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Voce alla Scuola: PRECARIATO, DALLE SECONDARIE AI PRIMARI

Opinioni
Giulia Beluino DALLE SECONDARIE AI PRIMARI In ospedale,a scuola di precarietà Voglio iniziare dal principio,dal perché e per come ho fatto questa scelta. Fino allo scorso anno ho insegnato alle superiori,ma,con i vari cambiamenti avvenuti nelle graduatorie,e trovandomi in una posizione più tutelata alle medie (sono,per gli addetti ai lavori,in seconda fascia),ho deciso di compiere il grande passo e di prendere la supplenza nella classe di concorso A043 (materie letterarie nella scuola secondaria di primo grado).Il giorno prima delle “chiamate”scorro le disponibilità e,come se ci fosse una calamita,il mio sguardo continua a cadere sulla cattedra della scuola in ospedale.Passo il pomeriggio a fare telefonate,in particolare chiamo una mia collega,anche lei precaria,che ha fatto questa esperienza qualche anno fa.Il giorno dopo,alle convocazioni,faccio la mia scelta:per quest’anno sarò l’insegnante di materie letterarie di una sezione ospedaliera.Ovviamente ci sono dei motivi,che qui non starò a spiegare,ma che i miei cari e i miei amici conoscono bene,che mi hanno spinto verso questa scelta,ma quando l’ho fatta,tutto mi aspettavo tranne quello che poi ho provato. Mi chiedevo se avrei sopportato l’impatto col dolore,se sarei stata in grado di affrontare alcune situazioni particolarmente impressionanti... ma in realtà non è questo il problema della scuola in ospedale. Arrivo il primo giorno,e capisco che devo “riconfigurare”tutto il mio cervello:non ci sono classi,non ci sono singole aule,non esiste un orario prestabilito. Io,insegnante,abituata a sapere che quell’ora la passerò in quella determinata classe,che farò quel determinato programma,che mi troverò di fronte agli stessi alunni del giorno prima,della settimana prima,del mese prima,devo imparare a relazionarmi con le terapie,le visite del primario,i genitori preoccupati,non proprio perché il figlio è insufficiente,ma perché chiede l’abilitazione. forse non tornerà più come prima... e,in questa situazione,si diventa secondari,ma assolutamente indispensabili.Cercherò di spiegare perché. La mia relazione di quest’anno recita,parafrasando in parte le direttive ministeriali:“Si dovrà infatti considerare che l’attività didattica,svolta durante i periodi in cui il fanciullo è ricoverato,contribuisce al mantenimento o al recupero dell’equilibrio psicofisico,introducendo all’interno del mondo ospedaliero,un elemento di normalità”.Quindi,all’interno di un mondo in cui la normalità è l’eccezione,il nostro ruolo diventa quello di rappresentare quello che il ragazzo faceva tutti i giorni nella sua vita,prima di essere ricoverato.Diventiamo un simbolo,e per questo estremamente terapeutici. Mi riesce abbastanza facile fare questo discorso oggi,dopo sei mesi di vita nei reparti,ma all’inizio non è stato così ovvio.Il reputare che sia importante studiare,quando i problemi sono ben altri e sicuramente più gravi, può sembrare un controsenso,e invece,se per un momento il ragazzo non penserà alla malattia,non vuol dire che guarirà più tardi,ma che guarirà con meno dolore.Avreste mai pensato che lo “studio matto e disperato” potesse diventare un diversivo e un motivo di speranza? Che il far pensare al ragazzo che quella normalità di prima non è persa,può essere recuperata,può anzi diventare essa stessa una via verso la guarigione? Infatti,continuare a studiare in ospedale vuol dire anche non perdere l’anno e,una volta finita la degenza,tornare a condividere la propria vita con i vecchi compagni e amici. Questa presa di coscienza non è immediata,anzi,all’inizio,noi docenti siamo spesso considerati