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Università: Un documento comune delle associazioni imprenditoriali propone una strategia di riforma dell'universita' italiana.

Opinioni

Documento comune sull'Università - firmato da 18 Organizzazioni Imprenditoriali
Roma, 21 Marzo 2006
ASER - Education

Il documento esprime una posizione comune a 18 Organizzazioni Imprenditoriali sul futuro dell’università italiana, considerata come leva strategica dello sviluppo e motore della conoscenza.


Il documento si articola in tre parti:
la prima è dedicata all’ambiente esterno all’università, che deve diventare più aperto e competitivo e deve prevedere maggiore concorrenza per i finanziamenti;
la seconda si sofferma sull’organizzazione dell’università, che deve essere modificata per poter competere più liberamente attraverso una riduzione del centralismo e una riforma della governance
la terza sottolinea la necessità di differenziare l’offerta formativa dopo il diploma (lauree di I livello, corsi di formazione professionale superiore, lauree magistrali, master e dottorati).

I punti fondamentali del documento riguardano:

- Apertura alla concorrenza e alla autonomia responsabile
- Eliminazione dei vincoli normativi che impediscono alle università di competere
- L’apertura all’estero attraverso una maggiore capacità di attrazione degli studenti stranieri
- Adozione di un rigoroso sistema di valutazione
- Finanziamenti pubblici legati ai risultati
- Un più forte legame con l’impresa nella formazione e nello sviluppo della ricerca
- Il superamento del valore legale del titolo di studio che va sostituito con un sistema europeo di accreditamento.

Documento università datoriali.pdf

 

07-06-2006
Un’università allo stremo
Luigi Guiso



Nelle graduatorie internazionali non vi è traccia delle università italiane: scomparse. Non se ne trova alcuna tra le principali dieci al mondo; ma neanche tra le principali dieci in Europa (sette inglesi, due francesi e una svizzera). Se si consulta la classifica di Webometrics oppure quella del Times degli atenei del mondo, dopo innumerevoli bandiere a stelle a strisce, diverse bandiere di sua maestà britannica, qualche tricolore francese e un certo numero di bandiere tedesche, si scorge una bandierina bianca rossa e verde al centocinquantatreesimo posto. Tiriamo un sospiro di sollievo? Sì, ma solo per poco: è l'Universad Nacional Autonoma de Mexico. La prima italiana, Bologna, appare al centonovantaquattresimo. È la stessa che nel XIII e XIV secolo era la miglior accademia al mondo e attraeva studenti da tutta Europa, oggi è ridotta al rango di università di provincia.
Alcuni anni fa, durante una visita all'università felsinea, mi fu riferito che l'allora rettore stimava il distacco del suo ateneo dalla frontiera della ricerca accademica in 30-50 anni. Significa che la ricerca che oggi produce in media la miglior università italiana è del livello di quella che Harvard - la frontiera odierna - produceva tra il 1950 e il 1970.
È come se nel 2006 la Fiat fosse solo in grado di progettare e immettere nel mercato l'850 color caffèlatte senza marmitta catalittica o, al meglio, la Fiat 127: gloriose (forse) allora, invendibili oggi. Ma le auto caffèlatte sono finite fuori mercato, i professori no. Non c'è mercato che li minacci, non c'è concorrenza che li disciplini. Anzi, controllando gli accessi sono anche in grado di eliminare pericolosi concorrenti, ovvero i ricercatori più bravi, come Roberto Perotti ha più volte documentato su questo sito.


