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Spesa pubblica: Il sito degli economisti progressisti fa i raggi X alla finanziaria 2007

Rassegna stampa

Un rientro dal lato sbagliato
Tito Boeri
Pietro Garibaldi


I numeri della manovra

In attesa che vengano resi pubblici la nota di variazione al Dpef e la Relazione Previsionale e Programmatica, proviamo a riassumere, sulla base delle informazioni disponibili, gli effetti macroeconomici della manovra.
Al Governo servivano 14,8 miliardi di euro di aggiustamento netto per riportare il deficit tendenziale nel 2007 dal 4 al 2.8 percento, rispettando gli impegni presi con l’Unione Europea. La manovra è molto più consistente (33,4 miliardi) perché altri 18,6 miliardi servono a finanziare scelte discrezionali di politica economica. Si tratta di un insieme di misure – definite col termine equivoco "politiche a sostegno dello sviluppo" – tra le quali rientrano sia il taglio del cuneo fiscale che semplici iniziative di spesa, come il rifinanziamento dei cantieri e delle ferrovie dello Stato, il rinnovo del contratto del pubblico impiego, nuovi finanziamenti alle Poste, la missione in Libano nonchè dotazioni a vari "fondi" pubblici a disposizione dei singoli ministeri, come il fondo infrastrutture, il fondo per la famiglia, quello dell’occupazione, etc.. Il Governo raccoglie queste risorse senza ricorrere ad una tantum. Ma utilizza misure di finanza creativa, come il trasferimento all’Inps dei flussi di Tfr che i lavoratori non dirotteranno ai fondi pensione. Discutibile inoltre l’inserimento nella manovra di entrate (per più di 7 miliardi) da misure anti-evasione e anti-elusione, per loro natura difficili da quantificare.


La vera sfida


Come non avevamo mancato di rimarcare su questo sito, la vera sfida della Finanziaria era quella sulla qualità dell’aggiustamento, la sua composizione tra maggiori entrate e minori spese. Temevamo un leggero sbilanciamento dell’aggiustamento a favore delle entrate. Ci siamo sbagliati. Lo sbilanciamento a favore delle entrate non è leggero: si va ben oltre il 50% paventato qualche giorno fa. E solo in rari casi si sono attivati meccanismi virtuosi che porteranno a risparmi crescenti nei prossimi anni. Quindi si è fatto pochissimo per riprendere controllo della spesa pubblica.
La tabella qui sotto cerca di riassumere i dati sulla composizione della manovra, sulla base delle informazioni disponibili. Non è possibile quantificare il contributo delle entrate con precisione dato che parte di queste (o dei risparmi) non dipende dal Governo, ma da come gli enti locali utilizzeranno i maggiori margini di autonomia impositiva loro concessi. Nel caso in cui gli enti locali rispettassero i vincoli imposti dal Patto di Stabilità interno e dall’accordo sul contenimento della spesa sanitaria per metà con tagli di spesa e per metà con incrementi delle tasse (facendo, dunque, molto meglio delle amministrazioni centrali dello stato) le entrate contribuirebbero per ben 24 miliardi alla manovra, limitando i tagli alla spesa a soli 9 miliardi. Ciò significa un contributo delle entrate superiore al 70 percento della manovra complessiva e, comunque, mai inferiore al 64%. Ma la percentuale potrebbe essere anche più alta, arrivare fino all’84%.

 

Questo sbilanciamento dal lato delle entrate si deve al contributo delle amministrazioni centrali dello stato alla manovra: almeno 7 miliardi provengono dagli studi di settore e da inasprimenti dei controlli fiscali, mentre la manovra sulla previdenza consiste pressoché interamente nel trasferimento del Tfr all’INPS (5,3 miliardi, di cui discutiamo sotto) e nell’aumento dei contributi previdenziali, volto a riallineare aliquote di computo ed aliquote effettive, coerentemente con il metodo contributivo adottato nel 1996. Per il pubblico impiego sono state accantonate generose risorse per il rinnovo dei contratti, in cambio di una generica promessa sindacale a "riformare il comparto".
L’operazione sul cuneo fiscale agisce sull’Irap e non sui contributi previdenziali. Si tratta di una scelta condivisibile. Più discutibile invece la distribuzione temporale dello sgravio. Immediato per i cittadini e diluito nel tempo per le imprese.
Torneremo sugli effetti distributivi della riforma dell’Irpef. Sembra favorevole agli individui con redditi inferiori ai 40.000 euro. Più complesso valutare il suo effetto sui bilanci delle famiglie.

