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Umanistiche: LA NAVICELLA DELLO STIL NOVO CHE VA E VA...

Rassegna stampa
La navicella dello Stil novo

La compagnia del "cor gentile" - Si sentivano davvero come l'equipaggio unito e solidale di un vasel, di una navicella condotta per le acque lungo una rotta di aristocratico e raffinato isolamento i poeti toscani che sul finire del XIII secolo si costituirono coscientemente, differenziandosi e anche opponendosi ai loro predecessori, come una nova scuola poetica. In quel vasel il giovane Dante Alighieri - in un sonetto tra i più noti e studiati a scuola - voleva portarci almeno due dei suoi compagni d'avventura: Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento, / e messi in un vasel..., cioè Guido Cavalcanti e Lapo Gianni de' Ricevuti. Nel vasel con gli amici, d'accordo; ma anche in compagnia di tre donne (monna Vanna e monna Lagia; e poi, quella misteriosa ch'è sul numer delle trenta, cioè che trenta almeno ne supera per bellezza), circostanza che sempre è piaciuta agli studenti, i quali, una volta tanto, tra l'astrattezza di cuori gentili e le impalpabili presenze di donne-angelo hanno facoltà di riportare con i piedi per terra le immagini eteree dei poeti devoti al sublime, ricollocandoli nella familiarità di una scena che presenta giovani uomini e giovani donne nell'atto di fantasticare una specie di fuga di gruppo all'insegna del ragionar sempre d'amore.
 Però, a parte questo e pochi altri componimenti in apparenza più "amichevoli", la cifra stilistica e ideologica dei poeti del dolce stil novo è sofisticata e compatta. Soltanto in virtù di un impegno notevole gli studenti possono essere portati a comprendere, previa lettura comparativa di testi, in cosa le nove 'nuove' rime di Dante, Guido, Lapo, Cino da Pistoia, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi differiscano da quelle provenzali e siciliane, da quelle dei prosecutori-tramiti siculo-toscani e dai componimenti di Bonagiunta Orbicciani e Guittone d'Arezzo; per non parlare delle differenze, ancor più esili all'occhio e all'orecchio d'oggi, tra un componimento stilnovistico di laude di Dante e uno del maestro riconosciuto del gruppo, il bolognese Guido Guinizzelli. Insomma, l'autonomia e l'originalità della scuola stilnovistica è fortemente rivendicata dai suoi componenti, ma si afferma in un quadro di progressività dei cambiamenti, di evoluzioni con scarti, sempre però all'interno di una tradizione culturale e di lingua condivisa. Basti dire che Guinizzelli, maestro agli stilnovisti, si rivolge a Guittone apostrofandolo O caro padre meo e riceve in contraccambio dall'aretino un Figlio mio dilettoso. Quando Guinizzelli scrive quella sorta di spartiacque e insieme manifesto poetico che è la canzone Al cor gentil rempaira sempre amore, Dante è un bambino, Cavalcanti un ragazzetto. Bastano però pochi anni di noviziato letterario perché Guido si senta autorizzato a rimproverare in versi Guittone per «difetto di saver» e «barbarismo» «nel profferer»; mentre Dante, a posteriori, nel De Vulgari Eloquentia, rifacendo i conti con la propria esperienza poetica passata, prenda con altrettanta forza le distanze da Guittone, accusandolo di municipalismo linguistico (numquam se ad curiale vulgare direxit) e di rozzezza plebeizzante nelle scelte lessicali e sintattiche (numquam in vocabulis atque constructione plebescere desuetos). Eppure, a riconferma che le guerre tra "giovani e vecchi" rinnovellano l'ambiguo intreccio edipico, non si può certo dire che sia assente una stagione giovanile guittoniana in Dante e in altri stilnovisti, anzi. Proprio per questo sarà inevitabile, una volta cresciuti poeticamente, sentire la necessità di contrapporsi con durezza al vecchio, misconosciuto maestro, per marcare programmaticamente la novità del proprio discorso poetico.