Una ricetta semplice

Capire le cause del collasso è utile e molti lo hanno fatto. Ma più importante è dire come rimediare. Un bel rompicapo anche per un ministro di buona volontà e di talento come l'onorevole Fabio Mussi.
In un articolo sul Sole-24Ore di qualche giorno fa, Luigi Zingales ha proposto di risolvere il problema nell'unico modo possibile: iniettando dosi di concorrenza nel sistema universitario. La proposta di Zingales vuole fornire gli incentivi giusti per accrescere ciò che più manca alle nostre università: la qualità. Se gli studenti pagano (usando il prestito statale), hanno incentivo a pretendere; poiché il valore legale è abolito, ciò che conta è la reputazione dell'università e quindi la sua qualità. Studenti di miglior talento sono interessati a scegliere le università migliori e le università hanno incentivo ad attrarli.
Per poterlo fare devono migliorare la qualità, quindi assumere docenti di calibro - anziché amici, parenti e portaborse - e fornire incentivi giusti a quelli esistenti. L'autonomia contabile e organizzativa è il corollario: per poter sviluppare la sua politica, ciascuna università deve avere libertà di manovra. Chi abusa di questa libertà ne pagherà le conseguenze perché attrarrà meno studenti e di minor qualità e quindi meno risorse.
Il meccanismo è impeccabile. È anche implementabile? Sì, se si volesse, ma al ministro Mussi non piace. La sua obiezione è che quel meccanismo porterebbe rapidamente alla nascita "dell'università dei predestinati". Ma non è già così, signor ministro? Non abbiamo già una università di predestinati, siano essi i professori iperprotetti o gli studenti destinati al lavoro con titoli di studio senza un mercato?
Se la proposta Zingales è troppo rivoluzionaria, le propongo una alternativa meno dirompente, ma ugualmente efficace: passi all’attuazione del sistema di valutazione della ricerca condotta lo scorso anno in via sperimentale dal Civr e condizioni una quota significativa, ad esempio un terzo, dei trasferimenti dello Stato alle università alla qualità della ricerca che vi si produce. Gli atenei che producono più ricerca di elevato livello - e solo quelli - ottengono più fondi delle altre; poiché la ricerca di qualità è condotta da ricercatori di talento, gli atenei competeranno per attrarre i migliori. I ricercatori di talento hanno un interesse prioritario a mantenere e accrescere il loro "capitale umano" e sanno che uno dei modi per farlo è attrarre altri ricercatori di elevata qualità con cui interagire e lavorare. In modo del tutto naturale useranno il merito, e si batteranno perché tutti lo facciano, come unico criterio di selezione dei professori, avviando il processo di ripresa delle università.
Come vede la ricetta è semplice: una regola ferrea di allocazione dei fondi ai migliori; libertà di decisione alle università. Non c'è bisogno di Grandi Riforme, i cui beneficiari finora sono stati soprattutto i loro estensori.



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Commenti presenti


Data: 08-06-2006 18:29:00
Nome: Marco
Oggetto: commento
Messaggio: Gent.mo prof Guiso,
purtroppo lei ha perfettamente ragione. L'università italiana è stata ed è attualmente una nave con un carico che non attraccherà mai in alcun porto; quel carico, infatti, è rappresentato (nella maggior parte dei casi) da professori ordinari incompetenti, che non hanno publbicato una sola riga in anni e anni di (onorabile?) carriera, che sono diventati tali solo attraverso delle sanatorie con le quali da un giorno ad un altro si sono trasformati da ricercatori a ordinari, che non hanno tempo di fare ricerca in quanto impegnati nelle loro attività private o a far vincere qualche concorso ai propri portaborse. Abolire il valore legale alla laurea sarebbe il primo provvedimento da prendere. Lo Stato ha delle grandi colpe: non finanzia, e non ha mai finanziato, adeguatamente la ricerca, ma non c'è da meravigliarsi visto che siamo in Italia. Non c'è concorrenza; se sei in gamba, ti mandano via perché qualcuno ha paura di essere sclazato dalla prorpia poltrona. Nondimeno, i centri di eccellenza esistenti (vedi Normale, Sant'Anna e SISSA) ricevono dei finanziamenti ridicoli; e noi che cosa facciamo? Ma la cosa più semplice naturalmente: creiamo ad arte di nuovi, come l'IMT di Lucca (anche se a me piace chiamarlo MIT, per piangermi un po' addosso), mentre nelle università pubbliche non abbiamo neanche la carta per stampare. Trovare dei meccanismi incentivanti per far rinascere l'università, è materia assai complessa, ma concordo con quanto lei ha scritto.
Su una cosa però sono in disaccordo: l'università italiana non è allo stremo, l'università italiana è morta e sepolta. E ormai nessuno sarà più in grado di farla risuscitare. Grazie.
Risposta:



Data: 08-06-2006 16:50:00
Nome: Carlo
Oggetto: Qualche obiezione
Messaggio: Vorrei sollevare qualche obiezione. In primo luogo, abolire il titolo legale mi sembra, per quanto condivisibile in linea di principio, poco fattibile: ad esempio, tutti i concorsi nella pubblica amministrazione, attualmente basati anche sul valore legale della laurea, come verrebbero sostituiti?
Per quanto riguarda un aumento dei costi per gli studenti, credo che l'inadeguatezza delle borse di studio non farebbe che aumentare le disparita' tra ricchi e poveri. Inoltre, non tutti gli studenti cercano necessariamente la qualita': molti si accontentano del pezzo di carta (se devono fare un concorso pubblico, se devono lavorare in proprio, se devono lavorare in famiglia, ecc) e quindi potrebbero essere incentivati ad andare nelle universita' piu' "facili".
Risposta:



Data: 08-06-2006 14:44:00
Nome: Umberto77
Oggetto: commento
Messaggio: Gent.mo Luigi Guiso, ho letto il suo articolo e vorrei sollevare un'obiezione: non credo che un costo più alto sostenuto dagli studenti possa innescare un meccanismo virtuoso di riqualificazione dell'univerisità. D'altro canto ammetto di non avere alcuna idea per spezzare i meccanismi di concorrenza sleale ai quali lei accenna e che affligono la ricerca universitaria. Vorrei però contribuire alla discussione sottolineando il ruolo che gli incentivi - ad es. alla ricerca o allo studio - possono avere sul rendimento degli studenti e dei ricercatori. L'assenza di stimoli spesso è frustrante così come la mancanza di informazione. Forse può essere utile spersonalizzare un po' l'università, far pesare di più l'istituzione e fare in modo che essa possa infondere fiducia in chi le si rivolge: insomma fare in modo che non sia possibile a nessuno scavalcarla. Come fare, ripeto, davvero non lo so, però seguirò appassionatamente questa discussione se avrà un seguito. Grazie
Risposta: Io ho solo proposto di allocare I trasferimenti che oggi lo stato fa alleuniversità secondo la performance di ricerca di queste stesse. Questo ècompatibile con costi di accesso invariati per gli studenti. La cosacruciale è spendere diversamente quello che si spende oggi, dando di più a
chia fa meglio e meno o niente a chia fa peggio.

08-06-2006
Se il ministro sale in cattedra
Pietro Reichlin


La principale riforma a costo zero che il ministro dell’Università Fabio Mussi potrebbe fare subito è de-regolamentare il sistema di reclutamento dei docenti universitari, abolire le barriere che limitano la concorrenza sul mercato accademico.

Internazionalizzazione e fuga di cervelli

La regolamentazione e i vincoli legislativi sono contro la qualità e l’internazionalizzazione.
Il numero di professori e studenti stranieri nelle prime dieci università americane e del Nord Europa è elevatissimo e destinato a crescere ancora. L’internazionalizzazione è la conseguenza dell’adozione di un principio di eccellenza (spazio ai migliori) che, a sua volta, richiede la massima concorrenza tra candidati nelle selezioni per il reclutamento di professori e la massima trasparenza delle procedure. Questo è il punto di forza delle migliori università del mondo. In quelle italiane, invece, siamo quasi a zero. Le nostre istituzioni accademiche possono piuttosto vantare un numero elevatissimo di docenti che hanno studiato nello stesso luogo dove ora lavorano.
La mancanza di internazionalizzazione ha provocato una fuga massiccia di cervelli dal nostro paese. Questo fenomeno potrebbe trasformarsi in un fatto positivo se il sistema universitario italiano decidesse di aprire le porte a chi fa ricerca all’estero. Il loro rientro porterebbe nei nostri atenei nuove esperienze e maggiori competenze.
Purtroppo, l’insieme della legislazione universitaria italiana e l’idoneità nazionale introdotta dalla legge Moratti appena trasformata in decreto legge (1) contrastano con questi obiettivi: segmentano artificialmente il mercato dei docenti, rallentano il ricambio dei professori di ruolo sottoponendo i candidati a concorsi di idoneità con cadenza saltuaria e incerta, pongono un limite al numero di idonei basato sulle disponibilità finanziarie degli atenei.