TFR: i debiti sono debiti


Il lato più inquietante della manovra, quello che la avvicina di più alle tante operazioni di finanza creativa varate nella scorsa legislatura, consiste nel trasferimento all’Inps (e poi ad un fondo per il finanziamento delle infrastrutture) della parte di trattamento di fine rapporto ( Tfr) accumulato dagli individui ogni anno, e non dirottato ai fondi pensione. Si tratta, in altre parole, di un prestito forzoso per finanziare spese infrastrutturali ottenuto trasferendo dalle imprese allo stato un debito nei confronti dei lavoratori dipendenti che non eserciteranno l’opzione di trasferire il Tfr ai fondi pensione.
Come discusso altrove questa misura rischia di diventare la pietra tombale sulla speranza di creare dei fondi pensione in Italia perché indurrà questo Governo e quelli successivi ad ostacolare in tutti i modi i flussi verso i fondi pensione (significa meno entrate per lo Stato). Dunque e’ un’operazione che va svantaggio dei lavoratori più giovani, quelli che hanno maggiormente bisogno di previdenza integrativa per garantirsi un reddito adeguato quando andranno in pensione.
L’operazione porta un beneficio temporaneo per i conti pubblici (perché inizialmente vi sono solo entrate, vale a dire i flussi di Tfr), ma crea un debito crescente dello Stato nei confronti dei lavoratori, scaricando i costi sulle gestioni future. Le liquidazioni, infatti, prima o poi dovranno essere pagate offrendo un rendimento che oggi è solo lievemente più basso di quello offerto da titoli pubblici relativamente liquidi, come i Bot. Sul piano dei conti pubblici, si otterrebbe perciò una riduzione dell'indebitamento, ma non necessariamente del debito pubblico. Infatti, è difficile che il debito associato al Tfr possa essere considerato come debito implicito, soprattutto perché è esigibile dal lavoratore. Le imprese iscrivono il Tfr come passività nello stato patrimoniale. Perché non dovrebbe lo stato fare altrettanto? I debiti sono debiti. Speriamo che Bruxelles, come in passato, bocci questa operazione di finanza creativa.


Il nuovo Tfr: Trasferimento Forzoso di Risparmio
Agar Brugiavini


Un nuovo pilastro pubblico


Il Trattamento di fine rapporto è oggi un prestito obbligatorio dei lavoratori alle imprese. Si tratta a tutti gli effetti di soldi dei lavoratori, accantonati presso le imprese e iscritti ai bilanci di queste ultime come debiti perché, prima o poi, dovranno essere liquidati. Questi accantonamenti offrono ai lavoratori un rendimento basso, attorno al 2,5 per cento netto nel 2005. Se investiti in previdenza integrativa possono offrire rendimenti molto più elevati. Sempre nel 2005 la Covip stima rendimenti netti dei fondi pensione tra il 7,4 e l’8,5 per cento. (1)
E dal 2001 a oggi i fondi pensione hanno avuto rendimenti pluriennali più elevati del tasso di rivalutazione del Tfr.
Le riforme delle pensioni degli anni Novanta, in particolare la riforma Dini, hanno un senso solo se questo secondo pilastro di previdenza integrativa si realizzerà. I lavoratori più giovani, infatti, riceveranno pensioni pubbliche molto meno generose. Si è più volte chiarito su questo sito che i futuri pensionati – quelli a cui viene ora chiesto di contribuire ulteriormente a coprire i disavanzi correnti - avranno tassi di rimpiazzo molto inferiori a quelli attuali. Per proteggere le condizioni di vita di queste generazioni l’unica soluzione è permettere loro di ottenere rendimenti sui fondi Tfr attraverso i meccanismi propri della capitalizzazione.


