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Voce alla Scuola: STUPRI E SASSI DAL CAVALCAVIA: PER LA TV E' TUTTA COLPA DELLA SCUOLA

Opinioni
Stupri e sassi dal cavalcavia:in tv è solo colpa della scuola 09 dicembre 2005 - Unità Se ne parla sempre per «spiegare» tragedie, devianze, crimini di tutti i giorni: cosa insegna la scuola? Chi insegna a scuola? Uno stuolo di esperti ricopre gli studi televisivi per la nuova inquisizione. Ma loro, gli insegnanti, sono sempre più i «grandi rimossi» del piccolo schermo Non troveremo professori, studenti o genitori chiamati a intervenire in una trasmissione televisiva sulla scuola, per il semplice motivo che un simile programma non esiste. La scuola è rimossa dal nostro orizzonte mediatico e ideale. Tuttavia, ce ne ricordiamo nelle emergenze. Quando i ragazzi si uccidono sulle strade il sabato sera, o quando le devianze si fanno clamore e crimine: l'omicidio di una madre e un fratello, lo stupro di gruppo, i sassi gettati da un cavalcavia. All'improvviso ci si chiede: ma gli insegnanti? Gli untori della malefica peste che contamina le anime degli adolescenti. O nel migliore dei casi gli ignavi. Nel coro dei lamentatori occasionali si annoverano filosofi, antropologi, psicologi, psicanalisti. «Esperti» insomma, tutti. Tranne i professori. Ai quali comunque viene riconosciuto qualche primato, ad esempio quello di avere una delle maggiori percentuali di alcolisti del paese, o di essere la categoria più di ogni altra a rischio «burnout». La rimozione ha qualche ragione. Quando i modelli valoriali si ribaltano, il malaffare diventa pagante e serve a scalare i vertici della società e del potere, la cretineria si fa spettacolo, lo scemo del villaggio si trasforma in opinionista, e tutto nello spazio dei media si fa autoreferenziale e narcistico, che cosa mai si dovrebbe volere dalla scuola? Perché rappresentarla, raccontarla? Che cosa ha a che fare con la realtà, quella vera? Forse la scuola sbaglia. Dovrebbe insegnare l'arte della furbizia, dell'ipocrisia e della dissimulazione, dell'aiutino e della raccomandazione. Addestrare gli allievi a navigare nella realtà come squali. Allevare picari e non cercare di formare coscienze. Quale morale proporre ai nostri studenti? Lupi, leoni, volpi: quale simbolo animale sceglieremo per l'umanità del terzo millennio? L'economia, non a caso, parla di animal spirits. E la globalizzazione è di frequente descritta attraverso l'icastica metafora della giungla. La rimozione c'è nei fatti. E c'è perchè il mondo che qualche tempo fa pensavamo di costruire migliore ci è venuto sghembo. Come se fosse stata dichiarata guerra alla civiltà. Una guerra di simboli, che ci lavorano dentro piano piano. Che costruisce le apparenze, solide e imponenti, e corrode e svuota e dilegua i valori, i principi, gli ideali. Da qui il disincanto, quel profondo non crederci, che riguarda tutti, ma più intensamente noi adulti, e che come transfert negativo produce sui ragazzi sfiducia, disorientamento, una perdita profonda di senso. C'è un problema, della scuola e di noi tutti. Quello della conoscenza in rapporto al Bene. Un problema socratico, attualissimo. Noi che abbiamo spezzato una simile relazione parliamo di conoscenze e competenze, di sapere e saper fare. Riduciamo il sapere a tecnica e la coscienza a comportamento. Da questo punto di vista la scuola è eterodiretta dall'economia. Non ha più una ragione e un centro in se stessa. È oggettivamente debole. E da debole combatte una battaglia impari. Le uniche sue armi sono la parola, la pazienza, il coraggio, la speranza. Quante «divisioni» ha la scuola? Nel migliore dei casi, e a dispetto di riforme e riformicchie che la devastano, è costretta a fare da sè. E si risolve nell'incontro occasionale fra un professore che «tiene duro» e un alunno che, nonostante tutto, decide di ascoltarlo. Quando capita, qualche volta funziona. A parziale «risarcimento» dello squilibrio con cui i media la considerano, c'è un libro uscito in questi giorni, La mia scuola. Chi insegna si racconta, (Einaudi, a c. di D. Chiesa e C. Trucco Zagrebelsky), di grande valore informativo per chi voglia apprendere qualcosa di quel pianeta, prossimo e invisibile, chiacchierato e misconosciuto, che è la scuola. Registra la voce degli insegnanti, in cui «chi insegna si racconta». E quindi l'entusiasmo, la carica vitale ancora intatta, ma anche la sfiducia, la disillusione, quasi - a tratti - una lucida, fredda disperazione. Come se dal fondo dell'aula, all'ultimo banco, in cui la società l'ha relegata, si levasse un urlo. Modulato compostamente, ma con durezza. Lo leggano, coloro che ancora intendono pronunciarsi sugli insegnanti e sulla scuola. Lo leggano i politici, di governo e di opposizione. I politologi, gli editorialisti, i sociologi. Se hanno tempo. Prima di parlarne ancora, quando saranno invitati a farlo. Da «esperti». luigalel@tin.it





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Postato il Sabato, 10 dicembre 2005 ore 00:05:00 CET di Silvana La Porta
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