Procedure attuali e interventi possibili

Quando una facoltà decide di reclutare un professore di ruolo, deve compiere due passi distinti e sequenziali. Il primo consiste nella scelta della procedura di reclutamento. Dall’entrata in vigore della legge Moratti , le procedure possibili sono (a) trasferimento di professore di ruolo da altra università (cioè la pubblicazione di un bando rivolto solo ai professori già confermati che abbiano trascorso almeno un triennio presso l’università di provenienza), (b) chiamata diretta di un idoneo (cioè di un candidato che abbia conseguito da non più di quattro anni un’idoneità da una commissione nazionale di concorso).
Perché ostacolano l’obiettivo della massima concorrenza e trasparenza? Per tre ragioni:

(I) le due procedure sono mutuamente esclusive: la scelta di una esclude la partecipazione dei candidati che potrebbero essere selezionati in base alla procedura alternativa.
(II) la legge esclude dalla partecipazione alle procedure di reclutamento per professori di ruolo tutti gli "esterni", cioè coloro che non hanno conseguito un’idoneità (i più giovani, coloro che insegnano all’estero e non hanno familiarità con il sistema italiano, eccetera),
(III) al consiglio di facoltà che decide la procedura di chiamata partecipano docenti che possono candidarsi in base a tale procedura (come titolari di un’idoneità), creando un grave conflitto d’interessi.
In pratica, quando una facoltà decide di reclutare un professore di ruolo, i membri del consiglio hanno quasi sempre un’idea precisa su chi vorrebbero chiamare. Generalmente, si tratta di una persona che ha frequentato molto la facoltà o ha acquisito "meriti" e "crediti" (si è laureato o ha insegnato nella medesima facoltà, ha collaborato alla didattica o all’organizzazione di conferenze, e così via). Accade, quindi, che la procedura di reclutamento venga decisa in funzione della persona che si vuole. Ad esempio, se questi è un professore di ruolo in altra università, si decide senz’altro di bandire un posto per trasferimento. Poiché la selezione dei candidati fatta in loco è piuttosto sbrigativa e poco regolamentata, generalmente si presenta un solo candidato per la selezione e i potenziali concorrenti rinunciano volontariamente.
Riguardo al punto II, si deve notare che gli "esterni" sono molto numerosi, e lo diventeranno sempre di più, in considerazione della lentezza dei meccanismi concorsuali e della limitatezza del numero di posti disponibili (la legge prevede che possano trascorrere anche quattro anni tra un concorso e l’altro). Ciò contrasta con l’obiettivo di fornire stesse opportunità a tutti coloro interessati a ricoprire una posizione di ruolo.
Per rimediare a queste distorsioni, il ministro potrebbe abolire i concorsi nazionali, dare completa autonomia alle università e attivare le leve degli incentivi e dei disincentivi (mediante sistemi di valutazione della ricerca). Considerazioni di puro realismo mi convincono, tuttavia, che ciò non avverrà in tempi rapidi.
Il ministro potrebbe allora scegliere un obiettivo legislativo più modesto e veloce.
Basterebbe introdurre l’obbligo che i bandi per posti di professore siano aperti a tutti, senza alcuna specificazione riguardo alla tipologia del candidato: se già professore di ruolo nel sistema universitario italiano o idoneo o nessuna di queste due cose.
Detto in altri termini, la facoltà dovrebbe essere obbligata a scrivere un bando generico, nel quale si specifica solo la disciplina nell’ambito della quale si vuole coprire il posto. Alla scadenza, le domande dei candidati sono vagliate dal consiglio di facoltà, che nomina il vincitore. Se quest’ultimo è professore di ruolo in altra università o è un idoneo (in base al concorso nazionale definito dalla legge Moratti o in base ai concorsi locali della legge precedente) avrà automaticamente una posizione di professore di ruolo nella facoltà che ha bandito il posto. Se, viceversa, il vincitore è un "esterno" (cioè non è né professore di ruolo di altra università italiana, né idoneo), non potrà conseguire (immediatamente) una posizione di ruolo. In questo caso, la facoltà dovrà offrirgli un contratto di diritto privato, i cui termini devono essere specificati preventivamente nel bando. Successivamente, l’ateneo presso il quale ha sede la facoltà comunica al ministero l’intenzione di coprire una posizione di ruolo dando luogo all’attivazione di una procedura selettiva di idoneità nazionale. (2)
Questo stesso risultato potrebbe essere raggiunto autonomamente dagli atenei senza attendere una legislazione specifica. Basterebbe che le facoltà che intendono aprire una procedura selettiva per professore bandiscano simultaneamente un posto per trasferimento, un posto per idoneo, secondo le procedure previste dall’articolo 13 della legge Moratti, e un contratto di diritto privato. Ogni procedura di chiamata in base alla quale il candidato vincitore non ha potuto fare domanda sarebbe annullata per inadeguatezza dei candidati concorrenti.
Penso, tuttavia, che il ministero dell’Università farebbe meglio ad agire di autorità.