Una scommessa contro il decollo della previdenza integrativa


La Finanziaria varata dal governo prevede ora di utilizzare il 50 per cento dei flussi di Tfr "inoptati", cioè non espressamente destinati dai lavoratori ai fondi pensione, per alimentare un fondo per il finanziamento delle infrastrutture istituito presso la Tesoreria. Si prevede in questo modo di raccogliere 5,2 miliardi di euro. Il flusso annuale verso il Tfr è di circa 13,5 miliardi, dunque il flusso potenziale verso le casse dello Stato è di 6,75 miliardi (il 50 per cento di 13,5 miliardi), ciò significa che la Finanziaria "scommette" che quasi l’80 per cento dei dipendenti non eserciteranno questa opzione. Si tratta, in altre parole, di una scommessa contro l’interesse dei lavoratori più giovani, che, come si è detto, hanno necessità di alimentare la previdenza integrativa per garantirsi una pensione adeguata.
È una stima, peraltro, molto generosa per le casse dello Stato. Le indagini Isae suggeriscono infatti che il 44 per cento dei lavoratori è indeciso, il 42,2 per cento intende mantenere il Tfr presso l'azienda e il 13,8 per cento ha già deciso di destinarlo ai fondi pensione. Se anche solo la metà degli indecisi decidesse di optare alla fine per la previdenza integrativa, le entrate garantite da questa operazione scenderebbero a 4,4 miliardi, se tutti gli indecisi optassero per i fondi pensione, le entrate scenderebbero al di sotto dei 3 miliardi. Questi esempi dimostrano che l’operazione rende questo esecutivo (e quelli che succederanno) cointeressato al mancato decollo della previdenza integrativa. Se il governo (come ieri dichiarato dal ministro Damiano) è invece genuinamente interessato a far decollare la previdenza integrativa dovrà in fretta trovare altre coperture per gli interventi finanziati con l’operazione Tfr. Non ci stupiremmo se un domani si decidesse di applicare il silenzio-assenso al contrario: se non dici nulla, il tuo Tfr finisce all’Inps.
Nella Finanziaria è scritto che l’Inps continuerà ad applicare le regole (dunque offrire i rendimenti) oggi previste per il Tfr gestito dalle imprese, dunque a garantire anche le stesse condizioni in termini di liquidità. Si noti che l’Inps non ha la struttura per gestire uno strumento così liquido, i trattamenti di fine rapporto non maturano con tempi facilmente prevedibili e sono utilizzati dai lavoratori per accedere a prestiti: bisognerà creare un’amministrazione ad hoc. C’è quindi un costo amministrativo non indifferente e un rischio di disfunzioni per i lavoratori che avessero esigenze di liquidità.


Quali benefici per i conti pubblici?


E il beneficio per i conti pubblici? Positivo e significativo sul disavanzo nelle fase di avvio perché vi sono solo entrate, ma negativo nel medio periodo in quanto si crea un debito dello Stato nei confronti dei lavoratori: le liquidazioni, prima o poi, dovranno essere pagate offrendo un rendimento che oggi è solo lievemente più basso di quello dei titoli pubblici relativamente liquidi, come i Bot. Sul piano dei conti pubblici, si otterrebbe perciò una riduzione dell'indebitamento, ma non necessariamente del debito pubblico. Infatti, è difficile che il debito associato al Tfr possa essere considerato come debito implicito, soprattutto perché è esigibile dal lavoratore.
In ogni caso, il trasferimento del Tfr alla Tesoreria porta un sollievo solo di breve periodo alla finanza pubblica. È una misura che invece peserà sui conti pubblici nel futuro quando l’Inps avrà esborsi maggiori per pensioni e liquidazioni.
Il risultato: la riforma della pensioni resta incompiuta, i ritardi nello sviluppo della previdenza integrativa sono ormai incolmabili e le generazioni più giovani sono chiamate ancora una volta ad accollarsi i costi presenti e futuri.


