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Voce alla Scuola: CI SARA' UN TAGLIO DI 100000 INSEGNANTI?

Comunicati

Istruzione, le risorse a rischio

Trentamila miliardi da recuperare. A far tornare i conti della legge finanziaria potrebbero essere i precari


ROMA. Finora non c’è niente di sicuro. Ma la possibilità che, per mettere insieme i 30 miliardi della Finanziaria, il governo rastrelli risorse anche dalla scuola c’è, eccome. Una cifra in particolare torna insistentemente: al ministero si starebbe ipotizzando un drenaggio di un miliardo di euro nel solo 2007. Su dove andrebbe a colpire la mannaia, poi, la nebbia è fitta.
Alcuni ventilano un taglio di 100 mila insegnanti. Altri indicano gli insegnanti di sostegno, sebbene questa ipotesi sembrerebbe scongiurata. Altri ancora parlano di classi più numerose e «razionalizzazione» degli istituti nelle zone montane. Di certo, a un mese dalla consegna della Finanziaria al Parlamento, c’è una data: il 20 settembre, quando le intenzioni del governo saranno più chiare, Cgil, Cisl e Uil si incontreranno per fare il punto e decidere su eventuali forme di protesta.
Intanto, nelle sedi dei sindacati monta la preoccupazione per le eco dei tagli, nonostante il ministro abbia in tutti i modi cercato di rassicurare gli animi. Dapprima buttandola sulle battute: «Io sono medico - ha scherzato Fioroni - e i tagli sono abituato a ricucirli». Poi, tornando serio, ha aggiunto: «È vero, la Finanziaria chiede sacrifici, ma anche il rispetto del programma elettorale, nel quale si prevedeva sicurezza e certezza per edifici scolastici e precari».
Proprio i 150 mila precari nelle scuole sono i primi a preoccuparsi, perché se già adesso mancano i soldi per stabilizzarli, cosa succederà dopo una nuova stretta ai rubinetti? Chiaro è che, se tagli saranno, è probabile che colpiscano proprio loro, gli ultimi della fila. La Gilda degli insegnanti proprio oggi denuncia l’alto tasso di precariato tra i propri iscritti «mentre è in corso - scrivono dalla federazione - una partita per evitare i tagli all’Istruzione».
Di precariato scolastico parla anche Pietro Folena, presidente della commissione Cultura alla Camera e deputato di Rifondazione: «Non è vero - dice Folena - che gli insegnanti in Italia sono troppi. Al contrario, il ricorso massiccio al precariato dimostra che vi è una domanda inevasa. Servono nuove immissioni in ruolo del personale docente e ausiliario». «Insomma - conclude Folena - dalla Finanziaria non è immaginabile aspettarsi tagli, semmai nuovi investimenti». Ma la preoccupazione resta alta.
Paolo Nerozzi, della segreteria nazionale di Cgil, sbotta: «Ci incontriamo con i ministri e ci rassicurano, poi andiamo a vedere quello che fa il ministro Padoa-Schioppa e i conti non tornano».

Nota: www.cgilscuola.it 2 settembre 2006
FMI, allarme sui conti pubblici italiani
"Situazione difficile, deficit oltre il 4%"

ROMA - Ennesimo allarme sui conti pubblici italiani: a lanciarlo questa volta è il Fondo Monetario Internazionale, secondo il testo della bozza del World Economic Outlook anticipato dall'agenzia Ansa. La situazione italiana "è particolarmente difficile, con il deficit in marcia verso il 4,1% nel 2007", sottolinea il Fmi.

E pertanto "l'impegno del nuovo governo a contrastare il deficit è quindi benvenuto, anche se un piano di aggiustamento credibile a medio termine (compresa l'identificazione delle misure in grado di mettere in atto l'ambiziosa correzione prevista nella finanziaria 2007) deve ancora essere messo a punto". Per quest'anno le previsioni del Fmi parlano di un deficit al 4%. Quanto al debito netto, si attesterà al 103,7% quest'anno per risalire al 104,8% il prossimo.

