allievi. E duecentocinquanta euro sono probabilmente un prezzo equo, anzi di favore, per un «pacchetto» che comprende il viaggio di andata e di ritorno, il pernottamento e i pasti, e forse pure gli spostamenti sul luogo. Il fatto è però che, come si diceva sopra, entrano qui in gioco alcune questioni fondamentali che regolano (o dovrebbero regolare) la vita e le funzioni di una scuola pubblica. Duecentocinquanta euro sono un quarto del salario di un operaio e un quinto dello stipendio di molte categorie di impiegati. Può una scuola pubblica richiederli, sia pure in via facoltativa, ai suoi allievi? Per una attività che ha certo il suo interesse ma che esula dai compiti principali e obbligatori dell'istituzione? Certo, il ragazzo non è costretto a pagare. Se non va in gita e saluta con un po' di magone i suoi compagni più fortunati, il servizio scolastico gli è assicurato lo stesso. Però in una scuola dove tutti si sentono eguali, dove tra compagni di banco e di classe vige l'emulazione sulle cose che si fanno e che si hanno, risulta faticoso -specie a undici o dodici anni- accettare che uno vada in gita e l'altro resti a casa. I genitori, a loro volta, possono anche inventare un impegno o una malattia del figlio per giustificare la sua assenza davanti alla gioiosa comunità degli «altri», per sfuggire al marchio (sconveniente) della povertà. Ma il figlio sa comunque che l'impegno e la malattia non ci sono. Che sono immaginari. Che servono a mascherare. E allora sarà lui a interiorizzare il marchio, a sentirsi escluso. Diverso. Emarginato. Chi glielo spiega a un ragazzino o una ragazzina che non può andare in gita con i suoi coetanei? Si può avere a quell'età la maturità per non vivere l'esclusione come una menomazione della propria pari dignità? Si può averla oggi, soprattutto? Oggi che tutto deve essere dato e consumato, e che la tivù trasmette -rivolgendosi alla famiglia media- immagini di opulenza diffusa e di sereno benessere dovunque?
La conseguenza quasi inevitabile è che la famiglia pagherà. Pagherà per mandare il figlio in gita, anch'essa d'altronde indisponibile a subire da parte di chiunque un acido o compassionevole «loro non se lo possono permettere». Ricordo mio padre andare dal mio (bravissimo) maestro elementare per dirgli che lui tremila lire per comprare l'atlante prescritto, quello specifico atlante che rappresentava il mondo esattamente come l'atlante posseduto in famiglia, non li aveva. Oggi pochi genitori avrebbero l'orgoglio di difendere e spiegare la propria «impossibilità». Perché oggi il comandamento è di potere comprare tutto ciò che comprano gli altri. Che cosa sono, in fondo, duecentocinquanta euro? Non sono in definitiva, come si usa dire con sublime demenza, anche nei servizi di «approfondimento» televisivo, l'equivalente di «cinque cene in trattoria»?
Ecco. Io credo che la scuola debba proteggere i più deboli anche evitando loro di trovarsi di fronte a questi dilemmi, che alla fine vedono capitolare o lo stipendio (si paga e ci si impoverisce pur di apparire) o il senso di eguaglianza di un ragazzino (costretto a trasformarsi, sia pure per una volta, in un emarginato). Credo che la scuola dovrebbe riflettere responsabilmente sul costo dei libri di testo ma anche su questi costi impropri scaricati sulle famiglie. Chiedersi per quali vie si possano involontariamente colpire i bilanci di chi a malapena riesce ad arrivare alla fine del mese. Di quelle famiglie a cui basta una multa per sosta vietata o una visita medica urgente o anche l'invito a un matrimonio (con relativo obbligo di regalo) per rischiare di andare in rosso. Credo insomma che la scuola pubblica debba tutelare gelosamente e responsabilmente il delicato, grandioso patrimonio di sensibilità che le viene affidato.
In effetti sulle gite scolastiche, sugli affanni dei professori che devono guidare il loro «gregge» indisciplinato per città sconosciute, perfino sulle tresche amorose tra insegnanti in trasferta, è stato scritto e inventato, anche cinematograficamente, di tutto. È materia che fa parte della nostra visione più allegra e tenera della scuola. Ma ormai vale la pena di chiedersi se sia sensato scegliere come meta di queste gite delle località lontane, programmare viaggi settimanali, andare a Praga o a Londra. Intendiamoci, tutte esperienze utili. Anzi, forse senza la scuola certe località alcuni alunni non le visiterebbero mai nella vita. Ma hanno un difetto: costano. È giusto presumere in tutte le famiglie questa facoltà di spesa? Perché mai, nel caso specifico, non una bella visita guidata per i tesori di Roma? Anche quella, statene certi, molti alunni senza la scuola non la faranno mai più. O perché non un'andata e ritorno a Pompei? Domande non peregrine. Sullo sfondo c'è un modo di intendere il rapporto pedagogico tra scuola, allievi e famiglie, tra scuola e psicologia infantile o adolescenziale. Troppo rumore per un caso solo? Be', in questa stessa scuola un cartello invitava pochi giorni fa ad apposita riunione i genitori interessati al viaggio in Argentina. Proprio così, in Argentina. E perché no il giro del mondo? Anche quella, in fondo, è un'esperienza. E poi chi non se la può permettere è libero di non andarci...
www.nandodallachiesa.it





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Postato il Domenica, 15 ottobre 2006 ore 00:22:18 CEST di Silvana La Porta
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