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Didattica: Ripensare la cittadinanza

Redazione
Famiglia, clan, quartiere, paese natio sono stati generalmente percepiti come proiezioni naturali della dimensione sociale delle persone e svolgevano nel passato una funzione di protezione e di sostegno all'esigenza di una vita sicura; garantivano un riparo nei momenti di difficoltà. Fino a ieri sono stati fattori di un'integrazione ,che per lo più avveniva come fatto ovvio, quasi inconsapevole, anche se non era priva di elementi di coercizione. Costituivano una comunanza pre-politica, che raramente si sviluppava in un sentimento di appartenenza nazionale, coltivato invece come preciso progetto politico da alcuni settori limitati della nostra società. In virtù di questi legami si era naturalmente parte di una comunità e l'individualità delle persone non si sentiva minacciata da questo rapporto con gli altri. Si era dentro una comunità "naturale", dentro una "società organica", i cui codici valoriali, le cui gerarchie sociali e le cui regole di funzionamento non venivano messi in discussione, se non altro perché per la stragrande maggioranza delle persone non esistevano possibilità di confronto con altre realtà.

I legami di questo genere di "comunità" erano legami particolaristici, legami della tradizione e di costume; veicolavano una visione della vita, accettata come necessaria e ragionevole.
La trasformazione operata dall'industrializzazione e l'emigrazione dalle campagne alla città, dal nord al sud, che ne sono derivate, hanno messo a soqquadro le comunità locali e l'insieme delle relazioni sociali e dei valori che le rendevano coese. Si è venuta a determinare la dispersione atomistica degli individui, lo sradicamento della vita materiale e "mentale" del passato, la proiezione in un contesto di relazioni, di valori e di comportamenti percepiti come inavvicinabili, estranei: motivo allo stesso tempo di sofferenza e di emarginazione.

La società ha visto crescere la fragilità sociale e umana di strati della popolazione, in qualche modo prima protetti dalle cure e dalle attenzioni delle comunità naturali di cui facevano parte; in sostituzione di tali comunità si è nel tempo affermata una società perennemente in cambiamento, in cui la misura del valore delle persone è il successo. La mitologia del successo trionfa sul disfacimento delle relazioni sociali delle precedenti comunità d'appartenenza e sui principi etici che le sorreggevano. Si è trattato di un fragile scudo inadatto a rassicurare negli ampi spazi di solitudine e di abbandono che vengono riservati alla maggior parte delle persone. E' una mitologia che funziona nonostante la lunga scia di vittime che si lascia dietro ;ma resta valida soprattutto per quelli che sono nel pieno dell'età, della carriera e delle privilegiate posizioni sociali avite. Si è venuta a costituire una società in cui è evidente una perdita consistente di interiorità, malamente compensata dalla sollecitazione costante a partecipare a riti di massa e dalla seduzione della marea di consumi, in cui si cerca un'inutile affermazione sociale e si cerca di celebrare mestamente un rito di appartenenza e di differenziazione sociale. Quest'ultima non più affidata alle posizioni di potere, al possesso del patrimonio, alla cultura ma agli oggetti e alla scelte di costume che fanno tendenza.

Le dinamiche individualistiche che si sono scatenate dall'oltrepassamento delle società organiche naturali o pre-industriali ,coltivate ed esaltate,inoculate massicciamente dai media rendono più difficile il reperimento di elementi di coesione, di ancoraggi che diano sicurezza.
Gli strati popolari della società sono quelli che hanno pagato il prezzo più alto di questa messa in libertà dai loro vincoli comunitari, perché fuori da essi sono diventati inermi di fronte alle sollecitazioni individualistiche di bisogni e di aspettative fuori della loro portata; sono stati svuotati della loro identità tradizionale e si sono riempiti di spezzoni disarticolati di altre culture e di altri valori.

Lo Stato ha dovuto assumere il compito di assicurare i legami sociali di cui nessuna comunità, piccola o grande che sia, può fare a meno. Lo ha fatto a volte con la forza, a volte col consenso creato con le iniziative e con le risorse del Welfare. La difficoltà del momento è segnata dalla crisi delle culture politiche che, proprio meditando sui problemi creati dai processi di modernizzazione, avevano cercato di elaborare progetti di comunanza umana a protezione dei più deboli(socialismo, popolarismo di ispirazione cristiana).

E' un problema serio, di equilibrio sociale e di qualità della convivenza, ristabilire il senso di appartenenza alla propria società, dopo avere creato le condizioni della frantumazione delle piccole comunità locali e dopo aver negato addirittura che avesse ancora un senso parlare di società al di là dell'insieme degli individui. E' necessario per coprire parte importante se non integrale della perdita di senso della vita quotidiana. La destra in tutte le sue articolazioni, sfumature e culture a rimedio della dispersione individualistica, con tutti i rischi e pericoli che rappresenta, ha elaborato il modello della società d'ordine (con le sue varianti autoritarie e plebiscitarie); ma ha fatto a meno di confrontarsi col problema dell'equità e della giustizia sociale e in sua sostituzione ha coltivato soluzioni di forza, di esclusione sociale, di violenza, di gerarchizzazione. La sinistra di ispirazione socialista e il movimento popolare di ispirazione cristiana hanno elaborato il modello della società comunitaria, poggiata sul fondamento del principio di uguaglianza in molti modi declinato e di giustizia sociale.

Questa proposta incontra notevoli difficoltà, perché quali che siano le soluzioni date ai propri principi fondativi non può escludere una qualsiasi forma di redistribuzione della risorse disponibili tra le classi sociali. Il percorso dalla dispersione individualistica ad una società comunitaria è reso difficile dal rifiuto delle soluzioni di forza. Per la sinistra in modo particolare il compito non è facile; l'attenuazione se non proprio l'oblio dei temi dell'equità e della redistribuzione delle risorse e contemporaneamente l'assunzione dei temi del radicalismo borghese, espulsi dalla cultura politica conservatrice e incongruenti col modello della società d'ordine (gay, aborto, bioetica) rendono difficile la sintesi di queste differenti prospettive in un progetto di rinnovamento della società.La marginalità affrontata dal radicalismo borghese non è paragonabile a quella sociale, se non per analogia e la loro soluzione non sempre marcia di pari passo con i problemi di natura sociale. Non è un caso che la sinistra perda i ceti popolari e acquisisca i ceti medi, più propensi ad accettare le innovazioni di costume. A parte gli errori, che comunque si pagano con alti interessi, è veramente difficile fare la sinistra del terzo millennio.

Alla dissoluzione dei vecchi vincoli comunitari non si risponde né con il localismo, né con la xenofobia, né con l'esasperazione dell'individualismo, ma con la paziente riscrittura della storia comune e del patto sociale.
Emerge la necessità di ripensare la cittadinanza, il rapporto con lo stato e le istituzioni; una cittadinanza che lasci impregiudicati ampi spazi di autonomia e di libertà e che si faccia carico della responsabilità di garantire pari opportunità per tutti; che ricostruisca sul terreno di una maggiore libertà un grado consistente di coesione sociale: che consenta di sentirci inquilini di diritto di quella casa comune, che è la nostra società.

prof. Raimondo Giunta








Postato il Venerdì, 11 dicembre 2015 ore 02:30:00 CET di Nuccio Palumbo
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