Tra razionalizzazioni e occasioni mancate
Massimo Baldini
Paolo Bosi


È facile prevedere che nella valutazione della Finanziaria per il 2007 un’attenzione particolare sarà dedicata alla redistribuzione monetaria attuata con la riforma dell’Irpef e delle politiche di sostegno alle famiglie. Nei primi commenti, da un lato, si sono usati slogan come "attacco ai ceti medi", "eccesso di redistribuzione"; dall’altro, si è manifestato entusiasmo per l’avvio di una nuova politica di sostegno della famiglia attraverso assegni e detrazioni fiscali.
La realtà è forse un poco più sobria. L’operazione può essere meglio descritta come razionalizzazione di alcuni vistosi difetti presenti nell’Irpef della riforma Tremonti, mentre per le politiche per le famiglie si può parlare, a seconda dell’animus, di primo passo, oppure di occasione mancata.


Tutto parte dal cuneo


La prima cosa da dire è che la riforma avviene sostanzialmente con effetti nulli o molto modesti sul complesso delle risorse finanziarie destinate a Irpef e assegni (600 milioni in più). Il gettito dell’Irpef secondo le stime del governo, cheutilizzano i dati dell’universo delle dichiarazioni fiscali, aumenta di 800 milioni. (1)
Vengono invece aumentate le risorse per gli assegni familiari (istituto a favore dei soli lavoratori dipendenti) per 1,4 miliardi.
Prima, al sostegno della famiglie con figli andavano circa 12 miliardi di euro, tra deduzioni fiscali (7) e assegni al nucleo familiare (5); ora 15 miliardi di cui 8,5 per detrazioni e 6,5 per assegni.
Il primum movens della manovra è stata la necessità di reperire risorse per finanziare l’incauta proposta di riduzione del cuneo fiscale. La parte destinata ai lavoratori dipendenti (il 40 per cento dei 10 miliardi del costo complessivo) è stata così trovata in un più complessivo ridisegno dell’Irpef, anziché nella restituzione di contributi in busta paga (amministrativamente complessa) o nella restituzione del fiscal drag (poco redistributiva). Pagheranno più imposte i contribuenti con oltre 35mila euro di imponibile. I più beneficiati sono i possessori di redditi tra 10 e 35mila euro; in maggiore misura i lavoratori dipendenti rispetto gli autonomi; i contribuenti con figli rispetto a quelli senza. La riforma riequilibra dunque il contenuto del secondo modulo della riforma Tremonti, solo in minima parte destinato alle famiglie, indirizzandone una quota significativa ai nuclei con figli (circa 3 miliardi).
Le figure 1a e 1b mostrano la variazione del reddito disponibile dopo la riforma dell’imposta e dell’assegno al nucleo familiare per quattro casi relativi a lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi , con e senza carichi familiari.

 

La redistribuzione


La manovra nel complesso non realizza una redistribuzione intensa: l’indice di Gini del reddito familiare disponibile equivalente diminuisce di 2 decimi di punto, passando da 0.344 a 0.342. (2) Non poteva essere diversamente. L’imposta progressiva, se deve contare solo sulla progressività e non anche sull’aumento delle aliquote medie, non può fare miracoli. Non consente di redistribuire ai veri poveri (incapienti) a causa della sua natura individuale e trasferisce risorse anche a contribuenti relativamente poveri che vivono in nuclei familiari agiati. Anche la quota di famiglie povere non viene sostanzialmente modificata: se definiamo come tale una famiglia che dispone di un reddito disponibile inferiore al 50 per cento del reddito mediano, allora l’incidenza della povertà diminuisce in modo impercettibile, da 11,92 a 11,89 per cento.
Se suddividiamo le famiglie in decili crescenti di reddito disponibile equivalente, con il primo decile che raggruppa il 10 per cento più povero delle famiglie, e il decimo che comprende il 10 per cento più ricco, la figura 2 mostra la variazione percentuale media del reddito disponibile per i vari decili dopo la riforma, scomponendo anche l’effetto totale nella parte dovuta alla revisione dell’imposta personale e in quella dovuta all’assegno al nucleo familiare.

