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Dirigenti Scolastici: I rinnovi contrattuali 2002-05 nelle 8 aree dirigenziali pubbliche.

Ministero Istruzione e Università

I rinnovi contrattuali nelle 8 aree dirigenziali pubbliche.

AREA 1

CCNL Dirigenti dei Ministeri e delle Amministrazioni Autonome dello Stato - Area I^
Oggi l 21-04-2006all'ARAN firma definitiva del CCNL della dirigenza dell'Area I^- quadriennio normativo 2002/2005, I^ e II^ biennio economico, 2002/03 e 2004/05
 

AREA VI


19-04-2006 . CCNL Area VI - quadriennio 2002/2005. Firmata l’ipotesi di accordo.
Oggetto: CCNL Area VI - quadriennio 2002/2005. Firmata l’ipotesi di accordo.
Ieri, 18 aprile 2006, a quattro anni e quattro mesi dalla scadenza è stata firmata l’ipotesi del CCNL dirigenza EPNE e Agenzie fiscali.
Questi i benefici contrattuali:
1) STIPENDIO TABELLARE
a) DIRIGENTI I^ FASCIA AGENZIE FISCALI E EPNE - incrementi mensili per 13 mensilità di € 102,00 dal 1° gennaio 2002 + € 108,00 dal 1° gennaio 2003 + € 69,00 dal 1° gennaio 2004 + € 111,00 dal 1° gennaio 2005;
b) DIRIGENTI II^ FASCIA EPNE E AGENZIE FISCALI - incrementi mensili per 13 mensilità di € 86,00 dal 1° gennaio 2002 + € 79,00 dal 1° gennaio 2003 + € 60,00 dal 1° gennaio 2004 + € 81,00 dal 1° gennaio 2005;
c) MEDICI E PROFESSIONISTI EPNE - incrementi mensili per 13 mensilità di € 78,50 dal 1° gennaio 2002 + € 73,40 dal 1° gennaio 2003 + € 52,70 dal 1° gennaio 2004 + € 76,00 dal 1° gennaio 2005.
2) RETRIBUZIONE PARTE VARIABILE
Per quanto riguarda le retribuzioni di posizione e di risultato sono previsti incrementi dei fondi in modo diversificato per gli appartenenti alle diverse aree ed amministrazioni (EPNE e Agenzie fiscali) nei limiti percentuali allineati a quelli delle altre aree della dirigenza i cui contratti sono stati già sottoscritti.
3) PER I PROFESSIONISITI, IN PARTICOLARE, la nostra organizzazione si è battuta per ottenere il conglobamento dell’indennità integrativa speciale al 100% nella retribuzione base sia per i medici e sia per gli altri professionisti.
Per i professionisti è stata adeguata la disciplina per i passaggi nei livelli professionali e sono stati ridotti i tempi di percorrenza per il conseguimento della fascia superiore.
Non è stato possibile rivisitare completamente l’assetto retributivo dei professionisti partendo da un'unica fascia stipendiale a causa della scarsità delle risorse disponibile.
Il contratto ha rivisto al meglio i contingentamenti nelle fasce e dà certezza sulle epoche di passaggio.
All’interno degli enti grande rilievo acquisterà il confronto con le organizzazioni rappresentative.
Ci auguriamo che i professionisti apprezzino l’opera della nostra organizzazione dando più peso e voce alla categoria rafforzando la nostra rappresentanza.
Seguirà l’invio, in formato elettronico, dell’ipotesi sottoscritta non appena ci perverrà da ARAN.

AREA VIII


CCNL - Dirigenti della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Area VIII
Oggi  13-04-2006 all'ARAN è stato firmato il CCNL dei Dirigenti della Presidenza del Consiglio dei Ministri relativo al quadriennio normativo 2002/2005 e I° e II° biennio economico.

AREA V


Del 12-04-2006 CCNL - Dirigenza Scolastica - Area V
Anche l'area V è giunta al traguardo e ieri 11 aprile, dopo un percorso travagliato, è stato definitivamente sottoscritto all'ARAN il CCNL della Dirigenza Scolastica, quadriennio normativo 2002/2005 e I° e II° biennio economico.
 

AREA III


10-03-2006 CCNL - Dirigenza medica, professionale, tecnica e amministrativa - Area III
Ieri 9 marzo, dopo lunghe trattative, è stata siglata all'ARAN l'ipotesi di accordo del CCNL dei dirigenti dell'Area III (Dirigenza medica, professionale, tecnica e amministrativa)relativa al II biennio economico 2004-2005.
Alcune sigle sindacali non hanno sottoscritto l'ipotesi.

AREA II


22-02-2006 CCNL - Dirigenti Enti Locali- Area II.
Oggi 22-02-2006 è stato finalmente firmato il CCNL dei dirigenti delle Regioni e degli Enti Locali quadriennio normativo 2002-2005 primo biennio economico 2002-2003.

 

La FP CIDA- costituita il 5 marzo 1962 come FENDEP- è la Federazione Nazionale dei dirigenti e delle alte professionalità della Funzione Pubblica, aderente alla CIDA (Confederazione Italiana Dirigenti d’Azienda). La Federazione è composta da Associazioni e Unioni Sindacali che coprono le seguenti aree:
dirigenti degli organi a rilevanza costituzionale
dirigenti dei Ministeri
dirigenti degli Enti pubblici non economici
dirigenti degli Enti regione e degli Enti locali
dirigenti delle Aziende ad ordinamento autonomo
dirigenti del Servizio Sanitario Nazionale
dirigenti e ricercatori degli Enti di ricerca
dirigenti degli Istituti Scolastici
dirigenti delle Università
dirigenti dei Consorzi industriali
dirigenti degli Enti previdenziali privatizzati
dirigenti del CONI
dirigenti dell'ENAC
dirigenti della SIAE
Carriera Diplomatica
Carriera Prefettizia
quadri delle amministrazioni pubbliche
La Federazione, con le Associazioni e le Unioni aderenti, grazie all’elevato livello di rappresentatività, costituisce la principale espressione sindacale della dirigenza e delle alte professionalità pubbliche, realizzandone, attraverso le proprie iniziative e l’attività contrattuale, le richieste di innovazione e miglioramento. Inoltre, pienamente integrata nell’attività della Confederazione, ai cui organismi dirigenti partecipa insieme alle altre Federazioni di categoria, la Federazione prende parte ai confronti tra il Governo e le parti sociali sulle politiche sociali, fiscali, previdenziali e del lavoro.
La Federazione, in armonia con i principi associativi confederali, è apartitica. Oltre alla difesa del ruolo e della condizione di lavoro delle categorie rappresentate, cura la crescita del patrimonio culturale e conoscitivo degli associati nell'ottica di una pubblica amministrazione improntata ai canoni costituzionali dell’imparzialità e del buon andamento.
La Federazione è socio fondatore della FECSEP (Federazione Europea dei Dirigenti e quadri delle Pubbliche Amministrazioni), aderente alla CEC (Confederazione Europea di Dirigenti e Quadri).
Della CEC la Federazione esprime l’attuale Presidente nella persona di Maurizio Angelo. In sintonia con il contesto europeo e, nel quadro del rafforzamento della rappresentanza del lavoro intellettuale, associa anche quadri direttivi e professionisti dipendenti.
La Federazione, inoltre, tutela gli interessi dei dirigenti in pensione, i quali possono iscriversi alle Associazioni oppure all'ANDIP.

Documento CIDA: "La responsabilità dei dirigenti al servizio del Paese"..

