Appartengo ad
una generazione, forse l'ultima, che ha avuto il privilegio
di prefigurare in giovinezza il futuro come sviluppo senza fine, come
accumulazione di benessere, come arricchimento sociale e civile.
Avevamo molto meno cose di quante ne abbiano oggi i giovani, ma ci si
teneva alto il morale con la speranza di una vita migliore. Molto tardi
questa generazione ha cominciato a capire che i propri
figli sarebbero stati i primi nella recente e nella lontana
storia a non potere avere tutto quello che avevano avuto i loro
genitori. Anche se più istruiti; anche se più preparati.
Appartengo ad una generazione che ha ricevuto tanto, che ha goduto
parecchio, ma che lascia poco agli altri che verranno.
Ho visto popolare i paesi di macchine, il mondo di mostruosi ordigni;
il cielo di missili e di astronavi; le case di radio, di tv, di
telefoni, di elettrodomestici; i territori di fabbriche. Ho visto
trasformare il modo di vivere, di lavorare, i rapporti umani, i
rapporti familiari. L'ebbrezza del cambiamento aveva contagiato il modo
di pensare, di porsi di fronte al mondo. Tutto ciò che apparteneva al
passato e voleva ancora appartenerci veniva considerato con fastidio.
Appartengo ad una generazione che aveva ancora una propria terra e una
propria città, prima di entrare a fare parte del villaggio-mondo. E
anche questa era una fortuna... a nostra insaputa.
In Italia la trasformazione da società rurale in società industriale e
post-moderna si è compiuta nel ciclo di vita di lavoro di quelli
che sono nati dopo la guerra. Un cambiamento rapido, impetuoso, che ha
fatto la sue vittime, perché non tutti erano preparati ad
accettarlo e a poterlo assimilare. Non tutti avevano gli strumenti per
farlo in così breve tempo. Tutto ciò per moltissime persone ha
comportato un cambiamento di status sociale e di collocazione
geografica senza pari nella storia nazionale; per milioni di persone è
arrivato il benessere, l'uscita dalla precarietà, dalla fame,
dall'ignoranza. Ma anche lo sradicamento, la solitudine.
Siamo stati, quelli della mia generazione, dentro una colossale,
biblica mobilità sociale verso l'alto; di crescita.
Oggi, quando osservo i giovani e penso al loro futuro vengo preso dallo
sconforto; mi chiedo a che cosa siano serviti il mio impegno nel
lavoro, se non siano state una colossale impostura la
scuola e l'università di massa. Mi pare che così gaudenti e
spendaccioni non vogliano prendere atto di quello che sta
succedendo e della sorte che riserverà loro il futuro. Le fabbriche
chiudono o delocalizzano; la pubblica amministrazione non
assume, il settore dei servizi in continuo e stressante cambiamento
propone lavori precari e mal pagati, lo spostamento dell'età
pensionabile impedisce l'ingresso delle nuove generazioni nel mondo del
lavoro.Si prolunga a sproposito la loro condizione giovanile.
Si comincia a dubitare che ci siano ancora margini di sviluppo,
quantitativo o qualitativo che sia. Non solo è più difficile salire; è
diventato più facile scendere in una società patrimonializzata, dove
sono tornati a contare il conto in banca e il certificato di famiglia,
le case e i terreni di proprietà.
Si può tornare indietro: questo è il problema e le istituzioni sono
governate da persone inadeguate per il compito di restituire la
speranza di un dignitoso futuro alle nuove generazioni.
Il futuro non propone sicurezze, ma perplessità.
prof. Raimondo Giunta