 

Nessun decile aumenta il proprio reddito per più dell’1 per cento. (3)
Il 90 per cento delle famiglie italiane sembra mediamente ottenere un incremento di reddito, a scapito del 10 per cento più ricco. La parte più significativa dell’impatto redistributivo è svolta dalla variazione della struttura dell’Irpef (che comprende anche una rimodulazione delle detrazioni per figli), mentre più modesto è l’effetto dell’incremento degli assegni.
Se la riforma va soprattutto a vantaggio dei dipendenti e delle famiglie con figli, numerosi sono i nuclei di indipendenti che subiscono una perdita, sia a causa del più elevato livello medio di reddito, che per la mancata fruizione degli assegni familiari. L’alto numero di pensionati non toccati dalla riforma si spiega sia con l’assenza di bambini nei loro nuclei che con il fenomeno dell’incapienza.

 

Gli aspetti di razionalizzazione sono invece importanti: si è giustamente fatto marcia indietro sul meccanismo delle deduzioni per ritornare a un sistema di detrazioni, più chiaro e semplice, in particolare per i carichi familiari (eliminando il barocco tax planning familiare). Per gli assegni al nucleo familiare è stato ridisegnato il profilo delle tipologie familiari più importanti, come mostra ad esempio la figura 3.




Le occasioni mancate


Tenuto conto dei vincoli dell’azione, si tratta di aspetti positivi.
Non si è forse colta l’occasione per una riforma di più ampio respiro, non tanto sotto il profilo redistributivo, quanto sotto quello del disegno degli istituti di sostegno alle famiglie. Si è mantenuta un’impostazione centrata sulla selettività (le detrazioni per la no tax area e oneri familiari e gli assegni familiari sono decrescenti al crescere della condizione economica), ma si è mancato di fare passi avanti nella direzione della universalità dei beneficiari, vale a dire l’estensione dei provvedimenti a tutta la popolazione. Nel complesso la struttura attuale, anche se più razionale, resta appannaggio soprattutto del lavoro dipendente. Per gli aspetti universalistici, si è preferito agire sul lato dell’imposta personale, ma, rinunciando all’imposta negativa, non si è affrontato il problema degli incapienti.
La selettività continua a essere perseguita in modo differenziato nell’Irpef (sulla base del reddito imponibile), negli assegni familiari (reddito complessivo del nucleo); nell’assegno per nuclei con almeno tre minori (l’Isee, Indicatore della situazione economica equivalente). Non si è avuto il coraggio di dare fiducia all’Isee come strumento più corretto di selettività, che valuta la condizione economica della famiglia (e non del singolo individuo) con riferimento non solo al reddito, ma anche al patrimonio: avrebbe potuto essere utilmente riformato e applicato in modo più esteso.
Si tratta di scelte che si possono anche comprendere se si ha presente che mosse verso l’universalismo, la via principale per la creazione di un sistema di welfare più inclusivo, avrebbero favorito maggiormente i lavoratori autonomi. Il cono d’ombra dell’evasione non solo impedisce di realizzare risorse, ma ostacola anche il disegno di politiche più coraggiose. Si può sperare si tratti comunque di un primo passo. Ma domani sarà forse più difficile ridisegnare un sistema universale senza dovere impiegare maggiori risorse.



(1) Nostri calcoli con modelli di microsimulazione, su dati campionari, segnalerebbero un paio di miliardi di perdita di gettito, una discrepanza non facilmente distinguibile dall’errore statistico.
(2) L’indice di Gini misura il grado di disuguaglianza presente in una distribuzione. Va da 0, in caso di totale eguaglianza, ad 1 nel caso opposto.
(3) Se calcoliamo la variazione percentuale del reddito disponibile solo sulle famiglie che beneficiano di un incremento di reddito, escludendo quelle che perdono e quelle indifferenti, la variazione percentuale media del reddito disponibile è attorno all’1,6 per cento per i primo tre decili, e decresce fino allo 0,5 per cento per il decimo.
 

