Che la scuola
italiana abbia bisogno di essere cambiata in meglio risalta
immediatamente (cioè senza alcuna ricerca interpretativa) dall'ascolto
delle interviste offerte da politici (e sottosegretari) ai vari media.
Infatti l'eloquio di costoro ed i loro riferimenti culturali fanno
subito capire che non vengono da una buona scuola. Negli anni settanta
e ottanta dello scorso secolo, prima delle varie numerose riforme, ci
sono stati degli esempi di buone scuole. Erano però tutte costose. I
modelli vincenti (studiati ed imitati da vari paesi europei e dagli
stessi Stati Uniti d'America) comprendevano, a livello secondario,
un'ampia libertà di scelta dei curricoli, un periodo iniziale rivolto
scientificamente e rigorosamente all'orientamento professionale, un
chiaro proposito (dopo le scelte ragionate degli indirizzi) di
inclusione pressoché totale degli allievi (dei cento che entravano nei
vari indirizzi cultural-professionalizzanti tutti o quasi si
diplomavano nei cinque anni previsti) anche (a volte) senza alcuna
sessione autunnale di scrutini-esami, un rapporto docenti-allievi sotto
1/10 (perciò il costo elevato). Tale costo tutto compreso, data
l'autonomia finanziaria totale di tali scuole, era di circa cinque
miliardi annui del vecchio conio, stipendi compresi, per un istituto di
circa 800 allievi e 90-100 docenti.
A queste scuole gestite allora dalla cosiddetta direzione tecnica del
ministero si accedeva dai docenti per scelta, salvo poi stabilizzarvisi
con specifica domanda accettata dal comitato scientifico della scuola
stessa. Per alcune discipline opzionali, poi (circa il 20%), i docenti
potevano essere scelti dal suddetto comitato anche da particolari
canali fatti salvi i titoli professionali richiesti.
La normalizzazione arrivò presto con i primi progetti generali di
riforma (dai programmi Brocca in poi, nati da quelle esperienze e
subito osteggiati dai più) e dieci anni dopo circa si avviò il processo
di attribuzione della dirigenza ai capi di istituto, mentre la scuola
perdeva ogni vera autonomia per ragioni squisitamente economiche.
Niente più gestione finanziaria del personale, riduzione costante dei
fondi assegnati, attribuzione totale all'Ente locale (ed alla clientela
relativa) della gestione delle strutture. I nuovi dirigenti, anche o
specie quelli bravi, cominciarono ad occuparsi di come reperire fondi
(dall'Europa, dal MPI, da consorzi e privati) delegando ad alcuni
(anche bravi) docenti la gestione della didattica.
Quindi informatizzazione forzata, abbandono delle biblioteche
scolastiche, promozione e invenzione dei progetti più finanziabili e
popolari (le varie scuole infatti cominciarono a farsi concorrenza tra
loro non per il livello culturale fornito ma per il semplice numero
degli allievi).
Il circolo si chiudeva, mentre la precaria condizione economica dei
docenti restava tra le peggiori d'Europa. Dimenticavo il reclutamento:
contraendosi le classi e le scuole i concorsi divennero "abilitanti",
cioè senza cattedre ma solo con promessa di una futura assunzione e
l'alternativa ai concorsi venne offerta con i deprecabili (mi si
consenta dirlo, avendone ospitati una ventina nelle scuole da me
dirette) corsi universitari per l'abilitazione (SISSIS).
I nuovi dirigenti hanno visto crescere di un 30% circa il proprio
stipendio, dedicandosi così a tutte quelle attività aggiuntive lucrose
(specie IFTS) per nascondere la delusione di essere rimasti molto
distanti economicamente dai dirigenti pubblici, pagando per ciò il
prezzo di un progressivo estraniamento da una vera gestione didattica e
formativa.
Cosa ci vorrebbe oggi?
Una vera azione formativa scolastica che accompagni gli allievi
nell'azione di crescita culturale e professionale, con una forte
inclusione e integrazione, facendo cioè prevalere la cooperazione anche
senza escludere del tutto una vera competizione che non sia escludente
ma fortemente orientativa. Ciò richiede un costantemente aperto
dialogo della scuola con il mondo dell'impresa e della cultura. Quindi
dei docenti stabilizzati in un organico di istituto (basterebbe un
rapporto 100/1000 allievi, ma con una seria verifica delle
professionalità utili e formative), dei capi di istituto (resta questo
il termine più appropriato) che siano capaci di gestione delle
persone nonché capaci e garanti di una corretta didattica formativa
anche in relazione ai nuovi bisogni sociali culturali, ma senza perdere
di vista la specificità del patrimonio culturale italiano unico al
mondo.
Dopo un rapido periodo di assestamento che acceleri la sistemazione di
quelli a cui è stato promesso per certo un lavoro nella scuola (anche
con la necessaria mobilità locale e professionale), si potrebbe tornare
ai vecchi cari concorsi cultural-didattici con i necessari posti messi
in palio, senza creare altre vane aspettative, naturalmente operando a
monte con i dovuti orientamenti e contingentamenti formativi a livello
universitario.
Roberto Laudani
robertolaudani@simail.it