 CONFEDERAZIONE ITALIANA DIRIGENTI E ALTE PROFESSIONALITA’
Traccia di documento di lavoro aperto ai contributi delle organizzazioni aderenti
Marzo 2006

La responsabilità dei dirigenti al servizio del Paese
Premessa …pag. 3
1. Per un nuovo welfare state
1.1. Previdenza e stato sociale … pag. 5
1.1.1 Rivalutazione delle pensioni … pag. 5
1.1.2 Pensioni di reversibilità e divieto di cumulo … pag. 6
1.1.3 Previdenza complementare … pag. 6
1.2. Riforma degli ammortizzatori sociali … pag. 7
1.3. Un servizio sanitario efficiente … pag. 8
1.4. Per una nuova politica fiscale … pag. 9
1.5. Puntare su ricerca e innovazione … pag. 11
1.6. Costruire la società della conoscenza: rilanciare il ruolo strategico dell’Università … pag. 12
2. Le criticità da aggredire per rilanciare lo sviluppo del sistema Paese … pag. 13
3. Pubblica Amministrazione
3.1. La situazione attuale … pag. 14
3.2. Le innovazioni possibili … pag. 15
4. Una strategia di attacco per lo sviluppo della competitività
4.1 Una nuova politica industriale … pag. 16
4.1.1 Infrastrutture e logistica … pag. 16
4.1.2 Energia … pag. 18
4.1.3 Trasporto pubblico locale … pag. 19
4.2 Ricominciare a crescere: incentivi fiscali mirati e selettivi per le imprese … pag. 20
4.3 Valorizzare la risorsa manageriale nel Mezzogiorno … pag. 21
4.4 Liberalizzazioni e riforme a costo zero … pag. 22
5. Per una vera concertazione e nuovi assetti contrattuali
5.1. Rapporti Governo/Parti Sociali … pag. 22
5.2. Riforma della contrattazione … pag. 23
5.2.1 Il settore pubblico … pag. 23

Premessa

E' indubbio che occorra, nel breve periodo, attuare ulteriori interventi in materia di welfare. V'è su questo argomento un consenso diffuso, anche se sugli orientamenti e sugli interventi specifici si registrano divergenze.
La CIDA, quale espressione dei dirigenti e delle alte professionalità, ritiene che tale sfida non possa essere elusa. La questione va affrontata con trasparenza, coraggio ed attitudine orientata ad una visione strategica dello sviluppo sociale ed economico del paese, che oggi passa soprattutto e preliminarmente per il contenimento stabile del deficit pubblico. E' per questo motivo che le diverse proposte che la CIDA presenta sono state determinate nel rispetto del più generale obiettivo condiviso del riequilibrio dei conti pubblici; c'è piena fiducia nel fatto che, una volta affrontati correttamente i problemi, se ne trarranno vantaggi per tutti.
L’operazione più ardua è in questa prospettiva proprio quella di individuare specificamente gli interventi. Per realizzare con successo questa iniziativa occorre preliminarmente definire il quadro dei principi, degli obiettivi e dei valori che debbono ispirare l'azione politica Occorre, in primo luogo, ispirare la riforma ad un corretto rapporto tra "bisogni" e "meriti". Le trasformazioni sociali, demografiche ed economiche degli ultimi decenni hanno cambiato la natura dei rapporti sociali e le esigenze che da questi promanano. Sono emerse nuove povertà, nuove esigenze di assistenza e differenti divaricazioni di ceto. Lo stato sociale che oggi si deve riformare è un'aggregazione disomogenea di misure che ambiscono a garantire tutto a tutti, ma che in realtà lasciano scoperti propri i ceti ed i settori che più avrebbero bisogno di supporto. La nuova riforma deve essere fondata sulla selezione dei bisogni effettivi, sul riequilibrio della spesa sociale e sul riconoscimento dei meriti. I meriti non possono essere disattesi, in quanto la loro mortificazione scoraggerebbe sviluppo, imprenditorialità e partecipazione.
Un secondo principio è quello concernente la necessità di coniugare l'universalismo dello stato sociale con la libertà dei singoli, famiglie e lavoratori, di qualsiasi grado e settore, e delle imprese. Universalità delle garanzie non può significare omogeneizzazione coatta oppure eguaglianza formale per decreto. Deve, invece, significare capacità di assicurare a tutta la cittadinanza una base essenziale di diritti sociali come prerequisito ad una corretta partecipazione al vivere sociale ed economico.
L’universalità, in sostanza, deve essere un veicolo e, cioè, uno strumento di opportunità e non una gabbia di rigidità formali e costose che pregiudicano lo sviluppo sociale ed economico. Va, quindi, riconosciuta in questo quadro una piena legittimità alle istanze e alle specifiche esigenze delle fasce sociali e delle diverse categorie. Nell'ottemperare alle regole generali e nell'adempiere ai doveri fiscali, le categorie debbono poter usufruire di tutti gli ambiti di autonomia decisionale e progettuale. Se si soddisfa questa esigenza, ne consegue un vantaggio per tutti, in quanto non si mortifica l'interesse ad una partecipazione democratica e produttiva dei molteplici soggetti sociali.
Il terzo principio che deve ispirare gli interventi sul welfare è quello di una più elevata valorizzazione del “mercato”.
Questo significa che in ogni materia di intervento sociale, sia che si tratti di disoccupazione che di pensioni, sia che riguardi la sanità che l'assistenza, l'intervento non deve incentivare l'intrapresa di comportamenti individuali e collettivi che alimentano mentalità e propensioni assistenzialistiche.
In pratica, questo principio implica, ad esempio, pensioni commisurate alla contribuzione, sostegno alla disoccupazione che incentivi la ricerca del lavoro e l'imprenditorialità dei singoli, politiche del lavoro che siano effettivamente efficaci nell'assistere i periodi di transizione e di ricollocazione occupazionale, riorganizzazione dell'assistenza sanitaria lungo un asse di distinzione tra garanzie sanitarie di base e libertà di autorganizzazione dei gruppi, sinergia tra sistema dell'istruzione e formazione continua affinché il processo di apprendimento sia un dato continuo lungo tutto il ciclo della vita attiva.
Infine, un quarto principio è quello della riforma della pubblica amministrazione che ne muti radicalmente la filosofia ispiratrice, attribuendo ad essa la missione essenziale del soddisfacimento dei bisogni del cittadino, e realizzando con ciò una coerenza complessiva con la tutela degli altri bisogni sanitari, previdenziali, scolastico - formativi, occupazionali, ecc.
La CIDA ritiene, in sostanza, che una nuova riforma così orientata, possa alla fine produrre uno Stato sociale più equo, efficiente e meno oneroso, e cioè uno stato sociale che sappia modificare profondamente la sua composizione interna e la sua capacità di raggiungere gli obiettivi perseguiti, ed allo stesso tempo sappia farlo con un ammontare di risorse complessive compatibile con i vincoli di finanza pubblica e del debito pubblico progresso. In tale contesto, va assolutamente valorizzato il ruolo che può svolgere una netta riduzione dell'estesa area di evasione fiscale e contributiva italiana.
Lo Stato sociale deve configurarsi come veicolo di crescita del "capitale umano e sociale" che rappresenta il vero e fondamentale investimento per il futuro.
Nel quadro di questi principi e riferimenti valoriali, nelle pagine seguenti, per ogni area dello stato sociale, si descrivono i principi ispiratori e le misure di intervento elaborate dalla CIDA nell'ottica di una politica pubblica orientata sia agli interessi della collettività nel suo insieme, sia a quelli legittimi delle parti che la compongono.
La CIDA è pronta, per la sua parte, a impegnarsi a declinare efficacemente il progetto di rilancio del Paese (che implica anche una strategia coraggiosa per il rilancio della competitività) nella consapevolezza che essa rappresenta quei soggetti (dirigenti, quadri e alte professionalità) che, in azienda e nei luoghi di lavoro, costituiscono lo snodo cruciale di tutti gli stakeholders dell’impresa.
In un progetto di rilancio della competitività, di cui evidentemente non ci sfugge l’importanza, è fondamentale un contemperamento adeguato dello sviluppo con la coesione sociale. In questo quadro non è eludibile la revisione delle regole della concertazione e degli assetti contrattuali con il nuovo contesto economico.

1. Per un nuovo welfare state

I cambiamenti economici e sociali intervenuti negli ultimi anni hanno evidenziato l’esigenza di un profondo ripensamento ed adattamento del nostro sistema di Welfare. In definitiva si tratta di garantire risposte nuove ai nuovi bisogni, nella consapevolezza che è necessario procedere, in un’ottica di sostenibilità di lungo periodo, ad una selettività nella erogazione delle prestazioni di welfare, soprattutto per quanto riguarda previdenza, sanità e interventi socio-assistenziali.