Tuttavia il Fondo Monetario Internazionale
rivede invece al rialzo le stime di crescita dell'Italia per quest'anno: il progresso del nostro Prodotto interno lordo nel 2006 è atteso all'1,5% contro il +1,2% prospettato nelle ultime previsioni ufficiali di aprile scorso. Di segno contrario invece la revisione della crescita 2007: si parla infatti ora di un Pil al +1,3%, inferiore al +1,4% fissato ad aprile.

Il ministro del Tesoro
gioca la semifinale

PER RENDERE chiaro il difficile percorso della Legge finanziaria il ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa, ricorre ad un'immagine propria di alcune gare sportive e parla di ottavi di finale, semifinali, e finale. Nella fattispecie gli ottavi di finale sono già stati giocati e vinti nel giugno scorso con l'approvazione del Documento di programmazione economica e finanziaria (Dpef) da parte del Consiglio dei ministri e del Parlamento.

Le semifinali sono in corso in questi giorni e si concluderanno entro il 30 settembre con la redazione del disegno di legge da parte del governo e la sua presentazione alle Camere. Poi comincerà l'iter parlamentare che dovrà concludersi con l'approvazione entro la fine di novembre e questa sarà la finale o finalissima che dir si voglia.
Padoa-Schioppa non si nasconde le difficoltà del percorso e del negoziato che sta già affrontando e che ha tre interlocutori: i partiti del centrosinistra rappresentati nel governo, le parti sociali, l'opposizione.
Ma oltre agli interlocutori, ai bordi del campo, ci sono due convitati di pietra la cui presenza non può essere dimenticata neppure per un momento: le autorità europee e il mercato.

Il ministro, ricorda Padoa-Schioppa, è il solo proponente del disegno di legge; sotto a quel testo è prevista soltanto la sua firma. Ascolterà tutti, negozierà con tutti, ma alla fine la responsabilità costituzionale incombe a lui e a lui soltanto, ovviamente d'intesa col presidente del Consiglio.
Questa solitudine istituzionale è la sua più forte garanzia e insieme il culmine della sua responsabilità politica. Per questa ragione il ministro del Tesoro - come d'ora in poi preferisco chiamarlo in quanto custode della spesa - cessa di essere un tecnico quale che sia la sua biografia di servizio dello Stato e diventa un uomo politico a tutti gli effetti per la semplice ragione che la Legge finanziaria è l'atto politico principale della democrazia rappresentativa. Su di essa si confrontano le forze politiche, le parti sociali, l'opinione pubblica; su di essa si determinano il consenso e il dissenso di ciascuno dei soggetti implicati. Infine la sintesi degli interessi particolari in funzione dell'interesse generale del paese.

* * *
Gli ottavi di finale - per restare nella metafora sportiva cara al ministro del Tesoro - sono stati superati con l'approvazione del Dpef. In questi giorni di intense negoziazioni molti tendono a dimenticare quel passaggio o a sminuirne l'importanza o a giudicarlo un documento generico e non precettivo. Insomma una cornice dentro la quale la tela da dipingere è ancora del tutto bianca.

Che si tratti d'un documento di indirizzo, che tra l'altro abbraccia l'arco dell'intera legislatura, è vero tranne un punto che contiene un paletto saldamente piantato sul terreno dall'approvazione parlamentare: l'entità della manovra che la Legge finanziaria dovrà articolare. La manovra, è scritto nel Dpef, sarà di 35 miliardi di euro.

Non si tratta d'una direttiva generica ma di un numero specifico che a sua volta è il risultato, il saldo, d'una serie di grandezze economiche intrecciate tra loro: la dinamica del Prodotto interno lordo (Pil), del fabbisogno del Tesoro, della spesa corrente, degli investimenti pubblici, del tasso di interesse, delle entrate tributarie, del deficit, del debito pubblico.
Queste grandezze sono state analizzate con la dovuta diligenza (due diligence) dal Tesoro e dalla Ragioneria dello Stato; sono state riscontrate con il modello analitico della Banca d'Italia, con la legislazione vigente, con gli obiettivi di politica economica del governo e infine con le regole vigenti in tutti i paesi che aderiscono all'Unione europea.
La ricognizione è cominciata a maggio sotto la guida del ministro del Tesoro. E ha dato luogo a quella cifra finale: 35 miliardi di euro.

