Mentre
vengono interrogati gli ultimi scampoli di ragazzi agli esami di stato, docenti
e alunni delle superiori si chiedono come sarà riformato questo esame, visto che
sia il programma dell'Unione e sia il nuovo ministro della Istruzione hanno
promesso di modificarlo. L'opinione più diffusa è quella di farlo ritornare così
come lo volle Berlinguer: metà commissari interni e metà esterni e con un
presidente per commissione. Un'altra opinione sibila per una commissione
interamente di esterni e che esamini tutte le materie dell'ultimo anno. Ma c'è
pure chi soffia per l'abolizione definitiva degli esami di stato. Quest'ultima
in definitiva sembrerebbe la decisone più saggia, mentre i soldi si potrebbero
dirottare per l'aggiornamento di un paio di settimane degli insegnanti, invece
di spenderli per questo rito ormai stantio e sempre più privo di valore e
contenuto.
Mettere, dunque, non già più gli alunni, ma gli insegnanti sotto esame,
verificando il lavoro svolto, la didattica e i sussidi tecnologici e no
impiegati e gli esiti raggiunti sulla base proprio delle risultanze finali.
Corsi di aggiornamento per discipline e sulle nuove metodologie, sulla
legislazione scolastica e di psicopedagogia per arricchire il loro bagaglio
culturale e professionale e per dare anche maggiori garanzie alle famiglie che
affidano i figli alla scuola. Ma sarebbe anche una ulteriore garanzia nei
confronti della società stessa che, investendo sulla istruzione, pretende
risultati adeguati ai tempi e al turbinio dei cambiamenti di livello planetario.
La cultura e la formazione dei giovani infatti hanno tempi lunghi per cogliere i
frutti attesi, contrariamente a qualsiasi altra branca che risolve i suoi
quesiti e le sue intenzioni nel breve e medio termine. Da qui dunque la
scommessa, pensiamo, che i governi nazionali dovrebbero stabilire con i
cittadini e con i docenti, non lesinando però le giuste retribuzioni e i giusti
riconoscimenti normativi. Nello stesso tempo risulta alquanto strana la
lontananza siderale, non solo fra le scuole ma anche fra scuola e Università. E'
vero che si sono create reti di scuole su Internet per scambiarsi pareri e
consigli, esperienze e sperimentazioni, ma è anche vero che ancora la gran parte
si arrocca sulle sue posizioni e con sospetto dialoga con le altre. Stesso
discorso con le Università che vivono il rapporto con le istituzioni scolastiche
da altezze reali irraggiungibili e presso le quali è persino difficile per un
docente consultare o prendere un libro, mentre è del tutto impossibile
instaurare scambi di docenza, di risultati, di ricerca e così via. Ma a nostro
parere non finiscono qui le contraddizioni dei nostri tempi relativamente anche
al diploma finale. Non si capisce infatti perché proprio alla conclusione del
suo ciclo di studi si debba respingere un ragazzo e costringerlo a ripetere
l'anno. E non solo, ma è opinione diffusa che una scuola più respinti ha e più è
seria, dimenticando, come diceva un illustre pedagogista, che ogni bocciatura è
un fallimento della scuola stessa e quindi dell'intero lavoro dei docenti. Anche
da qui la proposta che molti esperti stanno lanciando al ministero: invece del
diploma, rilasciare ai ragazzi una certificazione dei risultati raggiunti. E'
questo un metodo assai usato per l'insegnamento della lingua straniera che
adotta livelli di conoscenza stabiliti dalla Comunità europea e sui quali si
basano le società serie di certificazione. Esse non respingono, misurano i
livelli di apprendimento attraverso test oggettivi calibrati al grado di cui si
richiede la certificazione. L'errore è possibile, ma assolutamente limitato.
Una simile verifica al termine del ciclo di studi, garantirebbe meglio, sia
l'efficacia dell'azione educativa e sia i datori di lavoro e le università. Ma
darebbe soddisfazione a tanti docenti la cui materia, sebbene trascurata
proditoriamente dall'allievo o particolarmente amata, poi rientra nel giudizio
globale complessivo. Pasquale Almirante (da La Sicilia)