1.1 Previdenza e stato sociale

La riforma pensionistica è ormai da molti anni al centro del dibattito. I termini del problema sono noti.
Le riforme radicali della previdenza, di cui l’ultima varata da pochi mesi, sono state finalizzate a garantire l’equilibrio del sistema.
La CIDA non ha mai negato la necessità di apportare i necessari correttivi all’ordinamento. Ha insistito, però, affinché tali correttivi non si muovessero solo in un’ottica di sostenibilità finanziaria, seguendo anche una logica di equità e di crescita.
La riforma del sistema pensionistico, pertanto, dovrebbe:
 realizzare una effettiva separazione della previdenza dall’assistenza;
 mantenere una solidarietà compatibile sia con le esigenze di universalismo che con le scelte individuali;
 adattarsi alle mutate tendenze del mercato del lavoro avendo una massima flessibilità delle opzioni relative all’età di pensionamento, in un quadro di coerenza attuariale fondata sul sistema contributivo;
 attenuare gli squilibri inter-generazionali (giovani-anziani) e intra-generazionali (tra categorie di lavoratori).


1.1.1 Rivalutazione delle pensioni

Per quanto riguarda le iniquità da eliminare, la più grave è rappresentata dall’attuale sistema di perequazione parziale delle pensioni .
Siffatto meccanismo, in presenza di un ancora significativo andamento inflazionistico, porta inesorabilmente ad un appiattimento dei trattamenti pensionistici verso quelli di importo più basso, nonché ad una ingiusta ed inaccettabile mancata conservazione del potere d’acquisto delle pensioni medio-alte, dando luogo ad effetti gravemente distorsivi e iniqui nei confronti degli interessati.
Si rende necessario, pertanto, prevedere un meccanismo di piena indicizzazione di tutte le pensioni, al fine di conservare nel tempo il potere d’acquisto di soggetti che non sono più in grado di porre altrimenti rimedio a tale perdita, anche per effetto della mancata restituzione del fiscal drag e dello sganciamento dalla dinamica retributiva.
Per la CIDA, le pensioni vanno, in definitiva, agganciate alla dinamica dei salari ed all’andamento dell’inflazione reale. In questo senso l’indice inflattivo andrebbe progressivamente reso più aderente agli effettivi consumi dei pensionati.

1.1.2 Pensioni di reversibilità e divieto di cumulo

E’ necessario eliminare le riduzioni alle pensioni di reversibilità in funzione dei redditi personali dei beneficiari. Andrebbe quanto meno riconosciuto al superstite un trattamento non inferiore a quello pieno, calcolato con il metodo contributivo. E ciò in quanto si è finora operata una penalizzazione che avrebbe avuto senso se l’istituto anziché natura pensionistica, ne avesse avuta una assistenziale e fosse stato strettamente collegato ad uno stato di bisogno. Così invece, evidentemente, non è essendo la pensione la risultante dei contributi versati, spesso anche in modo volontario, per cui è assurdo considerare la prestazione di tipo assistenziale.
Occorre, inoltre, pervenire alla totale e definitiva eliminazione di ogni residuo divieto di cumulo che limita l’utilizzo di preziose professionalità. Non è infatti vero che se si impedisce il cumulo si favorisce l’occupazione. Non esiste una relazione fra divieto di cumulo e la possibilità di incremento dell’occupazione per i giovani. La penalizzazione del cumulo ha creato, anzi, solo problemi e non ha prodotto nemmeno un posto di lavoro.


1.1.3 Previdenza complementare

In uno scenario che prefigura, con la piena andata a regime della riforma, trattamenti obbligatori decisamente più ridotti, occorre incentivare, da subito (senza aspettare il 2008) la previdenza complementare, soprattutto a beneficio delle giovani generazioni.
Lo sviluppo della previdenza complementare, peraltro, avrebbe significative ricadute positive sul processo di accumulazione del sistema, canalizzando rilevanti flussi di risorse per gli investimenti, così come avviene nei principali Paesi industrializzati (USA e Gran Bretagna in testa).

In relazione alla previdenza complementare, è urgente l’adozione di ulteriori incentivi fiscali (in aggiunta a quelli recentemente introdotti), al fine di porre rimedio alla progressiva riduzione, per i più giovani, delle prestazioni a carico della previdenza pubblica (determinata anche da ragioni demografiche). Le agevolazioni previste, anche di recente, sono da considerarsi inadeguate.
Per un reale decollo del secondo pilastro occorre, infatti, migliorare decisamente il regime fiscale della previdenza complementare, eliminando progressivamente qualsiasi limite alla deducibilità dei contributi versati (sia in cifra fissa, che in percentuale).
Se è vero che la previdenza complementare può costituire una adeguata compensazione ai minori trattamenti della previdenza obbligatoria, è altrettanto incontestabile che l’aumento dell’età pensionabile dovrebbe essere accompagnato da un serio sistema di ammortizzatori sociali. E’ questo uno dei motivi per cui la CIDA sostiene la necessità di correttivi alla riforma previdenziale nell’ambito del più generale riassetto del Welfare. Infatti previdenza e misure per garantire l’occupazione sono problemi strettamente correlati.
Va segnalata, infine, allo scopo di un suo urgente avvio a soluzione, la grave questione relativa alla previdenza complementare nel settore del pubblico impiego, dove, ad oggi, nessuna forma di previdenza complementare risulta ancora operativa soprattutto a causa di scarsissime risorse disponibili. Occorrerebbe, pertanto, predisporre al più presto un piano per reperire, sia pure con gradualità, le maggiori risorse necessarie.


1.2 Riforma degli ammortizzatori sociali

Le politiche per l’occupazione e gli ammortizzatori sociali sono strettamente integrate con le altre componenti di intervento, ed in particolare con il sistema previdenziale, con la formazione, con il fisco.
Per quanto riguarda gli strumenti di tutela, è sempre più necessario introdurre misure di integrazione del reddito e di reinserimento al lavoro, specie per generazioni e professioni che, se espulse dal mercato del lavoro, avrebbero maggiori difficoltà a rientrare. Le misure di protezione dal “rischio disoccupazione” certe e automatiche potrebbero favorire l’accettazione sociale di un mercato del lavoro con regole più flessibili, perciò più idonee a mercati globali e competitivi.

La pensione di anzianità, finora, ha rappresentato un ammortizzatore sociale in caso di uscita anticipata dal ciclo produttivo. Ora l’aumento dei requisiti per la pensione potrebbe determinare seri problemi sociali, in caso di assenza di adeguati ammortizzatori, e ciò vale in primo luogo per i dirigenti e per le alte professionalità, soprattutto della fascia d’età più anziana.
Questi ultimi corrono il rischio di essere lasciati senza reddito (né da pensione né da lavoro).
Appare urgente, pertanto, anche in considerazione dell’attuale situazione di crisi del mercato del lavoro, una revisione del sistema degli ammortizzatori che dovrebbe essere impostata secondo i seguenti principi:
 Semplificazione delle procedure per il riconoscimento degli ammortizzatori sociali;
 Rafforzamento ed estensione degli ammortizzatori a tutte le categorie dei lavoratori con particolare attenzione a quelle oggi scarsamente protette o prive di copertura dei trattamenti di disoccupazione;
 Collegamento degli ammortizzatori ad iniziative di formazione professionale finalizzate al reinserimento.
In tale quadro occorre prevedere l’istituzione di misure di sostegno del reddito per le categorie dei dirigenti e dei lavoratori ad alta professionalità che risultano spesso quelle più esposte al rischio di perdita dell’occupazione non godendo della stabilità reale del posto di lavoro.
In realtà, i dirigenti sono soggetti all’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione, versando a questo titolo un contributo pari all’1,61% e sono destinatari della relativa indennità ordinaria la quale però, per effetto del plafonamento in cifra di euro 1.750 circa mensili, risulta per la categoria assolutamente inadeguata rappresentando circa il 25% della retribuzione media di fatto.
Occorrerebbe, quindi, in primo luogo elevare la cifra dell’indennità di disoccupazione ordinaria, correlandola all’importo dei minimi contrattuali (si potrebbe utilizzare a questo fine, quale ulteriore fonte di finanziamento, il contributo dello 0.30% destinato alla copertura dell’indennità di mobilità dalla quale, come detto, i dirigenti sono esclusi per legge), e in secondo luogo, definire un trattamento di disoccupazione ad hoc per i dirigenti, strettamente collegato alla partecipazione a corsi di formazione/aggiornamento.