Nobiltà, ma non di sangue - Guittone-Guinizzelli-stilnovisti: nei primi due senz'altro gallicismi e sicilianismi sono ancora molto presenti. Nei secondi la selezione si fa radicale e mirata. Esemplare il caso di Dino Frescobaldi, l'ultimo degli stilnovisti, il quale ci permette di misurare la distanza accumulatasi nel passaggio molecolare dai "padri" ai "figli" lungo il continuum cronologico. Come ha scritto F. Brugnolo (Introduzione a Canzoni e sonetti di Frescobaldi, Einaudi, Torino 1984), «per lui il problema se accettare o meno spunti tematici e supporti linguistici della precedente tradizione provenzale-siculo-toscana sembra - a differenza di un Lapo Gianni o di un Cino da Pistoia - non porsi nemmeno»: così, nei suoi versi, nessun caso di sàccio o di àve; aggia usato solo come forma del congiuntivo ma non indicativo; rari i condizionali in -ìa, comunque alternati con il tipo fiorentino; e, sul versante dei franco-provenzalismi, mai i tipi temenza, dolzore, coraggio, mentre dei sostantivi in -anza si salvano solo pesanza e amanza in quanto anche cavalcantiani.
 Certo, questi segnali linguistici forse non basterebbero da soli a fare dello Stil novo una scuola autonoma e originale. In realtà la novità c'è e traspare non tanto dalle novità lessicali (per esclusione o per inclusione), ma dalla novità di attribuzione di senso a una serie di termini attorno ai quali si struttura un discorso poetico e ideologico preciso. Potremmo dire: voci ed espressioni come dolce, dolcezza, core e gentile (e la coppia cor gentile), gentilezza, salute 'salvezza', bella donna si tecnificano, si specializzano veicolando decisive sfumature di significato che allontanano i vocaboli dall'uso solito, sperimentato non soltanto nella lingua comune di quel tempo, ma anche dalla lingua poetica coeva o appena precedente. Esempio: la dolcezza è riferita da Dante allo stile del poetare con una precisa significazione tecnica, che implica linearità sintattica (di contro a certa complicata esteriorità retorica guittoniana), compostezza, mancanza d'ogni asprezza di senso e di suono, musicalità armoniosa, declinata sia in toni melodici e lievi, sia con accenti più marcati e robusti. Avviciniamoci ad uno dei nuclei di pensiero dello stilnovismo, compresso nel vocabolo gentile che già sappiamo dalla lirica precedente avere poco a che fare col gentile 'di garbate maniere, cortese' che adoperiamo oggi. Come nota Leonardo Rossi (Breve storia della lingua italiana per parole, Le Monnier, Firenze 2005), il Dante del celebre sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare usa gentile in un senso non ancora stilnovista, ma comunissimo nell'italiano (nel fiorentino, diciamo) del tempo: 'nobile'. Ma la linea interpretativa che porta dal Guinizzelli di Al cor gentile rempaira sempre amore agli stilnovisti vuole leggere nel cor gentile la qualità di chi è seguace d'Amore, così come viene elitariamente concepita dallo stilnovismo: «La parola Amore nello Stil nuovo si apre alle più alte e ardite significazioni; sicché Amore può diventare l'asse intorno a cui gira l'universo intero, la forza che spira nel cuore di tutte le creature per la loro perfezione [...] Gli stilnovisti respingono totalmente invece il concetto di una nobiltà di stirpe e di sangue; la vera e unica nobiltà, secondo loro, è gentilezza, cioè amore e dunque ansia verso la perfezione dell'essere, alta vita intellettuale ed esercizio di virtù morali» (Mario Marti, dalla voce Stil nuovo nell'Enciclopedia dantesca Treccani). In una formuletta sociologica da usare con cautela: dall'aristocraticismo feudale dell'amor cortese provenzale e siciliano all'elitarismo dell'amor gentile individualistico e cittadino, toscano-fiorentino.

Il testo - È qui presentata la prima quindicina di versi della canzone Donne ch'avete intelletto d'amore. Collocata nella Vita nuova (XIX, 4-14), la composizione inaugura le nove rime dantesche, secondo quanto Dante mette in bocca a Bonagiunta Orbicciani in un passo del Purgatorio (XXIV, 49-51; poco oltre sempre Bonagiunta definisce dolce stil novo la nuova poesia di Dante e soci, contrapposta a quella di Giacomo da Lentini, di Bonagiunta stesso e di Guittone d'Arezzo). Riprendo la versione presente in Antologia della poesia italiana, diretta da Cesare Segre e Carlo Ossola, Giulio Einaudi ed., Torino 1999.

Donne ch'avete intelletto d'amore,
 i' vo' con voi de la mia donna dire,
 non perch'io creda sua lauda finire,
 ma ragionar per isfogar la mente.
 Io dico che pensando il suo valore,
 Amor sì dolce mi si fa sentire,
 che s'io allora non perdessi ardire,
 farei parlando innamorar la gente.
 E io non vo' parlar sì altamente,
 ch'io divenisse per temenza vile;
 ma tratterò del suo stato gentile
 a respetto di lei leggeramente,
 donne e donzelle amorose, con vui,
 ché non è cosa da parlarne altrui.
Secondo un procedimento stilistico e ideologico che qualifica la dimensione raffinata, elevata, preziosa, della laude d'amore indirizzata alla donna amata, Dante si rivolge a donne mediatrici (con voi del v. 2 vale 'a voi') del discorso poetico tra il poeta e la diretta interessata, Beatrice. Intelletto, nel senso di 'capacità di ragionare, di intendere' è pienamente dentro la tradizione poetica siciliana (Giacomo da Lentini; un sicilianismo fonetico pretto è poi il vui del v. 14); va detto che in Dante, nel corso della sua esperienza poetica, il vocabolo si caricherà delle varie sfumature di significato liberate dalla stratificazione semantica del lessico filosofico e teologico scolastico (tipica del raziocinare scolastico è qui la formula presentativa del v. 5 Io dico che). Al v. 3, finire vale 'esaurire'. Isfogar la mente (v. 4) ha corrispondenza quasi puntuale con lo sfogar la mente di Cino da Pistoia (in Lasso, ch'amando). E sempre nel cerchio linguistico dello stilnovismo si colloca il dolce ('armonioso e piano') modo in cui si fa sentire al poeta Amor. Ai vv. 6-7 è ben espresso un altro topos stilnovistico, quello della difficoltà dell'esprimere l'amore che dall'amata si diffonde sul poeta, difficoltà che può sconfinare nell'ineffabilità. Per questo il poeta decide di non parlare della donna con stile tanto alto (altamente) quanto ella meriterebbe, perché ha timore (temenza: ecco un gallicismo residuo che già in Frescobaldi non ci sarà più) di essere al di sotto delle aspettative. Viceversa egli tratterà dello stato gentile ('perfezione d'animo per la capacità d'amare e d'essere oggetto privilegiato d'amore') della donna in stile umile e dimesso a paragone del di lei valore. Si noti infine la dittologia sinonimica donne e donzelle (già in Cino da Pistoia, il cui incipit Dante riprende quasi per intiero: Gentili donne e donzelle amorose). Le dittologie sono figura euritmica che attraverserà tutta la nostra tradizione lirica fin dentro l'Ottocento.

Silverio Novelli 














Postato il Giovedì, 16 marzo 2006 ore 00:30:00 CET di Silvana La Porta
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