Un popolo di evasori
a cura di Silvia Giannini e Maria Cecilia Guerra
La pressione fiscale a carico degli “onesti”, di Maurizio Bovi (2-10-2006)

L’evasione e la pressione fiscale (il rapporto delle entrate pubbliche sul Pil) sono da sempre ingredienti fondamentali della politica economica. Le discussioni inerenti la legge Finanziaria, tanto per citare l’attualità, non fanno altro che ribadire il concetto. D’altronde, l’importanza attribuita dal legislatore a questi indicatori è ben meritata e si vuole qui porre l’accento su certe loro interrelazioni che potrebbero aiutare a chiarire alcuni dei temi di politica fiscale sul tappeto.

La pressione fiscale a carico degli "onesti"

Il primo tratto comune che viene in mente è che le attività non dichiarate al fisco incidono su entrambi i fattori della pressione fiscale, poiché riducono sia il gettito sia il Pil (o, quantomeno, riducono l’affidabilità della stima del Pil).
Merita qui di essere ricordato che l’Istat corregge il Pil aumentandolo dell’evasione fiscale che, con varie tecniche, riesce a quantificare. (1) Cioè, il Pil ufficiale (che è anche una somma di redditi) contiene anche i redditi non dichiarati. Viceversa, i conti pubblici non sono corretti per l’evasione, per cui la pressione fiscale comunemente riportata e commentata (chiamiamola "consueta"), potrebbe non essere quella "vera".
Quest’ultima è molto probabilmente superiore a quella solitamente discussa poiché, evidentemente, le tasse sono pagate solamente dai redditi emersi. L’Istat pubblica i dati del Pil dichiarato e non, può essere interessante perciò chiedersi qual è la pressione fiscale a carico dei contribuenti onesti. L’operazione è assai semplice: il gettito va diviso per il solo Pil regolare. La tabella 1 dà conto dei risultati, affiancando tre tipi di pressione fiscale.


 

La pressione consueta deriva dalla divisione del gettito incassato dalla pubblica amministrazione per il Pil complessivo. Per spiegare gli altri due indici, va detto che l’Istat pubblica due diverse stime dell’evasione: una minima, l’altra massima. Quest’ultima comprende, oltre all’evasione minima, anche una somma che potrebbe non essere collegata a redditi irregolari. (2) Orbene, il denominatore delle misure "media" e "massima" è, rispettivamente, il Pil complessivo al netto della versione minima e massima della stima dell’evasione. Chiaramente, a parità di Pil totale, il Pil regolare più basso è quello connesso all’evasione massima e, altrettanto ovviamente, esso genera l’aliquota massima poiché il gettito è uguale per tutti gli indici. In altre parole, nell’evento banale e limite in cui non esistesse evasione, allora sia il rapporto massimo che quello medio collasserebbero al valore consueto.
Si può anche osservare che variazioni di gettito per motivi del tipo "aumento/diminuzione del senso civico" (nel secondo caso si può pensare all’effetto di condoni reiterati), dovrebbero impattare meno sul quoziente massimo che su quello consueto: a parità di mutamenti negli incassi fiscali, il denominatore "tutto dentro" di quest’ultimo resta relativamente più stabile. Va poi considerato che i valori di cui alle colonne (b) e (c) sono una sovrastima dell’aliquota "vera" poiché è più facile nascondere il reddito che il consumo. Cioè, parte delle imposte indirette è pagata dai redditi irregolari. In questo caso l’indicatore consueto, tenendo conto anche dei redditi evasi, è meno impreciso degli altri due.
Ancor più singolare è l’impatto sulla pressione fiscale dei redditi provenienti dalle attività illegali. Da un lato, vengono (almeno in parte) spesi nel circuito legale, in ciò incrementando le entrate pubbliche mentre, dall’altro, non entrano nel Pil totale stimato dall’Istat. In entrambi i casi, l’effetto è una sovrastima della pressione fiscale: una parte degli incassi della pubblica amministrazione deriva da redditi non conteggiati nel Pil ufficiale. Comunque, tutto considerato, è probabile che la percentuale "vera" sia situata all’interno dei due valori estremi riportati nella tabella 1 la quale, anche perciò, appare generosa di utili indicazioni.
Entrando nel merito delle cifre, sembra che il 1997 sia stato, fiscalmente parlando, un annus horribilis : tutti i valori segnano un massimo. D’altronde, quello, era l’anno dell’eurotassa.
Forse ancora più intenso è l’impatto, anche emozionale, dell’aliquota che storicamente grava sui redditi dichiarati al fisco: non di rado si è superato il 50 per cento anche nella versione più conservativa di cui alla colonna (c). Infine, l’osservazione dei valori del decennio suggerisce che la pressione fiscale, specie nelle due versioni non consuete, è maggiore negli anni più recenti che nei primi anni Novanta.