(1) Decreto legge 6/4/06 n. 164.
(2) Secondo l’articolo 4 del Dl 6/4/06 n. 164.



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Data: 09-06-2006 13:57:10
Nome: Gianluca
Oggetto: fuori dalle righe
Messaggio: Le sembra giusto professore che oggi non siano solo i raccomandati (chiamiamoli col loro nome per cortesia) ad andare avanti negli ambiti universitari, ma anche i più abbienti? Mi spiego. I ricercatori oggi devono avere i soldi in tasca per una serie di attività che devono spesarsi oltre a le spese di vitto e alloggio per i numerosissimi fuorisede.
Io credo che l'indipendenza degli Atenei abbia fatto solo dei danni. Se una città a bisogno di risorse allora farebbe bene ad aprire una Università, meglio se una facoltà cosidetta nuova come al tempo fu Scienze della Comunicazione. Faccio questo esempio non a caso ma tenendo ben presente che quella scelta fu un business per le città come Perugia e Roma. SEnza stare ad approfondire il mercato degli affitti e degli immobili in genere, gli esercizi commerciali, le banche ecc. Senza contare che chi si è laureato in Sc. della Com. non solo lo ha fatto con tutti i disagi di una facoltà iperaffollata ma ha preso una laurea praticamente inspendibile se non corredata da Master e Scuole. Questo ha significato cambiare città con relativo appartamento e affitto e doversi pagare una specializzazione di alcune migliaia di euro in genere. Ma bisogna provenire da una famiglia abbiente altrimenti si va nel call center, anche col 110 perchè i concorsi sono spesso uno spreco di tempo e fatica.
Io propongo di rendere le UNiversità dei poli di formazione mirata. Esse devono avere i giusti collegamenti con aziente, enti, società ecc. che abbiano specifiche richieste di studenti pronti per una mansione specifica in quel settore specifico. Succede nelle Università private perchè non farlo succedere nelle UNiversità pubbliche?




In breve vorrei lanciare un'idea, ovvero fare in modo
Risposta:



Data: 09-06-2006 12:31:43
Nome: Alessandro Figà-Talamanca
Oggetto: reclutamento dei docenti.
Messaggio: La legge Moratti sul reclutamento (L. 230/2005) ed il successivo decreto legislativo sono un modello di confusione normativa. Tuttavia in nessun punto di queste norme si vieta ad un professore di ruolo di partecipare ad un concorso per le chiamate degli idonei. Un simile divieto potrebbe essere previsto dai regolamenti di sede, che tuttavia potrebbero facilmente essere contestati con ricorsi amministrativi. Tra l'altro la legge 230/2005 ha comunque abrogato la disposizione della legge 210/1998 che vietava ai professori di ruolo di partecipare a concorsi per la stessa fascia e lo stesso settore. Io spero che quanto proposto dall'autore sia in effetti già operante.
Risposta:



Data: 09-06-2006 08:56:00
Nome: Gaetano Criscenti
Oggetto: valutazioni professori
Messaggio: Caro professore, la Sua proposta non risolve molti problemi, il più importante dei quali è il sistema di valutazione dei candidati: a cosa vale aprire i concorsi(a proposito, la sua idea va allargata a tutte le figure universitarie) a tutti , se poi i criteri di valutazione sono lasciati alla facoltà, che attua , di regola, un attento sistema preventivo di scelta dei criteri di valutazione per aiutare "il candidato" ad essere prescelto? Ci sono infiniti esempi di come tramite questo sistema si siano scelti candidati mediocri, ma con forti radici "familistiche", a danno di eccezionali, ma non supportati, candidati(vedi Torino,Genova, casi che hanno havuto risonanza Mondiale).
Bisogna stabilire criteri unici per tutta l'Italia, internazionalmente accettati, per evitare simili imbrogli legali.
Risposta: Sono consapevole dei problemi che lei solleva. Tuttavia, credo che
l'eliminazione degli ostacoli alla concorrenza tra candidati servirebbe comunque. In questo modo le facolta' che adottano criteri familistici avrebbero meno alibi. La scelta di un "interno" mediocre in presenza di molti candidati "esterni" (ai quali non puo' essere sbattuta la porta in faccia solo per motivi "tecnici") renderebbe piu' vistoso lo scandalo e piu' chiare le responsabilita'.

08-06-2006
L'accademia che piace a Confindustria
Giovanni Dosi
Mauro Sylos Labini


Confindustria e le più importanti associazioni degli imprenditori hanno firmato lo scorso 21 marzo un "Documento comune sull’università". Il fatto che il mondo produttivo si interessi allo stato di salute del sistema universitario e proponga strategie di riforma è un dato positivo, soprattutto nel nostro paese dove la spesa delle imprese in ricerca e sviluppo è circa la metà della media europea: appena lo 0,43 per cento del Pil rispetto allo 0,95 per cento dell’Unione Europea e in particolare all’1,37 per cento della Germania e all’1,11 per cento della Francia. Anche per questo può essere importante evidenziare, insieme agli aspetti positivi, i punti deboli e alcune ingenuità del documento.

Il meccanismo di finanziamento

Il punto di partenza, assolutamente condivisibile, è che nessuno sembra essere contento dell’università italiana. In particolare, le imprese percepiscono un progressivo deterioramento della qualità della formazione universitaria.
Il documento propone una strategia di riforme articolata in tre punti principali: (1) la valutazione e il finanziamento delle università, (2) la riforma del sistema di governo degli atenei e (3) la differenziazione dello spazio terziario dell’istruzione.
Ci concentriamo qui sul primo punto, che oltre a essere il più importante, è quello affrontato con maggiore precisione.
In Italia, circa il 65 per cento delle entrate del sistema universitario è pubblico, in linea con altri paesi Ocse: in Olanda, per esempio, tale quota è al 65,7 per cento e nel Regno Unito al 60 per cento. La gran parte è erogato dal governo centrale attraverso il Fondo finanziamento ordinario. Il meccanismo attraverso il quale il Fondo viene ripartito fra gli atenei, cambiato dalla legge n. 537/1993, prevede una parte assegnata su base storica, e una quota di riequilibrio che sostanzialmente premia gli atenei capaci di attirare più studenti e di far laureare un numero maggiore dei propri iscritti. Solo recentemente è stato proposto di considerare la produzione scientifica, peraltro utilizzando parametri discutibili, fra le determinanti della quota di riequilibrio. Anche se mancano dati precisi, sembra che finora gli unici effetti delle nuove regole siano stati l’aumento delle spese in pubblicità degli atenei e il progressivo deterioramento degli standard degli insegnamenti. È quindi condivisibile la considerazione centrale della prima parte del documento: occorre "introdurre con gradualità metodi di valutazione dei risultati e delle performance, sulla base del principio che i ‛finanziamenti premiano i risultati’".