1.3 Un servizio sanitario efficiente

I criteri principali di riforma del settore sanitario non possono eludere il rispetto della solidarietà. Questa deve essere comunque coniugata con una maggiore efficienza allocativa e produttiva, al cui interno dovrebbe essere dato effettivo spazio alla libertà di scelta dei cittadini. L’erogazione dei servizi dovrebbe essere fondata sulla concorrenza, in un’ottica di integrazione paritaria nell’ambito della programmazione nazionale, fra il settore pubblico e quello privato, di una maggiore efficienza e di una piena attuazione della libertà di scelta da parte dell’utente.

Il vero problema del SSN è il finanziamento della spesa, questione particolarmente delicata in un sistema, come il nostro, con una finanza pubblica in forte difficoltà.
A tale fine è necessario definire strategie in grado di affrontare l’esigenza di approntare risorse adeguate da destinare al settore sanitario per garantire efficacia, appropriatezza e qualità delle prestazioni.
Parallelamente, però, è necessario completare il processo di riorganizzazione del servizio sanitario. Un percorso iniziato da molti anni con l’obiettivo di realizzare una rete di servizi sul territorio, ma che non sta procedendo in maniera adeguata.
È necessario puntare ad un sistema in grado di garantire i livelli di assistenza sanitaria e sociosanitaria, quali diritti essenziali, uniformi ed esigibili in tutto il territorio nazionale, prevedendo anche eventuali forme di compartecipazioni alla spesa. Per questo, è indispensabile che l’introduzione del federalismo, quantomeno, non aumenti le differenze regionali e metta a rischio le garanzie dei cittadini.
Sarebbe necessario, inoltre, aprire spazi a tutta una gamma di forme integrative, alla mutualità e al privato sociale: che non devono sostituire ma, risultare invece, complementari ai servizi essenziali.
In questo contesto appare importante, non solo confermare gli attuali limiti di deducibilità fiscale, per i contributi versati ai fondi integrativi previsti dalla contrattazione collettiva (così come ha fatto la Finanziaria 2006), ma anzi, incrementarli adeguatamente per incentivare tutti quegli enti che rivestono un’evidente finalità sociale con notevoli benefici anche per il servizio pubblico.

1.4 Per una nuova politica fiscale

L’Italia ha bisogno di un sistema fiscale chiaro, semplice e trasparente, in linea con gli altri Paesi europei.
La crisi di finanza pubblica e l’evoluzione strutturale dell’economia mondiale rendono ancora più pesanti gli effetti negativi del nostro sistema fiscale, ed urgente perciò un processo di riforma.
Anche l’indilazionabile riforma delle Stato Sociale ha molteplici e strette correlazioni con il sistema fiscale: si pensi all’erogazione selettiva della spesa sociale sulla base della capacità contributiva dei nuclei familiari, oggi di incerta e distorta determinazione proprio a causa dell’ampio fenomeno di evasione, elusione, ed erosione fiscale; oppure l’abnorme ampiezza del cuneo fiscale e contributivo, che ha ricadute negative sull’occupazione.
Le politiche di bilancio, dovranno essere in grado di ridurre il rapporto debito/PIL (per consentire al sistema di spesa sociale di prepararsi ad affrontare gli oneri derivanti da un maggiore invecchiamento della popolazione).

Una politica fiscale innovativa si persegue anche attraverso un federalismo fiscale che costituisce un’opportunità per una corretta politica di bilancio e di sviluppo di ogni singolo territorio.
Con una revisione del Patto di stabilità interno, si potrebbe consentire agli Enti Locali e alle Regioni una maggiore autonomia nella formulazione dei budget che tenga conto però degli obiettivi generali delle politiche di bilancio nazionali. Tale cooperazione avrà anche l’ulteriore vantaggio di una maggiore collaborazione tra centro e periferia nella determinazione delle politiche sociali e nella ripartizione dei loro oneri.
Il federalismo, quindi, non deve tradursi in oneri aggiuntivi per i cittadini e per le imprese. Occorre scongiurare il rischio che esso si trasformi in un ulteriore aggravio per le finanze pubbliche invece che in un fattore che contribuisca ad un maggior sviluppo. Finora, si è assistito, infatti, solo ad un aumento dei costi per la finanza pubblica, con l’aggravante di una confusione di competenze. C’era l’aspettativa che con l’autonomia fiscale si sarebbe avuta una tendenziale riduzione delle tasse, invece il risultato è stato quello di drenare più risorse e di moltiplicare apparati sempre più costosi.
Per quanto riguarda, gli interventi fiscali a favore dello sviluppo del Paese, va detto che, sebbene siano sempre in agguato interventi indesiderati ed estemporanei, sotto forma di una-tantum e anticipi d’imposta, si delinea il possibile perseguimento di obiettivi di riforma fiscale che possono essere così riassunti:
 Restringimento delle possibilità di evasione ed elusione fiscale, in modo da accrescere il gettito senza alzare le aliquote formali, ed in prospettiva abbassandole;
 Riduzione del costo del lavoro e del cuneo fiscale a parità di retribuzione netta, al fine di accrescere l’occupazione e ripristinare la neutralità di scelta tra capitale e lavoro mediante: Abolizione dei contributi sanitari (già inglobati nell’IRAP); Riconduzione alla fiscalità generale indiretta, degli oneri sociali diversi dalla previdenza e TFR (nella fase transitoria nessuna categoria, ed i dirigenti in particolare, dovrebbe essere esclusa dalle prestazioni finanziate dai vari contributi sociali); Graduale riduzione delle aliquote contributive previdenziali (oggi gravanti sul lavoro dipendente) per i giovani neo assunti; Aliquote contributive ridotte a prescindere dalla condizione di lavoratore dipendete o autonomo (specie per i giovani neo assunti e per gli anziani oltre i sessant’anni); Particolari agevolazioni fiscali e contributive per la riduzione degli orari di lavoro demandata alla libera contrattazione tra le parti;
 Maggiore trasparenza del sistema fiscale, anche attraverso la sostituzione di imposte deducibili con imposte indeducibili;
 Semplificazione del sistema, anche attraverso l’accorpamento degli adempimenti;
 Riduzione della progressività ed estensione delle basi imponibili nel quadro di un mantenimento dell’azione allocativa e redistributiva pubblica: si potrebbe ipotizzare innanzitutto una base imponibile IRAP che non comprendesse gli oneri sociali a carico delle imprese. Ciò comporterebbe una significativa discesa del costo del lavoro a parità di retribuzioni nette, ma anche un innalzamento dell’aliquota IRAP (oppure una diminuzione complessiva del prelievo sulle imprese da compensare con altri prelievi, sui consumi o sui redditi variamente definiti) e in secondo luogo una riforma dell’IRE al fine di accrescere sia l’incentivo al lavoro, sia il rientro dai fenomeni evasivi ed elusivi;
 Neutralità del sistema rispetto alle scelte produttive delle imprese;
 Stretto collegamento tra contributi sociali e prestazioni, e quindi eliminazione delle situazioni incongrue sotto questo profilo.

1.5 Puntare su ricerca e innovazione

Bisogna passare dalla volontà da tutti ostentata di puntare fortemente sulla ricerca e sull’innovazione, un settore che ci ha visto e purtroppo continua a vederci fanalino di coda in Europa, ad azioni concrete che vadano nella direzione degli obiettivi di Lisbona (spesa per ricerca pari, fra impegno pubblico e privato, al 3% del PIL).
E’ indubbio che si tratta di un obiettivo molto ambizioso, ma non per questo da considerare velleitario. Esso presuppone precise scelte di priorità e il superamento degli incentivi a pioggia che rappresentano un’allocazione inefficiente e dispersiva per la finanza pubblica.