Questo paletto è il punto fermo dal quale si deve partire. Sulle modalità della legge si può e anzi si deve discutere, ma il punto fermo è quello. Ogni proposta alternativa alle proposte del ministro del Tesoro deve rispettare quel numero. Questo è il vincolo istituzionale e politico che gli ottavi di finale hanno trasmesso alle semifinali. Si gioca dentro quel girone e non in altri. E le alternative non posso essere generiche, del tipo: fate pagare ai ricchi, non accetteremo questo, vogliamo assolutamente quest'altro, l'impresa è centrale, il lavoro è centrale, l'ambiente è centrale, le pensioni non si toccano e via dicendo. Frasi come queste esprimono legittimi desideri e legittimi interessi e possono ispirare questa o quella politica, ma debbono essere articolate in modo che quel vincolo (ripeto: approvato dal Consiglio dei ministri e approvato dal voto delle Camere) sia rispettato.

Perciò sarà bene che i vari interlocutori del ministro del Tesoro l'abbiano ben presente. Lui, di certo, non lo dimenticherà.

Da questo punto di vista mi ha molto stupito, e non favorevolmente, l'intervista di Epifani al nostro giornale di tre giorni fa. Il segretario della Cgil esordisce dicendo correttamente che fissare l'entità della manovra e le modalità della Legge finanziaria rientra nei compiti e nei poteri del governo; poi, anche qui correttamente, rappresenta gli interessi delle categorie che stanno a cuore al suo sindacato. Infine - non più correttamente - entra nel merito dell'intera Legge finanziaria e la smonta pezzo per pezzo.

Ho stima per l'intelligenza e l'onestà intellettuale di Epifani, ma la contraddizione con se stesso è palese: non compete a lui disegnare la politica economica del governo come non compete al vicepresidente della Confindustria, Bombassei. Né ai segretari delle altre organizzazioni sindacali. Tutti costoro sono parte in causa e rappresentano interessi legittimi. Li difendano. Ma non entrino in campi che appartengono in esclusiva al governo e al Parlamento. Un privato cittadino può discutere tutto e mettere tutto in causa; ma un'organizzazione riconosciuta nella sua rappresentanza deve invece avere ben presenti le competenze proprie e i propri limiti. La concertazione si basa su questo principio. Se non viene rispettato da tutti non è concertazione ma torre di Babele, incrocio di monologhi, rissa tra sordi. Insomma tutto fuorché dialogo. Non porta da nessuna parte. Come la maionese quando impazzisce.

Lo ripeto: Epifani mi ha molto stupito. Lui più degli altri perché lui questi principi li conosce meglio degli altri. Faccia scioperare i suoi organizzati se il risultato non gli piacerà. Ma ci rifletta bene e calcoli i costi e i benefici perché qui non è in gioco una norma di legge ma un governo e una legislatura. Parlo di Epifani nominando la parte per il tutto.

***
Si dirà: il primo a non rispettare la cifra i 35 miliardi è stato proprio il governo, anzi proprio il ministro del Tesoro. Pochi giorni fa ha deciso che il paletto, il vincolo del Dpef, poteva esser cambiato e l'ha fatto scendere da 35 a 30 miliardi.

I convitati di pietra che osservano da bordo campo hanno aggrottato il sopracciglio. Gli interlocutori hanno applaudito ma alcuni di loro hanno immediatamente chiesto di più: perché 30 e non 25? Perché non spalmare su due anni? Perché perché perché.... e sono rimasti male quando il ministro del Tesoro ha risposto: perché no.
Ebbene, il ministro del Tesoro in realtà non ha cambiato un bel niente. La manovra resta di 35 miliardi. Solo che 5 di quei 35 sono già entrati nelle casse dello Stato, prodotti dal miglior andamento delle entrate tributarie.

Ragioniamo correttamente. Quando fu redatto il Dpef e fu posto il vincolo dei 35 miliardi le entrate avevano già migliorato il loro andamento di 19 miliardi rispetto al corrispondente periodo del 2005. Questo maggior introito era fatto di varie componenti. In parte dipendeva dal ciclo europeo, in generale miglioramento. In parte da norme di legge operanti. In parte da un mutamento nelle aspettative dei contribuenti.