Una crescita senza ostacoli

Nella tabella 2 riporto i tassi di variazione del gettito e dell’evasione (nelle due versioni, massima e minima, dell’Istat). Scorrendo le colonne (b) e (c) ci si rende conto che, nonostante gli interventi e la tolleranza zero, la crescita dell’evasione ha trovato pochi intralci. Non solo. La crescita complessiva (vedi ultima riga) ci informa che, negli ultimi dieci anni, una delle "industrie" trainanti del nostro sistema economico è stata proprio l’evasione fiscale; specie quella che, secondo l’Istat, è certamente evasione. Vedasi la colonna (c). Confrontando evasione e gettito (colonne (a-b) e (a-c)), risulta che i primi anni Novanta sembrano essere stati un periodo particolarmente drammatico: l’evasione aumentava e il gettito non riusciva a tenerne il ritmo. In seguito qualcosa è migliorato, anche se il risultato consolidato nel corso del decennio permane negativo.

 

La correlazione tra la crescita del gettito e quella dell’evasione è positiva (molto, 65 per cento, nel caso dell’evasione massima; poco, 19 per cento, nel caso dell’evasione minima), il che a parole vuol dire che è risultato difficile implementare politiche in grado di perseguire, contestualmente, aumenti di gettito e riduzioni dell’evasione.
Evidentemente, ed è la speranza di molti, non è detto che la storia debba per forza ripetersi. Tuttavia, in base a queste informazioni, si possono tentare due considerazioni di politica fiscale.
La prima riguarda i condoni degli ultimi anni che, se fatti con l’intenzione di far emergere base imponibile in modo permanente, avrebbero dovuto produrre sia maggior gettito sia minore evasione. Nei dati aggregati qui analizzati, simili dinamiche non trovano riscontri.
La seconda interpretazione normativa è che in Italia la gestione delle entrate pubbliche appare particolarmente complicata. Dal lato emerso, devono confrontarsi con rigidi vincoli sovranazionali, con un debito abnorme, con una spesa (nel breve termine) sempre meno comprimibile e (nel lungo termine) sempre più decentrata; dal lato sommerso, sembrano subire vigorose reazioni ai tentativi di reperire incassi aggiuntivi.
Insomma, il quadro prospettato dovrebbe far intuire perché, nei dibattiti di politica fiscale, si sente spesso dire che i) la (più che trentennale) "stagione" dei condoni è ormai finita e che ii) la lotta all’evasione fiscale è un prerequisito per la riduzione della pressione fiscale.


* Le opinioni qui espresse sono personali e non necessariamente impegnano l’Isae.

 

IL TESTO UFFICIALE DELLA MANOVRA
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Postato il Martedì, 03 ottobre 2006 ore 15:00:41 CEST di Salvatore Indelicato
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