In Italia il legame tra ricerca e industria e tra ricerca e mercato è tuttora debole. Gli investimenti pubblici e privati nella R&S sono trascurabili. Sopravvive ancora lo scollamento tra università e imprese, tra centri di ricerca e aziende. Il gap tra l’Italia, i Paesi dell’Ue e gli Stati membri dell’Ocse rischia di aumentare con l’avvento del nuovo sistema sociale ed economico definito dagli esperti, della “conoscenza”, i cui fattori di vantaggio per le imprese si basano sulle capacità tecnologiche e sulle competenze umane.
Si parla oggi di “knowledge – based business”, attività economiche basate sulla conoscenza. La Banca Mondiale prospetta tre modelli di sviluppo, tre grandi obiettivi che Usa, Canada, Olanda e Finlandia hanno già da tempo adottato:
 l’acquisizione di conoscenza su scala globale e il suo ritorno su scala locale;
 l’investimento nella ricerca, nelle tecnologie e nelle reti digitali per favorire la circolazione della conoscenza.
 l’investimento nel capitale umano per aumentare la capacità di uso intelligente della conoscenza;
In quest’ottica, investire sulla conoscenza non è più solo un obbligo per chi, dal successo nel mercato, trae i benefici. Ma è anche un compito strategico delle politiche pubbliche che devono sostenere il valore della ricerca come vantaggio nella competizione economica.
E’ importante che le grandi imprese che investono in ricerca e innovazione si colleghino con gli enti pubblici di ricerca per sviluppare programmi comuni, concentrando risorse umane, finanziarie e tecnologiche su obiettivi strategici.
Un più stretto rapporto tra ricerca pubblica e imprese, oltre a rilanciare la competitività del Paese nel contesto internazionale, potrebbe facilitare il trasferimento tecnologico dalle grandi alle piccole e medie imprese e stimolare la capacità di innovazione di tutto il tessuto produttivo italiano.
In quest’ottica sarebbe necessario promuovere un impegno straordinario per l’inserimento di giovani ricercatori (con rilevanti decontribuzioni per almeno un triennio) al fine di recuperare il gap quantitativo che ci separa dagli altri Paesi sviluppati.
Un significativo potenziamento degli organici che, ferma restando la necessità di garantire una selezione basata sul merito, assicuri una crescita delle risorse umane capace di accelerare lo sviluppo scientifico e tecnologico del Paese.
Andrebbe, infine, sostenuta e incentivata la mobilità dei ricercatori dal sistema pubblico alle imprese e viceversa per la realizzazione di progetti di ricerca e innovazione, attraverso misure normative e contrattuali che prevedano sia incentivi per le imprese, sia la valorizzazione delle competenze acquisite dal ricercatore in termini retributivi e di carriera.

1.6 Costruire la società della conoscenza: rilanciare il ruolo strategico dell’Università

Il vigoroso sostegno della ricerca di tutti i processi innovativi da attivare per rimettere in moto il Paese presuppone di poter contare, in termini quali-quantitativi, su adeguate risorse umane che esprimano un alto livello di skills professionali.
È un problema che riguarda tutti i canali in cui si articola l’offerta formativa del sistema (scuola di base, formazione professionale, Università).

Bisogna lavorare per azzerare, in un prefissato arco temporale, i gap che affliggono il sistema formativo e ri-orientarlo in direzione di uno sviluppo della dimensione culturale che tenga conto anche della domanda di fabbisogno professionale.
Tale sviluppo dovrebbe esprimersi con l’adeguamento continuo alle esigenze della crescita produttiva e con la qualificata risposta alla domanda sociale sia in termini di occupazione che di sviluppo di carriera (anche attraverso la formazione continua).
Secondo quest’ottica è tempo che si giunga anche ad una ridefinizione esplicita dei compiti che l’Università deve svolgere e delle domande sociali cui deve rispondere nell'attuale scenario internazionale (nuovi rapporti tra scienza-tecnologia-produzione, formazione di qualità per grandi numeri e formazione di eccellenza, cooperazione e competizione internazionale, globalizzazione, ecc.).
Le missioni che il sistema universitario italiano dovrebbe perseguire sono:
 produzione della conoscenza, ricerca (l’università non ha più il monopolio della ricerca, la quale si organizza secondo forme transidisciplinari ed è sempre meno un processo individuale che viene condotto da reti internazionali);
 trasmissione della conoscenza, formazione (la domanda di istruzione si è dilatata quantitativamente e diversificata qualitativamente per l’accresciuta complessità e specializzazione dei saperi e delle professionalità nel mondo del lavoro; l’università deve fare i conti con il paradigma dell’occupabilità, attraverso un confronto continuo con i referenti del sistema sociale e produttivo);
 valorizzazione delle conoscenze e loro trasformazione in risorsa per il territorio (è ormai largamente verificato che l’università è un fattore determinante per lo sviluppo civile economico e sociale della comunità e del territorio).
Al Paese non servono tanti atenei indistinti e generalisti, né Università che non si impegnano allo stesso modo sul versante della ricerca e dell’insegnamento.
La diversificazione tra gli atenei dovrebbe svilupparsi in relazione alle competenze accumulate e a quelle favorite dal tessuto socio-culturale del territorio di riferimento e creare così un’Università di eccellenza capace di esercitare forte attrattività, nel contesto nazionale e internazionale, verso docenti, ricercatori, studenti, investimenti pubblici e privati.
Tale Università dovrà essere in grado di valorizzare e gestire gli spazi di autogoverno rispetto agli obiettivi indicati dallo Stato, essere capace di autovalutarsi e collaborare alla valutazione esterna delle sue prestazioni e soprattutto essere capace di adottare modelli di governance, strutture organizzative e tecniche gestionali proprie delle organizzazioni complesse.
Infine, sarebbe necessario intervenire:
 sul corpo docenti attivando un processo di progressivo abbassamento dell’età media, allo stato troppo elevata;
 sull’aumento della quota di laureati in materie scientifiche, largamente inadeguato rispetto alle esigenze del Paese;
 sugli assetti organizzativi.


2. Le criticità da aggredire per rilanciare lo sviluppo del sistema Paese

I dati relativi alla nostra economia sono molto preoccupanti: diminuisce la crescita del prodotto interno lordo, diminuiscono le entrate, aumentano le spese e il fabbisogno, aumenta l’indebitamento della Pubblica Amministrazione.
E’ chiaro quindi che tutto il quadro di politica economica e sociale richiede profondi cambiamenti.

In una comparazione con altri Paesi avanzati, la deriva italiana si configura in termini preoccupanti sotto il profilo della produttività.
Una incisiva politica economica per lo sviluppo, attuabile nel medio-lungo periodo, dovrebbe focalizzare l’attenzione sulla soluzione di un problema che si è andato aggravando negli ultimi decenni: il fenomeno della bassa crescita.
Ma ci sono ulteriori criticità che frenano notevolmente lo sviluppo del sistema-Paese. Esse sono:

 costo dell’energia;
 infrastrutture;
 cuneo fiscale;
 inadeguato livello di aggiornamento formativo;
 regolamentazione dei mercati;
 eccesso di procedure burocratiche;
 basso numero dei ricercatori.

Non è sorprendente, che tutti questi aspetti finora elencati (determinanti della caduta della produttività e del tasso di innovazione del sistema) si riflettano su un indicatore chiave del grado di competitività del Paese, l’export. Indicatore che registra una consolidata dinamica negativa.

3. Pubblica Amministrazione

L’analisi delle iniziative di riforma amministrativa attuate nell’ultimo decennio mostra con sufficiente chiarezza una linea di tendenza costante verso il decentramento, inteso non solo come lo spostamento di funzioni dallo Stato centrale agli Enti locali, ma come deconcentrazione, anche all’interno dei grandi apparati, verso l’affermazione di una autonomia forte dei centri operativi ed erogatori di servizi, nei confronti del vertice, politico o burocratico, degli apparati stessi.

3.1 La situazione attuale

L’esperienza del Servizio sanitario nazionale, l’affermazione del principio di distinzione tra politica ed amministrazione, con la conseguente autonomia – pur relativa - dei dirigenti nelle funzioni gestionali, l’avvio, ancora problematico, dell’autonomia scolastica, sono le manifestazioni più visibili di una linea evolutiva, che muove dalle piramidi burocratiche tradizionali, costituite di uffici sovraordinati gerarchicamente, verso reti plurilivello di centri autonomi, collegati tra loro funzionalmente, secondo modalità flessibili.
Questa tendenza, tuttavia, si è realizzata solo in parte, e troppo lentamente rispetto alle esigenze imposte dai cambiamenti, profondi e rapidi, implicati dai processi di globalizzazione.