Queste varie componenti - che sono state lucidamente spiegate e analizzate da Luigi Spaventa sul nostro giornale - sono state depurate dall'influenza della congiuntura e ridotte all'osso strutturale e quella valutazione è stata inclusa nel Dpef. Intendo dire che i 35 miliardi di vincolo includevano già la parte strutturale del miglior andamento delle entrate.

Ora, tre mesi dopo il Dpef, l'andamento delle entrate è ulteriormente migliorato. Non si ragiona più sul primo semestre dell'anno ma sui primi otto mesi. Depurato dalla parte congiunturale si è quantificato un miglioramento strutturale di altri 5 miliardi. Infatti il fabbisogno di cassa dei primi otto mesi del 2006 rispetto al 2005 è sceso di 22 miliardi, al netto di quanto erogato in più per i cantieri rimasti a secco e per altri provvedimenti.

Ecco dunque chiarito il supposto mistero. I 5 miliardi non sono stati abbonati, ci sono già.
Si dirà: ma allora perché la Commissione europea si preoccupa? Perché le agenzie di rating sospendono il giudizio?

Suppongo che la Commissione di Bruxelles non abbia ancora approfondito il meccanismo. Ma suppongo anche che la sua sia una preoccupazione politica: l'Italia negli anni scorsi ha fatto smercio di furberia creativa e Bruxelles alla fine ne è rimasto scottato. Ma poi c'è un'altra considerazione da fare: i convitati di pietra hanno davanti due grandezze che preoccupano loro e debbono preoccupare anche noi: il debito pubblico italiano al 106 per cento del Pil e la dinamica della spesa corrente. In particolare quella delle pensioni che minaccia d'essere insostenibile e di far trovare in serie difficoltà i lavoratori giovani quando arriveranno all'età pensionabile.

Su questi due punti batte l'Europa ed ha perfettamente ragione. Qui non si tratta di entrate ma di spese da portare strutturalmente sotto controllo.

***
Poche parole su queste questioni, che saranno la base del negoziato cominciato tre giorni fa.
La riforma pensionistica Dini, forse la migliore delle riforme in materia pensionistica, prevedeva che i coefficienti che trasformano i contributi in pensione sarebbero stati rivisti ogni dieci anni e adeguati all'andamento dell'invecchiamento demografico della popolazione. Quindi avrebbero dovuto essere rivisti nel 2004. Invece il governo di allora non lo fece. Scaricò sul futuro governo come tante altre cose.
Ora il nodo è al pettine. Ci hanno lasciati uno sfascio e con lo sfascio bisogna misurarsi.
L'invecchiamento della popolazione in questi dieci anni è nettamente aumentato. Sulla base della riforma Dini ciò deve produrre una diminuzione del coefficiente di circa l'8 per cento. Non si tratta d'una scelta ma di un atto dovuto che avrebbe dovuto verificarsi due anni fa.

Il resto fa parte del negoziato e quindi è materia fluida sulla quale è inutile entrare oggi. Salvo ricordare che la spesa è fuori controllo nella previdenza, nella sanità, nella finanza locale e nel pubblico impiego.
Il ministro del Tesoro (e soprattutto il presidente del Consiglio) non hanno alcuna voglia di lacrime e sangue. E chi ne ha voglia? Ma neppure di tarallucci e vino. Hanno scelto di non imporre rigore senza pensare nello stesso momento anche alla crescita. Perciò hanno stanziato 20 miliardi per il rigore e 15 per la crescita. Adesso, con l'inclusione dei 5 miliardi delle migliori entrate, le cifre da coprire sono di 16 miliardi per il rigore e 14 per la crescita. Volete una Finanziaria ancora più piccola? Potete proporne una di soli 20 invece che di 30 miliardi. E allora le cifre sarebbero 16 al rigore e 4 alla crescita. Facendo saltare il vincolo del Dpef e provocando la caduta del governo con quel che ne segue.

Se è questo che si vuole, ebbene avanti, tutti insieme verso il naufragio. Chi farà il portabandiera di questo sinistro corteo? Le iscrizioni sono aperte. Fatecelo sapere sul nostro web.

 






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Postato il Domenica, 03 settembre 2006 ore 00:44:37 CEST di Silvana La Porta
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