come elementi di disturbo,in una situazione già di per sé difficile.Anche da parte dei genitori è frequente il timore che lo studio possa affaticare il ragazzo,già provato e,si sa,non è regola dei ragazzi desiderare follemente studiare.A ciò si aggiunga il fatto di doversi rapportare con degli sconosciuti,e per di più professori! La miscela esplosiva è fatta e la diffidenza è d’obbligo. Il primo problema diventa quello di farsi accettare:non si è più il professore che “sale in cattedra”,che ogni tanto si può anche permettere di riprendere con fare severo l’alunno svogliato.Tutto si svolge in modo molto più delicato,con mezze parole e mezzi sorrisi,quasi come fosse un rituale antico,tanto più lento,quanto il mondo di oggi è frenetico. Capita, quando si entra in un reparto, di incontrare alunni con gli sguardi diffidenti,per non dire ostili;allo stesso tempo,però,ce ne sono alcuni che hanno una gran voglia di studiare.In genere si inizia a lavorare con loro e di colpo,voltandosi,ci si accorge che gli altri giovani degenti, con fare certo ancora sospettoso ma incuriositi dalla situazione, si stanno lentamente avvicinando per partecipare a quell’insolita lezione. Ascoltano per un po’in piedi,poi a un invito si siedono e,senza neanche rendersene conto,per il desiderio di aggregazione tipico dei ragazzi,cominciano ad ascoltare,a ripetere,a incuriosirsi,a far domande,insomma a imparare. Capita,a volte,di uscire sconfitti da questi primi incontri,convinti di non riuscire mai a instaurare un rapporto con quel ragazzino già così provato dalla vita;ma sinceramente,ad oggi,questa prima sensazione è sempre stata smentita in seguito. Avviene un giorno,sembra senza un motivo,e senza un perché:di colpo il piccolo malato diventa alunno.Cosa è cambiato? Credo che in quel momento ci sia stata la presa di coscienza che si può e si vuole tornare alla normalità.L’insegnante non ha fatto altro che tendere la mano,ma la forza è tutta nel ragazzo e in quella voglia di vivere che è propria della gioventù.Da allora il rapporto diventa realmente giornaliero,il piccolo paziente frequenta in maniera continuativa la scuola,un giorno studia con un professore,un giorno con l’altro e all’apprendimento si affianca,quasi piccolo miracolo,un lento miglioramento. La mole di lavoro che si affronta giornalmente aumenta,in modo impercettibile ma costante;cresce la capacità di percezione degli argomenti, appare lentamente un certo entusiasmo nell’approfondirne alcuni.Nello stesso tempo,con sguardo “distratto”ti accorgi che la mano del ragazzo si muove più veloce sul foglio,che è lui che riesce a piegarsi per raccogliere lagomma caduta per terra,che di colpo scoppia a ridere,facendo una battuta,sempre,s’intende,su “un argomento oggetto di studio”. E quello che vorresti scrivere sul registro di classe,alla voce “argomenti svolti”è “oggi X è riuscito a camminare senza l’aiuto dei tutori”,oppure “ieri Y ha ripreso a mangiare e oggi gli hanno tolto la flebo”,oppure,semplicemente “oggi,per la prima volta,ho sentito Z ridere”e,invece,sul registro apparirà:“storia:il feudalesimo;grammatica:il predicato verbale e il predicato nominale;geografia:la Spagna”;perché comunque tu sei e rimani un insegnante ed è questo il tuo ruolo. Cosa mi ha insegnato questa esperienza in ospedale? La precarietà della vita.E oggi,ogni giorno,quando mi alzo,quando cammino per strada,mi stupisco di vedere le mie gambe che si muovono,le mie mani che possono prendere una penna e scrivere,la mia testa che può voltarsi a un richiamo, e penso che tutto questo è veramente un miracolo.








Postato il Giovedì, 08 dicembre 2005 ore 00:05:00 CET di Silvana La Porta
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