Il quadro attuale delle amministrazioni pubbliche, nel nostro Paese, presenta ancora aree troppo vaste di distorsioni organizzative, di arretratezze burocratiche, di giungle di vincoli procedurali, di situazioni opache, dove privilegi e clientele sconfinano nell’ illegalità.
Sono evidenti le responsabilità dei grandi sindacati del pubblico impiego. Sono chiare, altresì, le responsabilità delle burocrazie, non solo nella resistenza all’innovazione, tipica di ogni apparato consolidato, ma nella complice disponibilità sia verso la politica che nei confronti dei grandi sindacati.
Il nodo, tuttavia, è nella debolezza strutturale della politica, che la induce irresistibilmente alla tentazione dell’uso strumentale degli apparati pubblici, sia per realizzare operazioni di potere rivolte all’esterno dell’ amministrazione, nella società e nell’ economia, sia per distribuire all’interno di questa posti e favori, ed anche diritti, al fine di accrescere il consenso elettorale tra i dipendenti e le clientele, cancellando il confine tra gli uni e le altre, nella disattenzione dell’opinione pubblica.

3.2 Le innovazioni possibili

Le innovazioni proponibili nella Pubblica Amministrazione, ruotano intorno al ripristino di un equilibrio di poteri, all’interno di ogni amministrazione, tra direzione politica, dirigenza amministrativa e corpi professionali, sindacati del personale. Equilibrio non statico, ma dinamico, finalizzato a rivitalizzare ed accelerare la grande corrente dell’ innovazione e del decentramento.

Si è avviata una nuova fase di riforma costituzionale, che vedrà un ulteriore, massiccio, spostamento di funzioni e risorse dal livello statale a quello regionale e locale, mentre le decisioni strategiche vengono assunte sempre più a livello sopranazionale.
In questo contesto, si affievoliscono le separazioni tra diritto comunitario e diritto statuale, e tra diritto pubblico e diritto privato; i rapporti negoziali sostituiscono i rapporti gerarchici, dentro e tra i diversi livelli istituzionali, e nelle relazioni con i grandi soggetti economici e sociali.
Una condizione necessaria per condurre in porto la rivoluzione organizzativa è l’ uso strategico dell’informatica. Ovvero, usare l’IT non solo per dare certificati ai cittadini, ma per riorganizzare strutture e procedure; per connettere le banche dati, incrociando le informazioni ed offrendo ai centri di comando il quadro più completo possibile delle complessità da governare, a partire dall’uso del territorio; per utilizzare modelli di analisi che consentano, partendo dal quadro dell’ esistente, di capire, almeno in parte, quello che sarà.
L’ altra condizione necessaria è la ridefinizione di una politica del personale pubblico che ne persegua l’impiego funzionale; un sistema di regolazione dei rapporti, dei poteri e delle funzioni, tra legge e contrattazione, che dia certezze ma consenta decisioni rapide; sistemi di inquadramento professionale coerenti e flessibili. Per il personale, la rivoluzione organizzativa comporta necessariamente una grande ridislocazione, non solo dagli apparati centrali alle autonomie locali, ma dalle funzioni amministrative tradizionali, ridotte, rinnovate ed informatizzate, alle funzioni operative, ai servizi alle persone e alle imprese, al front-office. Ridislocazione che è possibile, coniugando gradualità e fermezza, usando insieme turn over, formazione, incentivi. Per i centri di governo del sistema, la priorità, sul piano delle risorse umane, dovrà essere l’acquisizione di cervelli giovani, di capitale intellettuale, da formare, inserire, incentivare e valorizzare.
Inoltre, va ripristinata una forte funzione di controllo sulle scelte di organizzazione delle amministrazioni e del loro personale; controllo non di legittimità, ma di merito; non preventivo, ma successivo; non preclusivo dell’efficacia, ma indirizzato alle assemblee elettive ed all’opinione pubblica, per segnalare distorsioni e problemi.
In ultimo, la dirigenza. Senza una dirigenza autorevole e davvero autonoma, non v’è equilibrio possibile tra direzione politica delle amministrazioni e sindacati del personale pubblico. Le proposte contenute nei vari saggi, come il sostituire la valutazione allo spoils system, o il ricollegare la dirigenza ai quadri direttivi, ricostruendo dei “corpi“ professionali, puntano tutte a questo obiettivo, che richiede una profonda trasformazione, anche generazionale, della dirigenza attuale.


4. Una strategia di attacco per lo sviluppo della competitività

La crisi di competitività del sistema produttivo italiano riguarda in particolare il settore industriale, che dopo aver garantito un costante supporto ai processi di sviluppo del Paese, appare oggi alla ricerca di una solida collocazione nell’ambito della divisione internazionale del lavoro che registra la presenza di nuovi competitori sui mercati globali.

4.1 Una nuova politica industriale

E’ fondamentale impostare una efficace politica industriale a largo spettro per intervenire sulle criticità e/o promuovere fortemente i fattori di sviluppo in grado di imprimere più dinamismo alla crescita. In tale prospettiva evidenziamo tre ambiti prioritari di intervento:

1) infrastrutture e logistica
2) energia
3) liberalizzazione del trasporto pubblico locale

4.1.1 Infrastrutture e logistica

Uno sguardo alla configurazione geografica del nostro Paese ed alla sua collocazione rispetto all’Europa consentono di definire alcune linee guida di un piano logistico nazionale, integrato in un contesto europeo.
Se, infatti, è innegabile fino ad oggi la prevalenza negli interscambi dell’Europa con il resto del mondo, del polo logistico nordeuropeo (Olanda, Belgio e Germania Occidentale) che trae dai porti di Rotterdam, Anversa, Amburgo e dall’aeroporto di Amsterdam-Schiphol i suoi punti di forza, è peraltro difficilmente concepibile un’Europa che a medio termine si alimenti da un solo accesso, oltre tutto concentrato in un’area ridotta e sempre più congestionata. E’ più logico e verosimile traguardare una struttura logistica a più poli, che consenta di fornire alternative e di adeguarsi a volumi di traffico crescenti.
Senza, quindi, togliere nulla al primato del polo nordeuropeo, difficilmente contestabile nel breve periodo, è logico pensare che il secondo nodo di una struttura multipolare debba collocarsi nel Sud-Europa.
Questa prospettiva di Polo Logistico Sud-europeo appare oggi sempre più ampiamente condivisibile, anche se, come obiettivo dichiarato, è tuttora assente dal Piano Generale dei Trasporti e della Logistica.

In tale logica riteniamo che debbano essere indicate precise linee d’azione per dar vita ad una logistica moderna ed efficiente in un’ottica di competitività del sistema-Paese.
Più in particolare, interventi indispensabili a tal fine sono:
 integrazione della rete ferroviaria nazionale con la rete TEN-T, soprattutto con riferimento ai valichi alpini, al terzo valico Appenninico e linea Pontremolese e alle linee costiere ligure ed adriatica;
 liberalizzazione delle gestioni ferroviarie, con le attese ripercussioni sulla tariffazione, sulla puntualità, e sulla affidabilità del servizio merci;
 politica di sostegno allo sviluppo e alla concentrazione di imprese logistiche nazionali, oggi frammentate e, quel che più preoccupa, in gran parte acquisite da grandi gruppi logistici internazionali con interessi nell'area Nord Europea;
 ulteriore potenziamento dei porti;
 sviluppo degli interporti nei pressi dei nodi urbani, e di distripark nelle vicinanze dei porti;
 chiara individuazione degli aeroporti “hub” per il cargo aereo.

In particolare, nell’ambito della riqualificazione logistica va consolidato il programma di potenziamento dei porti e l’attuazione della linea ferroviaria ad alta velocità (TAV).
La portualità concorrente, non solo nordeuropea, ma anche Mediterranea (si pensi a Marsiglia-Fos, o a Barcellona-Llobregat), dispone di ampie aree di espansione.
In Italia, i progetti di riempimenti previsti nei piani regolatori portuali sono osteggiati da una crescente opposizione locale che diviene, di giorno in giorno, sempre più attenta alle giuste esigenze ambientali, ma sempre più insensibile alle ricadute positive, economiche ed occupazionali, delle attività logistiche sul territorio circostante. I dragaggi sono anch’essi osteggiati nella maggioranza dei porti italiani, e le autorizzazioni sono rallentate e molte volte negate.
Per quanto riguarda la TAV, la CIDA ritiene che essa è una scelta necessaria per il futuro dell’Europa, che deve essere costituita anche da infrastrutture che ne consentano il funzionamento.
La TAV è un corridoio privilegiato, che deve essere realizzato ripensando agli scenari dei trasporti tenendo conto però della fragilità del sistema alpino.

