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Per tutti gli esclusi e i tagliati fuori

Redazione
Michela Pedron,  si occupa di pittura, fotografia ed installazione, classe ’80, vive e lavora tra Trento e Venezia,  una docente ci racconta la sua mostra in Giappone. Ho incontrato Michela, ad una riunione presso il Liceo Rosmini di Trento, guardavo i suoi capelli e quel taglio così disarmante, netto sul viso e lunghi dietro. Due realtà distanti, corto e lungo, mi fermo nella forma e guardo nella sostanza: un sinolo impeccabile. Mi viene in mente un ideale che si discosta leggermente dai modelli tradizionali di estetica in Giappone  che è quello del “taglio” (切れ kire?) o “taglio-continuo” (切れ続き kire-tsuzuki?).

Il “taglio” è un'importante metafora di base della scuola Rinzai del Buddismo Zen, ed essa si riferisce all'essere “tagliati fuori” dalla vita di tutti i giorni, nel senso di “rinuncia” all'oppressione del superfluo. Il concetto di kire trova la sua espressione principalmente nell'arte dell‘ikebana, dove la vita biologica del fiore viene “tagliata fuori” per lasciare che si esprima la vera natura del fiore stesso. L'ikebana inoltre dimostra a chi osserva l'opera che i fiori non sono “oggetti” statici, ma che essi possono essere spostati e tagliati a piacimento: tutto ciò  serve a ricordare all'osservatore che l'“impermanenza” è ovunque, in tutte le parti dell'ambiente, e in particolare all'interno di se stessi. Il “taglio” appare anche nel kireji (切れ字? “parola tagliata”), un termine usato per una speciale categoria di vocaboli presenti in alcuni tipi di poesia giapponese. Esso è usato soprattutto nella poesia haiku, quando un'immagine viene “tagliata fuori” nello stesso tempo in cui si lega a quella successiva.

Si accorge del mio sguardo, mentre penso alla mia metafora e sorride.  Ricambio, scopro un’artista e svelo l’arte che torna a scuola. Poche battute e fra una lezione e un’altra ci prendiamo una pausa. Ci raccontiamo la mobilità e la precarietà che contraddistingue la nostra professione, in bilico fra la certezza della nostra presenza in aula e la voglia di tradurre linguaggi incompresi.
Iscritta all’Accademia di Belle Arti di Venezia, si diploma nel febbraio 2005 con il massimo dei voti.
Si specializza in Arti Visive e Discipline per lo Spettacolo ad indirizzo Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia, nel 2006.

Mi racconta della sua evoluzione delle sue opere durante gli anni, attraverso mezzi espressivi diversi, ma mantenendo sempre inalterato lo spirito di osservazione: intrecciando realtà e banalità, cercando di vedere oltre i luoghi comuni e dare nuovo significato a ciò che l’opera porta alla luce
I lavori non sono mai singoli pezzi casuali, mi dice, ma più opere raggruppabili in serie, cioè una volta sviluppata e resa un’opera ne vengono prodotte altre con lo stesso criterio e con lo stesso ideale.
Questo processo diviene un’esigenza primaria poiché le varie serie differiscono per materiali, tecniche e soggetti.
Nonostante ciò, osservando l’intera produzione di questi anni si percepisce un filo conduttore che lega tra loro tutte le opere e ne fa un insieme vario ma omogeneo.

Sulle ali dell’oritsuru
Un’antica leggenda giapponese racconta che chi riesce a piegare almeno mille gru di carta, secondo la tecnica degli origami, potrà vedere esauditi i desideri e le preghiere che ha nel cuore. Nella visione della Pedron, non mille gru ma una gru mille volte grande che porta sul becco un segno indelebile, il sangue dell’artista, e che assume un valore profondamente sacrale e sancisce il suo legame, come un ponte, tra l’occidente e l’oriente.

Michela Pedron è sicuramente in grado di sintonizzarsi con il mondo. Nelle sue opere sfila una parata di icone contemporanee composta da elementi glamour, optical e new pop che si ispirano direttamente all’immaginario.
Nel mondo della moda, del design, del cinema e della fiction televisiva, si assiste oggi ad un rilancio: è il ritorno del rosa (vuoi shocking, o più sommessamente pastello) unitamente ad un gusto cromatico kitsch, un po’ retrò, ammiccante a quegli ultimi anni cinquanta che avrebbero visto, di lì a poco, esplodere il fenomeno mondiale della Pop Art.
Attuale in questo senso si può, dunque, dire l’opera di Michela Pedron, attraverso il suo sito http://www.michelapedron.com/index.php,   che sconfina nelle dimensioni di un’arte sinestetica, visivo-sensoriale, prediligendo cromatismi pop, superfici glossy, brillanti, ritmate da morbide, avvolgenti interpolazioni di peluche dalle forti connotazioni tattili, con profondi rimandi emotivi e valenze epidermiche.

Il mondo che vanno rivelando i lavori di Michela Pedron è un mondo marcatamente al femminile, ma smaliziato, non privo quindi di ironia ed auto-ironia, in sintonia peraltro con l’opera di artiste a lei contemporanee, come  ad esempio, la ginevrina Silvie Fleury con i suoi immensi missili “in partenza per Venere” ricoperti di morbida pelliccia.
Michela Pedron ha saputo raccogliere indubbiamente le eredità stilistiche tematiche di un Warhol, un Lichtenstein, un Klein, sposandole però alle suggestioni-provocazioni dell’odierno e ammirato Jeff Koons, senza rinunciare, con questo, ad una sensibilità autentica, distintiva, ascrivibile ad un modo originale, personale di intendere l’arte e di vedere il proprio ed altrui universo.
 Vi sono, in­oltre, una serie di “elementi disturbatori”, ricon­ducibili all’estetica del kitsch e ad una visione che trasforma la realtà in prodotto e viceversa e non tralascia alcuni legami con l’estetica multi­mediale: bicchieri di Pepsi cola, loghi e marche in bella vista, pupazzetti di Hello Kitty, super eroi americani, inserti di peluches, piume e oggetti di plastica raccolti dal quotidiano e volontariamente decontestualizzati e posti in dialogo fra loro. Tut­to questo con una stretta e spesso irriverente connessione con la grande tradizione dell’arte italiana: emergono così, come riaffiorassero dal subconscio dell’artista, statuette del David di Michelangelo, gondole veneziane, decorazioni mosaicate e altre icone del Bel Paese shakerate però all’interno del calderone contemporaneo.

Il viaggio verso il Giappone, paese che presenta in molte sue manifestazioni estetiche una marcata accezione pop, rappresenta per l’artista coinvolta un metaforico ritorno alle origini, un viaggio a ritroso verso un continente, che è stato la culla della cultura neopop.

E’ proprio in questa poliedricità di modi di agire, in questa libertà di espressione sia tecnica che concettuale, nella possibilità di ibridazione di linguaggi differenti, di interazione tra cultura alta e cultura bassa, tra materiali nobili e materiali comuni, ma soprattutto, in questo dichiarato spirito di sperimentazione che risiede e si identifica il nucleo dell’eredità dada e duchampiana dell’artista.

Carmen Valentino








Postato il Domenica, 13 marzo 2016 ore 05:00:00 CET di Michelangelo Nicotra
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