Come valutare le università

Per passare da enunciati sui quali è difficile essere in disaccordo a proposte concrete è necessario, però, rispondere ad almeno due domande. Quali sono i risultati da premiare? E, in secondo luogo, a chi deve essere affidata la valutazione?
Le risposte a tali quesiti rappresentano la parte più delicata del documento: "La valutazione deve essere affidata a un organismo indipendente, composto da esperti in campo scientifico e tecnologico, provenienti dal mondo accademico e produttivo, italiani e stranieri". Non ci sono dubbi sul fatto che le università debbano essere valutate da un organismo non politico composto da scienziati e professori di fama internazionale (molto meglio se stranieri). Non è chiaro però perché nella maggior parte delle discipline debbano esserci esperti del mondo produttivo. È difficile infatti che un imprenditore (o un sindacalista) possegga le competenze per valutare la produzione scientifica delle università. Chiedere a uno scienziato un parere vincolante sulla qualità di un prodotto commerciale non è forse il modo migliore per far aumentare i profitti di un’impresa. Simmetricamente è almeno altrettanto paradossale chiedere a un imprenditore un giudizio sulla produzione scientifica in biologia molecolare, fisica teorica, per non parlare di filosofia o letteratura. I risultati ottenuti dalla Luiss, università vicina a Confindustria, nella valutazione della ricerca, sembrano confermare il nostro scetticismo. L’importante ruolo del mondo produttivo nei paesi nei quali le relazioni fra università e impresa funzionano bene non è quello di far parte di commissioni di valutazione. Potrebbe e dovrebbe essere invece quello di selezionare e assumere i laureati che provengono dalle università che offrono una migliore preparazione. In questo gli imprenditori possiedono, o almeno dovrebbero possedere, qualche "vantaggio comparato".
Per quel che riguarda i risultati da premiare, il documento per prima cosa distingue giustamente fra le due funzioni istituzionali dell’università: "I criteri coi quali valutare l’attività di ricerca devono comprendere sia la rilevanza scientifica sia le potenziali ricadute sul sistema socioeconomico (brevetti, licenze, applicazioni pratiche dei risultati)"; "I criteri per la valutazione delle attività didattiche devono basarsi su parametri qualitativi e quantitativi che debbono essere resi previamente pubblici (...)".
Il punto che riguarda la didattica è abbastanza generico da essere incontrovertibile (anche se non è chiarissimo cosa siano i parametri qualitativi). La parte relativa alla ricerca, invece, può risultare fuorviante quando si provano a individuare criteri diversi dall’eccellenza scientifica. È sicuramente auspicabile infatti che le scoperte scientifiche abbiano delle ricadute sul sistema socioeconomico. Il problema principale è che la storia della scienza e della tecnologia insegnano che queste ricadute sono molto spesso imprevedibili e si manifestano con grandi ritardi temporali. Oltretutto, persino se si verificano immediatamente, valutarle con parametri oggettivi è quasi impossibile. Infatti, anche ammesso che sia desiderabile incentivare la ricerca in aree del sapere nelle quali si producono più brevetti o prototipi - cosa nella quale crediamo pochissimo -, questi ultimi rappresentano solo una piccolissima parte dell’impatto che le università hanno sul sistema produttivo. (1)
Il documento compie un passo ulteriore: gli "atenei e gli enti pubblici di ricerca devono essere valutati sulla base della loro capacità di collaborare con il sistema produttivo e per le attività di trasferimento tecnologico che realizzano". Le perplessità esposte nel paragrafo precedente si applicano con ancora più forza a quest’ultimo punto, che sembra definire un nuovo compito istituzionale delle università: collaborare con le imprese e trasferire tecnologie. Tali collaborazioni, sicuramente un fattore positivo per lo sviluppo economico, non possono però essere oggetto di valutazione. Sarebbe come chiedere alle imprese di non pensare a fare profitti, ma di pubblicare su riviste internazionali di fisica teorica o di matematica.
Il trasferimento tecnologico si realizza se le imprese individuano opportunità tecnologiche nelle aree del sapere più vicine ai loro interessi di ricerca applicata, decidono di finanziare progetti e dottorati di ricerca, e più in generale sviluppano capacità di selezione e assorbimento di dottorati top level. In questo modo, le imprese traggono i principali vantaggi assumendo buoni ricercatori in grado di sviluppare innovazioni di processo e di prodotto profittevoli. Al contrario, università incentivate, peraltro con soldi pubblici, a offrire consulenze a basso costo non fanno bene né alla ricerca né all’impresa.
Ormai c'è una deriva lamentata anche dalle grandi imprese internazionali: troppa attenzione agli interessi tecnologici di breve periodo del mondo produttivo fa male alle imprese stesse. L'università deve fare un altro mestiere. Ma deve farlo bene. E in Italia, finora, non è stato così.

(1) Mansfield, E. (1995) "Academic Research Underlying Industrial Innovations: Sources, Characteristics, and Financing", The Review of Economics and Statistics, 77(1), 55-65.
 









Postato il Venerdì, 09 giugno 2006 ore 19:37:01 CEST di Salvatore Indelicato
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