4.1.2 Energia

L’Italia è il Paese europeo con il più alto costo dell’energia. La domanda di energia elettrica nel nostro Paese è sempre in crescita e questo determina un serio problema di capacità produttiva e, quindi, di fornitura. Altro elemento chiave della situazione italiana è l’impellente necessità di adeguare la capacità produttiva interna alla domanda.
La recente emergenza gas, ha poi posto in essere un'altra questione, quella della scelta di “andare” più a gas, rispetto agli altri Paesi europei. Ciò comporta, per l’Italia un maggiore rischio di black out. E' verosimile che l'elevato costo dell'energia sia tra i motivi principali della attuale fase di stagnazione economica e declino competitivo del nostro Paese. Ciononostante, molti continuano a pensare che liberalizzando e privatizzando si potrà ridurre il costo dell'energia elettrica. Ma ciò non appare possibile: il mercato e la concorrenza non si addicono al settore elettrico. La liberalizzazione in corso del settore energetico non potrà consentire, infatti, l'auspicata riduzione delle nostre tariffe elettriche essendo il relativo costo dovuto per il 70% ai combustibili utilizzati (petrolio e gas), i cui prezzi, soggetti a "cartello" e non a mercato, si sono più che triplicati negli ultimi anni, indipendentemente dal numero dei possibili produttori.
Serve una politica energetica espressamente finalizzata a riequilibrare il sistema energetico e a sostituire gli idrocarburi, impedendo così che le condizioni del mercato finanziario e i meccanismi tariffari privilegiano di fatto il ricorso a questi ultimi.

Occorre pertanto, la promozione di uno strumento di pianificazione energetica finalizzato a promuovere il ricorso a tutte le fonti disponibili e ad incentivare la produzione e l’uso di energia elettrica anche in funzione sostitutiva degli idrocarburi (trasporti).
E’ fondamentale valorizzare le potenzialità delle differenti fonti (solare termico, solare fotovoltaico, eolico, idroelettrico, biomasse, legno, geotermia a bassa temperatura) puntando sulle diverse vocazioni dei territori: proprio l'integrazione delle diverse fonti pulite diventa la prospettiva capace di creare in poco tempo una reale alternativa alle fonti fossili.
La riconversione energetica passa in Italia per una vasta diffusione di impianti solari termici sui tetti delle case e delle città (in Italia tre quarti degli edifici esistenti sono stati costruiti nel dopoguerra nelle periferie urbane), di impianti fotovoltaici nelle aziende, negli uffici pubblici, in complessi residenziali, di parchi eolici in tutte le aree compatibili, di minieolico nelle aree agricole e produttive per una domanda diffusa nel territorio; sviluppando la produzione di energia da geotermia, da biomasse, dal legno in tutte le aree adatte.
Da riconsiderare, inoltre anche la questione del nucleare. E' un fatto che l'abbandono di questo tipo di energia e l'aumento del prezzo degli idrocarburi hanno causato un forte incremento del costo dell'energia elettrica nel nostro Paese.
In base a queste assunzioni, dovrebbe derivare la disposizione di alcune importanti decisioni:
 Sviluppare altre fonti energetiche rinnovabili e compatibili con il sistema.
 Predisporre in tempi stretti un nuovo Piano Energetico Nazionale.
 Intraprendere una campagna informativa sull'energia come motore per lo sviluppo economico.
4.1.3 Trasporto pubblico locale
Una recente indagine conferma come il costo operativo del trasporto pubblico locale (Tpl) su gomma sia in Italia tra i più alti d’Europa (pari a 3,5 euro a vettura-km V-km), secondo solo alla Germania, mentre i ricavi da traffico, che in altri Paesi si collocano tra il 39 e 84 per cento, coprono in media solo il 31 per cento dei costi. Gli eccessivi oneri di gestione e le basse tariffe finiscono per sottrarre risorse pubbliche che potrebbero essere destinate a favore della mobilità sostenibile, cioè per far circolare più mezzi pubblici a basse emissioni inquinanti, per fare più servizio pubblico a parità di spesa, per finanziare più investimenti nelle reti di metropolitane o una qualche combinazione di queste opzioni .
La privatizzazione dei pubblici servizi locali non deve essere intesa quale strumento per fare conseguire risorse all’Ente locale, ma deve essere vista soprattutto quale strategia necessaria per elevare il livello qualitativo dei servizi a favore di un’utenza sempre più esigente. Attualmente esistono le premesse per far ripartire il processo di liberalizzazione fondato sulla concorrenza per il mercato. E la competizione fra i gestori rappresenta la condizione per assicurare un consistente recupero di produttività a vantaggio dell’utenza, soprattutto se accompagnata da un’efficace e continua regolazione, che assicuri la qualità dei servizi in un sistema tariffario trasparente e flessibile. Tuttavia, la semplice presenza di una normativa "pro-concorrenziale" a livello nazionale potrebbe non essere sufficiente a far marciare effettivamente Regioni e Comuni verso la concorrenza, sia pure regolata.
Per tale ragione la CIDA propone, a livello nazionale, l’istituzione di due Fondi da destinare al Tpl. Il primo dovrebbe:
 contribuire al finanziamento del rinnovo dei parchi rotabili, al fine di rottamare rapidamente gli autobus più vecchi e inquinanti,
 contribuire all’investimento iniziale necessario a dotare le città delle attrezzature tecnologiche per migliorare la gestione del traffico e aumentare l’offerta di Tpl.
Il secondo Fondo dovrebbe contribuire a finanziare, per un numero di anni ben delimitato, l’introduzione di ammortizzatori sociali quali la Cig (in forma ordinaria o speciale) e la mobilità lunga.

4.2 Ricominciare a crescere: incentivi fiscali mirati e selettivi per le imprese

Nel corso degli anni, l'Italia, ha abbandonato informatica ed elettronica e, ancor prima, la chimica e l'aeronautica civile e oggi sta esponendo a rischio siderurgia e navalmeccanica; ha abbandonato i settori fondamentali dell'economia, lasciati emigrare o venduti ad imprese straniere che tengono per sé gli utili che traggono e riversano sul nostro Paese i costi sociali.
La grande industria non c'è più e l'Italia rischia di restare fuori dalla concorrenza europea. Il nostro è il Paese delle Piccole e Medie Imprese, che rappresentano il 90% del totale delle aziende. Il loro universo è estremamente variegato ed eterogeneo, composto da realtà con esigenze molto differenti, ma la sfida che oggi esse si trovano a fronteggiare è duplice, ed uguale per tutte: una situazione economica poco favorevole e la necessità di continuare a crescere anche se in una situazione di mercato statica se non in declino. Per raggiungere questi obiettivi di crescita, le PMI devono essere in grado di gestire con efficacia e rapidità tutta una serie di aspetti: l’incremento della produttività, un controllo ottimizzato dei costi, gestire in maniera rapida ed efficace tutta la catena del valore, migliorare i processi decisionali.

Le misure introdotte recentemente per favorire la crescita delle PMI, rappresentano solo un primo passo per favorire l’adeguamento dimensionale delle imprese italiane.
Non sono però ancora sufficienti ad incentivarne una crescita “di qualità”. Servirebbero altri interventi per :
 nuovi investimenti: significativo incremento del credito d’imposta per i costi dei nuovi investimenti in beni materiali e immateriali (es. marchi etc. ) o in risorse umane;
 internazionalizzazione: deciso incremento del credito d’imposta dei costi per la promozione all’estero, cioè dei costi per la prima partecipazione ad una fiera o esposizione in Italia o all’estero (noleggio, creazione e gestione dello stand), e dei costi per studi e consulenze per il lancio di un prodotto su un nuovo mercato;
 formazione: sostanziale incremento del credito d’imposta dei costi per la formazione, (che fornisce qualifiche trasferibili e migliora le generali possibilità di impiego di un dipendente);
 ricerca: significativo incremento del credito d’imposta dei costi per la ricerca, secondo le definizioni comunitarie. Si tratta dei costi relativi a personale, attrezzature, fabbricati e terreni, consulenze, costi di ottenimento e validazione di brevetti e altri diritti di proprietà industriale, costi dei materiali etc.
La misura del credito può essere aumentata nei casi previsti dalla disciplina comunitaria.
Tutti gli incentivi addizionali indicati sono immediatamente applicabili perché in linea con le disposizioni comunitarie in materia di aiuti di Stato.

4.3 Valorizzare la risorsa manageriale nel Mezzogiorno

La convinzione che lo sviluppo economico non può essere disgiunto dalla continua formazione del capitale umano coinvolto nel processo di produzione e l’assenza di una classe dirigente, unitamente alla scarsa sensibilità ai problemi della formazione dirigenziale da parte degli operatori locali, costituiscono ancora oggi, secondo la CIDA, uno dei maggiori ostacoli all’avvio di un processo di autosviluppo del Mezzogiorno che avrebbe potuto permettere di colmare, il ritardo che separa la realtà meridionale dal resto del Paese. A determinare tale situazione contribuiscono sicuramente le caratteristiche del tessuto produttivo meridionale, basato sulla centralità della microimpresa, in cui le funzioni manageriali tendono ad essere assorbite nelle mani di una sola persona, che coincide quasi sempre con l’imprenditore. Si tratta di aspetti che, se non risolti, rischiano di gettare un’ipoteca sul futuro del Mezzogiorno, il cui sviluppo è oggi legato alla capacità di far crescere e dare struttura ai tanti spontaneismi che hanno caratterizzato la ripresa imprenditoriale di questi ultimi anni.
Per risolvere tale situazione, la CIDA propone significativi interventi e forme di agevolazioni - forti decontribuzioni (per almeno un triennio) sulle retribuzioni di dirigenti neoassunti - a favore di PMI nel Sud intenzionate ad avvalersi di risorse dirigenziali per quelle funzioni strumentali al miglioramento delle loro performance (finanza marketing, internazionalizzazione, etc.) sia in forma individuale che consorziata. In particolar modo può essere rilanciata l’ipotesi della costituzione di consorzi tra imprese per la dotazione di una figura dirigenziale, nel caso in cui la singola azienda non abbia la capacità finanziaria per poterne sostenere gli oneri in modo esclusivo.




4.4 Liberalizzazioni e riforme a costo zero

Il declino dell'Italia in alcuni settori può essere imputato alle insufficienti o addirittura nulle liberalizzazioni effettuate, che rappresentano un vero e proprio freno per l’economia. Questi danni, purtroppo, non si manifestano solo sui consumatori finali, ma anche e in modo rilevante, sulle imprese.
Le liberalizzazioni sono misure fondamentali, capaci di liberare energie, ricchezza, benessere e capaci di mettere al centro di ogni strategia lo stesso consumatore.
Da sempre la CIDA propone di completare (e in alcuni casi, avviare) tutte quelle liberalizzazioni che possono essere definite “a costo zero” e che sarebbero capaci di mettere in moto l’economia creando condizioni più competitive e in grado di dare maggiori opportunità ai giovani.

In termini economici, ridurre inutili costi, attraverso le liberalizzazioni, comporta per le imprese un miglioramento del processo di accumulazione e, quindi, del loro sviluppo.
L'effetto positivo delle liberalizzazioni sui cittadini è invece l'aumento del loro potere d'acquisto e per questa via del loro livello dei consumi. Per la CIDA è questa la via maestra per migliorare il potere d'acquisto delle famiglie, più efficace e strutturale di altri interventi (si pensi ad esempio al blocco dei prezzi su generi di largo consumo, peraltro limitato nel tempo).

5. Per una vera concertazione e nuovi assetti contrattuali

La ripresa di un serio confronto con le parti sociali è il presupposto fondamentale per reimpostare su nuove basi il più generale rapporto col Governo: un rapporto nelle ultime legislature impoverito, incapace di produrre risultati soddisfacenti, ridotto ad una sostanziale comunicazione da parte dell’Esecutivo dei propri orientamenti su materie che dovrebbero essere, invece, oggetto di discussione reale, con apporti specifici delle differenti parti in causa, al fine di addivenire ad una finale condivisione comune delle scelte di politica economica e sociale.

5.1 Rapporti Governo/Parti Sociali

Le relazioni tra Governo e Parti Sociali si sono rivelate difficili, ma è necessario uscire da tale impasse per rendere efficace la partecipazione di tutti i soggetti rappresentativi, ciascuno portatore di un proprio indispensabile contributo, al fine di coinvolgerli effettivamente nella responsabilità comune.

Bisognerebbe determinare regole nell’interesse di tutti tramite un’efficace disciplina della cosiddetta concertazione, e la soluzione è già scritta nella Costituzione.
Si tratta di dare finalmente attuazione a quell’art. 39 che prevede la registrazione dei sindacati, la loro personalità giuridica e il loro ordinamento interno su basi democratiche.
In tale prospettiva andrebbero stabiliti rigorosi criteri di ammissione delle sigle ai tavoli di confronto, che tengano conto da un lato della consistenza numerica e della partecipazione alla contrattazione collettiva (criteri quantitativi) e dall’altro della reale rappresentanza di categorie “particolari”, più settoriali, come ad esempio quelle ad alta qualificazione (criteri qualitativi).
Questo nuovo sistema, per la CIDA, potrebbe portare al superamento sia della cosiddetta concertazione formale, fittiziamente allargata a tutti anche per ragioni di consenso o di clientelismo (e perciò del tutto inconcludente), sia di quella parallela (quella vera) svolta fra pochi, che inevitabilmente sacrifica voci importanti del contesto economico e sociale.

5.2 Riforma della contrattazione

I punti chiave del Protocollo 23-7-1993, che ha definito gli assetti contrattuali nel nostro Paese, sia nei settori privati che nelle pubbliche amministrazioni, possono riassumersi nei termini seguenti:
 durata quadriennale per i Contratti collettivi di lavoro relativi alla parte normativa e durata biennale per quelli relativi alla parte economica;
 due livelli di contrattazione: nazionale, di categoria, e integrativo, territoriale o di azienda;
 aumenti del CCNL calcolati sull’ inflazione programmata, più il recupero dell’ eventuale differenziale tra questa e l’inflazione effettiva; aumenti dell’ integrativo correlati all’ incremento della produttività.

5.2.1 Il settore pubblico

I punti chiave del protocollo sul costo del lavoro, si applicano anche al pubblico impiego, ma i dirigenti, in tale contesto, presentano alcune specificità come ad esempio, la funzione di controparte datoriale delle OO.SS., nella contrattazione per i dipendenti, ma anche in quella per i dirigenti stessi.
Tenendo presente le specificità della dirigenza, sembra potersi convenire con l’orientamento emergente circa l’opportunità di lasciare ai CCNL la fissazione e la tutela dei minimi salariali e normativi, affidando alla contrattazione integrativa la distribuzione dei differenziali di produttività tra aziende ed anche tra territori, o settori. Tema da analizzare in maniera più approfondita, resta, invece, una eventuale triennalizzazione della contrattazione, sia per la parte normativa che per quella economica, verificandone vantaggi e svantaggi.
Nel sistema delle pp.aa., sarebbero particolarmente necessarie alcune rilevanti specificazioni:
 Se i CCNL riguardano solo i minimi, è ragionevole pensare ad un forte accorpamento degli attuali comparti ed aree dirigenziali, fondato su quattro macroaree: Amministrazioni ed Enti nazionali, Regioni-Enti locali, Sanità, Scuola-università-ricerca. Naturalmente resterebbe la distinzione tra aree dirigenziali e comparti non dirigenziali, recuperando in distinte sezioni delle aree dirigenziali i quadri e le alte professionalità.
 La finalizzazione della contrattazione integrativa agli incrementi di produttività e competitività va garantita con meccanismi di verifica e controllo, in grado di supplire efficacemente all’assenza di verifica del mercato. Ciò premesso, è possibile pensare a contratti collettivi integrativi per gruppi di enti, per tipologie o anche sul territorio, evitando la proliferazione di livelli e, comunque, la reiterazione annuale.
 Per dirigenti, alte professionalità e quadri va introdotta una possibilità effettiva di contrattazione individuale, più marcata per le qualifiche più elevate, tenendo comunque conto di parametri obiettivi. Spetterà alle amministrazioni definire, nel quadro della politica del personale, una ripartizione delle risorse tra aumenti destinati alla contrattazione collettiva e aumenti da offrire a titolo individuale.









Postato il Domenica, 23 aprile 2006 ore 15:21:21 CEST di Salvatore Indelicato
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